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Afghanistan, caccia alle donne di Kabul: “È la fine"
di Pietro Del Re
Zahira ammazzata dai talebani perché indossava i jeans. La poliziotta Banu uccisa in casa: era incinta di 8 mesi. L’imprenditrice Laila resta nascosta e medita la fuga. Le strade della città si sono svuotate dalla presenza femminile. In giro si vedono solo uomini
Ma dove si nascondono le donne? È quasi mezzogiorno, siamo in giro da più di tre ore e non ne abbiamo vista neanche una camminare per strada ... Da tre settimane, Kabul è una città di soli maschi: malinconica, dunque, monocroma e senza sorrisi. Alle tre del pomeriggio, però, com’era già accaduto sabato, poche decine di afghane sono scese in piazza per chiedere al nuovo regime che siano rispettati i loro diritti, e anche la possibilità di lavorare e di far parte del governo che, dopo tre settimane di gestazione, i talebani stanno per annunciare. Come due giorni fa, anche ieri, la manifestazione è stata dispersa con i lacrimogeni e lo spray al peperoncino appena le donne hanno imboccato la via che porta verso il Palazzo presidenziale.
«La protesta è andata fuori controllo, e siamo stati costretti a intervenire. E poi, queste manifestanti sono troppo impazienti e troppo scalmanate », ci dice nel suo nuovo ufficio Zabizullah Mujahid, ex portavoce dei talebani appena nominato ministro della Cultura. ... «Non ci saranno donne ministro, perché lo vieta la Sharia, poiché una donna non può rivestire un ruolo di eccessivo prestigio. Ma vedrete che ce ne saranno nel governo e che non calpesteremo i loro diritti. Le donne potranno continuare a insegnare e a lavorare, perfino se sono poliziotte. Vent’anni fa, non c’erano le tante scuole e università che ci sono oggi. Tra il 1996 e il 2001 impedimmo a quasi tutte le ragazze di studiare perché non sapevamo bene come comportarci con l’istruzione femminile. Oggi, però, che di licei e di atenei ce ne sono fin troppi, non vieteremo di certo alle studentesse che intendono continuare a frequentarli. Ma dovranno farlo separatamente dai maschi, come impone la legge islamica. Inoltre, dovranno tutte indossare un vestito nero, con un niqab che coprirà loro il volto». Fa una smorfia schifata, l’attivista e imprenditrice Laila Haidani, quando le raccontiamo quanto ci ha detto il ministro. Ci riceve nella sua bella casa in periferia di Kabul, dove finisce l’agglomerato di bazar e di quartieri malconci, ai bordi di una pianura sovrastata da splendide montagne. «Sono tutte frottole», esordisce. «Con l’arrivo dei talebani noi donne abbiamo perso tutto: la speranza, la libertà e soprattutto i diritti acquisiti negli ultimi vent’anni. La caduta di Kabul è stato un uragano che ha distrutto tutto. Quello che fa più male è il tradimento dell’America, che dicendosi democratica e paladina dei diritti umani, ci ha lasciato cadere in un buco nero». Negli ultimi dieci anni Laila ha gestito un centro per tossicodipendenti da lei creato, e finanziato con i proventi di due negozi di scarpe e di un ristorante.
«Tre settimane fa, con la scusa che ero una donna e che avevo lavorato con gli americani, il che è falso, i talebani hanno chiuso tutte mie attività», aggiunge con gli occhi bagnati di pianto. I primi di agosto, Laila sarebbe potuta scappare all’estero ma ha preferito rimanere in Afghanistan per non mettere in pericolo la vita dei suoi famigliari che non erano in grado di seguirla. «Ma adesso sono costretta a tentare nuovamente la fuga per meglio combattere i talebani e per continuare ad aiutare le donne afghane che non hanno i mezzi per difendersi. La caccia alle attiviste, alle giornaliste, alle imprenditrici e alle donne che in politica hanno più osteggiato gli studenti coranici è già cominciata. Ci stanno stanando tutte, casa per casa. Se non riesco a lasciare il Paese, presto verrà il mio turno». Laila ci racconta poi di una ragazza del suo quartiere, assassinata la settimana scorsa soltanto perché indossava i jeans. «Un giovane talebano l’ha fermata mentre rientrava a casa e le ha chiesto perché non era vestita decentemente, con il corpo e il viso coperti. La ragazza, che si chiamava Zahira e che aveva solo vent’anni, ha risposto che quello era il suo stile d’abbigliamento preferito. Lui ha allora tirato fuori la pistola e le ha sparato in testa. Nessuno l’ha arrestato né inquisito per questo orrendo omicidio. Anzi, è probabile che qualche mullah si sia anche complimentato con lui per il suo coraggioso rigore». Ieri, intanto, a Firozkoh, capoluogo della provincia centrale di Ghor, un’altra donna è stata uccisa dai talebani. Si chiamava Banu Negar ed era una poliziotta.
