"Rifare i preti"
di Erio Castellucci
Più che anticipare le numerose, motivate e provocatorie riflessioni che Enrico Brancozzi presenta nel libro Rifare i preti. Come ripensare i Seminari (EDB), da percorrere attentamente, cerco di offrire un piccolo contributo pratico. Leggendo infatti questo libro, ho rafforzato, corretto e meglio articolato nella mia mente un’ipotesi di “riforma dei Seminari” che da almeno otto anni vado proponendo in diverse sedi.
È sempre pericoloso leggere un testo per trovare delle conferme alle proprie tesi precedenti: molti fanno così con il magistero pontificio, selezionando ciò che dà loro ragione e sentendosi così confermati in ciò che pensano. Alcuni lo fanno anche con gli scritti dei vescovi. Mi sono chiesto se non stessi trattando allo stesso modo il presente volume. Ma corro il rischio e rilancio, in edizione ricevuta e corretta – alla luce dello studio dell’Autore – quella semplice ipotesi, che comporta del resto tante varianti.
Cerco di entrare prima di tutto nei panni di un giovane che intraprende la formazione in Seminario, con i suoi desideri e i suoi timori. La casistica ovviamente sarebbe vasta.
Ministero e normalità
Immagino un giovane sincero nelle intenzioni, non troppo problematico, sano di mente: “normale”, insomma. Il desiderio di diventare prete gli deriva da un’esperienza cristiana che gli ha fatto percepire la bellezza della fede, gli ha fatto scoprire la gioia di appartenere a Cristo e quindi, pur tra le difficoltà, anche la possibilità di una umanità spesa per accompagnare altri cammini, per costruire comunità cristiane.
I timori, che si snodano gradualmente nel suo itinerario formativo, si focalizzano sulla tenuta dei preti, viste anche le crisi di cui prende atto, sia di alcuni che lasciano il ministero sia di altri che lo vivono in modo incoerente, lamentoso e insoddisfatto.
A questo timore di base ne sono legati altri, in un intreccio di cause e di effetti non sempre facile da districare, che nel giovane si destano anche di fronte al ministero e alla vita di preti dediti e impegnati: il pericolo di doversi spendere in futuro per mantenere strutture più che per annunciare il Vangelo; il rischio di rifugiarsi in una pastorale tradizionale, che spegne l’entusiasmo e si muove nei binari del “si è sempre fatto così”; le incognite della gestione del tempo, che a volte comprime la preghiera e il riposo in un attivismo esagerato; i dubbi sulla qualità del proprio celibato, dentro una rete di relazioni tendenzialmente molto ampia, ma anche spesso superficiale e funzionale; dubbi accentuati dal dramma della pedofilia anche tra le file del clero.
Può capitare che i timori di questo giovane a poco a poco diventino più forti dei desideri: decide allora di uscire dal Seminario, oppure di continuare, illudendosi che lui costituirà una felice eccezione o avrà comunque la possibilità di ritagliarsi un ministero a propria misura.
Evidentemente non sto parlando della maggioranza dei seminaristi e nemmeno credo che questi sentimenti – desideri e timori – si concentrino tutti sulla stessa persona. Però gli incontri di questi quattro decenni con tanti giovani in formazione verso il presbiterato e poi con tanti preti giovani mi hanno fatto spesso riflettere sulle cause delle crisi, nel tempo del Seminario e in quello del ministero.
La crisi e il ministero
Certo, “crisi” non è di per sé una parola negativa ed è anzi, per molti aspetti, necessaria per crescere. “Crisi” è discernimento, confronto con la realtà, disincanto, maturazione. E tocca tutti i cristiani, anzi tutti gli esseri umani. Il punto non è l’esistenza della crisi, ma la sua interpretazione e la sua gestione.
Quando, in prossimità del Sinodo del 1971 dedicato (anche) al sacerdozio ministeriale, comparve l’espressione “crisi di identità del prete” – espressione assente al Concilio – si intendeva segnalare la difficoltà di fondare teologicamente un ministero ordinato basato sul “carattere indelebile”; era, in altre parole, una crisi di identità teologica, sebbene i suoi effetti – che colpivano l’opinione pubblica, più interessata alla cronaca che alla teologia – fossero di carattere spirituale, pastorale e sociale.
Erano gli anni dell’abbandono in massa del ministero, spesso con un certo clamore mediatico e qualche forte contestazione verso le gerarchie ecclesiastiche; erano gli anni in cui cominciavano decisamente a svuotarsi i Seminari, anche in Italia, prima i minori e poi i maggiori.