È morta in casa, raggiunta dalla sventagliata di un kalashnikov, sotto gli occhi dei suoi parenti. Negar, che lavorava nella prigione locale, era incinta di otto mesi. I mullah hanno promesso che il caso verrà indagato, ma per paura di ritorsioni è verosimile che i testimoni si rifiuteranno di parlare. Chiediamo all’imprenditrice che cosa pensa delle donne che hanno manifestato ieri e l’altro ieri a Kabul, e venerdì scorso a Kandahar. «Sono battaglie inutili: portano i fiori ai talebani per chiedere il rispetto dei loro diritti, ma gli islamisti non sanno neanche che cosa siano i diritti delle donne. Per combatterli ci vuole altro. Bisogno gridare all’Occidente che gli studenti coranici stanno negando tutte le nostre libertà. E per poterlo fare siamo costrette a lasciare il Paese». Sulle manifestanti di questi giorni, la scrittrice Roeina Shahabi la pensa diversamente. «Stanno compiendo un gesto altamente simbolico. Qualche decina di donne contro il feroce esercito talebano che ha appena sgominato le truppe afghane sostenute dalla prima potenza militare del pianeta. Fa pensare a Davide contro Golia. E poi, è il momento di rivendicare i propri diritti. Ora o mai più. Certo, a scendere in piazza sono molto poche. Ma molte attiviste sono fuggite, e molte altre si nascondono per paura di essere arrestate ». Tra queste, grazie alla nostra giovane interprete, riusciamo a contattare Maniya, la chiameremo così, influencer locale di 22 anni e fuggiasca dal 20 agosto, cinque giorni dopo l’arrivo dei talebani in città. «Sono piombati in casa mia in otto, armati fino ai denti. Si sono comportati come i poliziotti che nei film americani perquisiscono la casa di un sospetto assassino, rovesciando ogni cosa, squarciando i cuscini del salotto, strappando le tende. Quando mio padre ha cercato di reagire, uno di loro gli ha dato un pugno nello stomaco. Sono andati via dopo mezz’ora, dicendomi: “Devi smettere immediatamente di postare messaggi sui social media altrimenti tu e la tua famiglia la pagherete molto cara”». Maniya è fuggita il giorno dopo, portandosi dietro solo uno zainetto per paura di essere pedinata. Da allora, vive nel seminterrato di un palazzo diroccato, dormendo su un vecchio materasso. L’aiutano due suoi amici, che le portano da bere e da mangiare. Ma la ragazza ha paura, perché sa bene che tra pochi mesi la temperatura scenderà sotto lo zero. «Hanno vinto loro», conclude. «È gente senza pietà. Se il mondo non ci salverà, presto distruggeranno la parte migliore dell’Afghanistan. Ci avevano già provato, senza farcela. Senza l’intervento dell’Occidente, stavolta ci riusciranno di sicuro».
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Afghanistan, bastonate alle donne che protestano a Kabul:
«Ma non ci chiuderanno più in casa»
di Lorenzo Cremonesi
Una sessantina di donne hanno protestato a Kabul, marciando verso il palazzo presidenziale: sono le figlie del nuovo Afghanistan (ma i talebani le hanno represse con la violenza)
Un coordinamento delle donne che protestano in strada a Kabul
«Non ci metteranno la museruola. Non ci chiuderanno in casa. Non siamo più le donne afghane di vent’anni fa». Lo gridano forte le giovani donne (e alcune anche meno giovani) che sabato hanno cercato di marciare verso il palazzo presidenziale di Kabul. Una sessantina, ma unite e organizzate. I social e le emittenti locali le hanno riprese mentre sorridevano ai passanti, brandivano i loro cartelli. Per lo più col velo tradizionale sulla testa. Nessuna però col viso e coperto e certo non con il Burqa.
«I talebani ci aspettavano. Si erano preparati sin da venerdì. Hanno mandato la “Badri”, la brigata delle loro truppe scelte migliori. Dovevano disperderci rapidamente. Ma non ci sono riusciti. E hanno dovuto usare la forza», ci spiega per telefono una delle loro leader, Fawzia Wahdat, giovane attivista che non ha paura di postare in rete il suo viso con le dita della mano destra in segno di «v» e la determinazione a lottare. È figlia del nuovo Afghanistan: giornalista, è stata tra i giudici della Commissione elettorale incaricata di vagliare eventuali brogli. E da poco ha ottenuto la laurea in Legge: un curriculum di studi che senza dubbio la rafforza nella sua battaglia per la difesa dei diritti civili.
I filmati delle donne attaccate dai talebani a bastonate, con i lacrimogeni e gas urticanti, ieri verso mezzogiorno hanno fatto il giro del mondo. Si vedono loro che gridano i loro slogan. «Libertà. Libertà. Le donne devono poter essere anche ministre e avere ruoli di responsabilità. Non potrete costringersi a tacere», ripetevano. Una di loro è stata poi fotografata ferita, col sangue alla testa. Tante altre sono state spintonate. Tossivano e lacrimavano vistosamente, cercando di ripararsi naso e bocca con gli scialli. Un’altra manifestante, la 26enne Razia Barakzai, ha raccontato che i talebani le hanno «circondate» nei pressi del ministero delle Finanze, ancora lontane dal palazzo presidenziale. «Ci hanno fermate con la violenza, anche se la nostra manifestazione era del tutto pacifica», dice. Il loro movimento sta crescendo di giorno in giorno. Ieri manifestazioni analoghe si sono tenute a Herat e nella provincia di Nimroz.
«Abbiamo cominciato e non intendiamo fermarci. Cercheremo di mobilitarci ogni giorno, o comunque almeno un paio di volte la settimana, faremo presidi, senza tregua, in più località contemporaneamente. Vogliamo far sapere agli afghani che non è più il momento di subire senza reagire e cerchiamo la solidarietà internazionale. Tante tra noi sono pronte a mettersi in gioco, anche a pagare con la vita», aggiunge Fawzia. Al suo fianco c’erano anche alcuni uomini ieri mattina. Cittadini comuni, passanti, che volevano marciare solidali con le donne. Ma sono stati picchiati duramente. «A noi hanno spruzzato il gas negli occhi. Ma il ragazzo giovane che stava con me l’hanno manganellato duro. Un poliziotto gli ha strappato il cartello che brandiva e lo ha ridotto a brandelli», spiega ancora.
La città che ha visto nascere e crescere queste ragazze sta già cambiando. I talebani cancellano i cartelloni pubblicitari con le immagini di donne, tante hanno accettato di coprirsi per evitare problemi. Alcune non vanno più sole nei luoghi pubblici, ma sempre accompagnate con un uomo maggiorenne di famiglia. Proprio questo temono le manifestanti: la lenta, inesorabile rassegnazione alla sharia, la legge religiosa, secondo l’interpretazione oscurantista talebana. E promettono che domani torneranno in piazza, magari con in tasca gli spicchi di limone da spruzzare sui fazzoletti per proteggersi dai gas.
(fonte: Corriere della Sera 05/09/2021)
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Alla luce di quanto sta accadendo oggi, opportuno leggere questo articolo pubblicato dal Fatto Quotidiano il 16 agosto scorso:
Una ragazza di 24 anni che frequentava l'università ha inviato la sua testimonianza al Guardian: "Sembra di dover bruciare tutto quello che ho realizzato in 24 anni. I guidatori dei mezzi di trasporto pubblico non ci facevano salire per tornare a casa: non volevano prendersi la responsabilità di trasportare una donna". Una giornalista ha raccontato che i talebani "costringono le famiglie a consegnare le ragazze per i loro soldati". Se non ora quando: "Non fare accordi in cui i diritti delle donne diventino merce di scambio"
“Stamattina le mie sorelle e io abbiamo nascosto le nostre carte di identità, i diplomi e i certificati. È stato devastante. Perché dobbiamo nascondere cose di cui dovremmo essere fiere? Sembra di dover bruciare tutto quello che ho realizzato in 24 anni”. È la testimonianza inviata al Guardian da una ragazza che fino a ieri studiava all’università di Kabul. Poi la presa della città da parte dei talebani nella capitale e la resa del governo. La vita che cambia in un attimo. “I guidatori dei mezzi di trasporto pubblico non ci facevano salire per tornare a casa: non volevano prendersi la responsabilità di trasportare una donna”. Intorno, gli uomini che gridano: “Andate a mettervi il burqa“, “Sono i vostri ultimi giorni in giro per le strade“, “Uno di questi sposerò quattro di voi“. E ancora: “Mia sorella ha lasciato la sua scrivania piangendo: “Sapevo che sarebbe stato il mio ultimo giorno di lavoro””. ”Un racconto di terrore, simile a quello di una giovanissima giornalista afghana che pochi giorni fa sempre sul quotidiano britannico raccontava: “Non sono al sicuro perché sono una donna di 22 anni, e so che i Talebani stanno costringendo le famiglie a consegnare le loro figlie e le loro madri per poi darle ai soldati”. ...
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