Se l’opinione pubblica discuteva, non era certamente per precisare i veri temi che stavano alla base della crisi, ossia il rapporto tra dimensione cristologica ed ecclesiologica del ministero, i fondamenti della successione apostolica o l’origine della teologia del carattere; era piuttosto per chiedersi il valore del celibato ecclesiastico e il senso della limitazione dell’ordinazione ai soli uomini. Fu una crisi che si sviluppò sotto gli occhi di tutti, sia per i grandi numeri sia per l’enorme risonanza.
Questa crisi è terminata? Nel 1992 Giovanni Paolo II, al n. 11 dell’esortazione Pastores dabo vobis, richiamando i lavori del Sinodo di due anni prima, si dimostra piuttosto ottimista e parla di una uscita dalla crisi. A suo parere, seguendo la via di «una retta e approfondita conoscenza della natura e della missione del sacerdozio ministeriale», i Padri sinodali hanno posto le basi «per uscire dalla crisi sull’identità del sacerdote».
Lui stesso, quando era ancora il vescovo Karol Wojtyla, aveva scritto un articolo in prossimità del Sinodo del 1971, nel quale ricostruiva l’origine e l’uso dell’espressione “crisi di identità del prete”. Era dunque da tempo un attento osservatore del fenomeno. Ma forse in questo paragrafo della Pastores dabo vobis si dimostrò eccessivamente ottimista, alla luce degli sviluppi successivi.
La crisi, infatti, non è sicuramente terminata. Oggi assume forme meno eclatanti, quasi “private”, ma non meno preoccupanti. Non sono affatto in calo le richieste di dispensa dal ministero presbiterale e continua in Italia a diminuire i numero dei seminaristi: due indicatori molto chiari di una crisi che continua a farsi sentire. Non è più una nave che si muove facendo fischiare le sirene; è un sommergibile che viaggia senza quasi farsi notare, ma gli effetti sono comunque tangibili. La risonanza nazionale è di solito riservata ai casi di immoralità conclamata; ma localmente spuntano non poche situazioni di crisi personali.
Una formazione aderente alla realtà contemporanea
Il libro di Brancozzi discute nel dettaglio l’elemento che certamente sta alla base di queste difficoltà e di molte altre: la fine della cristianità anche in Italia. Non penso però tanto al fatto in sé, per quanto problematico – un tema che si aprirebbe a infinite discussioni sull’autenticità della cosiddetta “epoca cristiana”, sull’interpretazione della secolarizzazione e così via – ma penso piuttosto alla fatica complessiva della Chiesa italiana, e non solo, a prendere atto creativamente della fine della cristianità.
Con la sua solita perspicacia e parrhesia papa Francesco, nel Discorso di auguri alla Curia romana in prossimità del Natale 2019 lo ha detto incisivamente: «Fratelli e sorelle, non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata». E ha poi richiamato l’espressione dell’ultima intervista del card. Martini, nel 2012, quando disse che la Chiesa era indietro di duecento anni.
Per quanto riguarda il nostro argomento, si potrebbe provare a tradurre così: se crediamo che sia ancora valida la figura di presbiteri totalmente dedicati alla costruzione della comunità ecclesiale, attraverso un servizio celibe stabile di annuncio e presidenza – e ci sono motivi seri per rispondere positivamente – allora possiamo provare, almeno ad experimentum, ad immaginare un ministero evangelicamente più snello e una formazione al ministero diversa rispetto al Seminario attuale.
Parlando in termini generali infatti l’odierno esercizio del ministero e la formazione seminaristica in Italia rispondono più alla situazione di “cristianità” ormai sorpassata che non alla situazione di “pluralismo” ormai affermatosi. L’Autore lo illustra benissimo.
Formiamo preti per un tempo che non c’è più
Non mi riferisco semplicemente ai singoli contenuti della formazione seminaristica e permanente, che grazie a Dio recepiscono e rilanciano quasi dovunque le prospettive del Vaticano II, pur permanendo qua e là qualche sacca di tradizionalismo nel riproporre i modelli del sacerdos alter Christus e del sacerdote come mediator Dei et hominum, mai entrati nei testi conciliari. Mi riferisco piuttosto alla struttura complessiva della nostra pastorale e della formazione seminaristica.
Questa struttura, pur avendo subìto molti e adeguati aggiornamenti nel corso dei secoli e soprattutto negli ultimi decenni, è rimasta però nelle sue linee fondamentali quella impostata dal Concilio di Trento. Chiarendo preventivamente, a scanso di equivoci, che quel Concilio ebbe dei meriti enormi anche su questi due fronti. Rinnovò decisamente la vita pastorale delle diocesi ridotta spesso al lumicino, obbligando parroci e vescovi alla residenza, istituendo le visite pastorali periodiche, consolidando e più spesso rifondando l’esperienza cristiana attorno alle parrocchie, fornite anche dell’importante strumento del “catechismo” per gli adulti.
L’istituzione dei Seminari, con il decreto Cum adolescentium aetas del 15 luglio 1563 (can. 18 dei Decreti di riforma), rispondeva alla necessità di preparare adeguatamente i candidati al sacerdozio ministeriale, attrezzandoli – nello studio e nella vita spirituale – a diventare “pastori” del gregge.
Quella dei Seminari fu una delle riforme provvidenziali di quel grande Concilio, in grado di rispondere alle necessità pastorali delle parrocchie e delle diocesi. Come già cinque secoli prima aveva intuito papa Gregorio VII, e come quattro secoli dopo intuirà il Concilio Vaticano II, ogni riforma grande e incisiva nella Chiesa deve passare anche attraverso il rinnovamento del clero.
Facendo tesoro di alcune esperienze precedenti, come quella del Collegio Capranica e poi del Romano e del Germanico, i padri tridentini intesero dar vita ad un luogo nel quale gli adolescenti che dall’età di dodici anni manifestassero una propensione al sacerdozio, «prima che le cattive abitudini si impadroniscano completamente dell’uomo» (COD 750), fossero accolti e formati alla disciplina, alla cultura generale, alla liturgia, alla spiritualità, alla teologia, alla morale e alla pastorale.
La storia successiva ha registrato il successo di questa riforma e, da quattro secoli e mezzo, il Seminario è il luogo nel quale si formano pastori attrezzati dal punto di vista spirituale, teologico e pastorale. Il riconoscimento più autorevole della validità di questa struttura è venuta proprio dal Concilio Vaticano II, che ha ribadito la necessità dei Seminari maggiori per la formazione sacerdotale (cf. OT 4).
L’ultimo Concilio II ha però integrato questa impostazione, aprendo gli orizzonti sulla gran parte dei “nuovi mondi”, dove la struttura impostata da Trento non esisteva o era molto blanda: la spinta missionaria del Vaticano II ha così avviato riflessioni e prassi più dinamiche, plasmate sul primo annuncio e sulla profezia.
L’illusione di un’eccezione italiana
Nel nostro paese ci siamo illusi, forse troppo, che la “cristianità” tutto sommato tenesse. Fino a qualche anno fa, alcuni parlavano di una “eccezione italiana”, come se vivessimo una sorta di impermeabilità rispetto alla secolarizzazione.
Le strutture sembravano reggere, pur con qualche crepa: chiese e opere parrocchiali, interne ed esterne, abbondavano; tradizioni liturgiche o devozionali secolari erano partecipate; gli organismi pastorali, come i consigli e i ministeri laicali, tutto sommato c’erano; alcuni Seminari riuscivano a conservare dei numeri accettabili; perfino le istituzioni pubbliche – politiche, amministrative e culturali – mostravano un desiderio di mantenere buoni contatti con il “mondo ecclesiastico”.
La situazione, insomma, sembrava molto distante da quella che si era creata nelle Chiese del Nord Europa, travolte dalla scristianizzazione, sebbene non fosse più quella, ritenuta ideale, dell’Est Europa e specialmente della Polonia.
Ho esagerato volutamente alcuni toni e trascurato molte sfumature, ma credo che il quadro non sia molto lontano dalla realtà.
Ora, lasciando da parte il quadro generale appena abbozzato, e molto meglio descritto nel volume di Brancozzi, provo a rilanciare un’ipotesi diversa per la formazione dei futuri presbiteri o, se si vuole, un diverso modello di Seminario.
Credo che gli stessi padri di Trento, se si riunissero oggi, darebbero vita ad un Seminario differente rispetto a quello da loro provvidenzialmente impostato; e lo farebbero, credo, proprio sulla base della medesima istanza di allora: la necessità di formare presbiteri capaci di essere pastori e di stare in mezzo al gregge. Probabilmente però – continuo con una certa dose di presunzione – non punterebbero sul presidio del territorio ma sulla prossimità al popolo di Dio.
Formazione ed esercizio del ministero
Negli anni ’90 del secolo scorso, quando ero un presbitero felice nella mia diocesi di Forlì-Bertinoro, un amico frate francescano, durante una riunione del Centro diocesano vocazioni, fece un intervento che mi colpì.
Disse che i frati sono avvantaggiati nel vivere la loro vocazione rispetto ai preti diocesani, perché gli anni della loro formazione sono impostati in maniera omogenea al tipo di vita che poi condurranno dopo la professione; anche se il Convento non sarà più il medesimo, i ritmi della giornata, la scansione del tempo, il tipo di servizio ecclesiale riprodurranno sostanzialmente i tratti degli anni della preparazione. I preti diocesani, invece – così l’amico frate – si formano secondo il ritmo dei religiosi, se non addirittura dei monaci, e poi, una volta usciti, conducono un tipo di vita totalmente differente
Questa osservazione mi colpì. Non che non avessi mai pensato a questa tensione tra il Seminario e il ministero successivo, ma l’avevo sempre risolta nella dinamica del concentrarsi prima per essere poi efficaci nella missione, secondo la scansione stabilita da Gesù stesso – a volte indicata come fondamento biblico del Seminario – nell’atto di costituire i Dodici, che “chiamò perché stessero con lui e anche per mandarli a predicare”… (Mc 3,14).
Il periodo della formazione sarebbe lo “stare con” Gesù, mentre quello del ministero ecclesiale sarebbe il tempo della missione e della predicazione. In realtà, ora sono convinto che il Seminario dovrebbe costituire per i presbiteri diocesani un’esperienza maggiormente omogenea alla vita che successivamente condurranno, segnata dal ministero pastorale, e che quindi dovrebbe integrare meglio entrambi i momenti: lo stare con Gesù e l’andare tra gli uomini.
I significativi mutamenti dello scenario sociale, psicologico e pastorale, potrebbero oggi essere letti come “segni dei tempi” che consigliano una riforma strutturale, e non dei semplici aggiustamenti, del Seminario nato dal Concilio di Trento, almeno per quanto concerne l’Occidente secolarizzato.
Quali candidati al ministero?
Come nota bene Brancozzi, la tipologia dei candidati al presbiterato è profondamente mutata negli ultimi secoli e specialmente, con una forte accelerata, negli ultimi decenni: se il candidato pensato da Trento era l’adolescente che varcava le porte del Seminario a undici-dodici anni per uscirne, a Dio piacendo, una dozzina di anni dopo perfettamente formato e pronto ad affrontare una realtà certo non facile ma comunque piuttosto omogenea dal punto di vista culturale, il seminarista occidentale di oggi è un giovane o un adulto che varca le porte del Seminario dopo una laurea o alcuni anni di lavoro, che a volte è sprovvisto di studi classici e persino di una solida base catechistica; la probabile fragilità della sua famiglia d’origine – fenomeno in continua crescita – contribuisce a indebolire quella identità affettiva già messa alla prova dal relativismo etico.
Inoltre, la figura teologico-spirituale del presbitero plasmata negli ultimi cinquant’anni è più completa rispetto a quella uscita da Trento, avendo il Vaticano II ricondotto all’ordinazione sacramentale non solo l’abilitazione al compito cultuale, ma anche a quello profetico e a quello pastorale; il presbitero è stato ricollocato nella trama delle relazioni ecclesiali, come fratello tra fratelli nel popolo di Dio e appartenente ad una famiglia diocesana, il “presbiterio”, che, insieme al vescovo e ai diaconi, costituisce il soggetto ministeriale fondamentale di una Chiesa locale; è stato sbalzato da un piedistallo artificiale che ne faceva un “uomo del sacro” innalzato sugli altri uomini ed è stato ricollocato, come “ministero” (da minus), ai piedi dei fratelli, in continuità con il gesto diaconale scelto da Gesù nell’ultima cena (cf. Gv 13,1-17).
Ma soprattutto il presbitero del Vaticano II non è un monaco o un religioso dedicato anche all’apostolato, bensì un ministro la cui attività pastorale stessa contribuisce a plasmarne la vita spirituale. L’ultimo Concilio affermò infatti che l’esercizio del ministero sacerdotale non solo esige ma anche favorisce la santità (cf. PO 13); che la esiga era dottrina tradizionale, pienamente adeguata al modello del prete-monaco o del prete-religioso; che la favorisca è invece dottrina piuttosto recente, ispirata direttamente ad alcune riflessioni espresse dal card. Mercier all’inizio del XX sec., tese ad affermare l’esistenza di una spiritualità propria del “clero diocesano” basata sull’apostolato, senza il bisogno di mutuarne i tratti dai religiosi o dai monaci.
Come mette in evidenza PO 13, sono gli atti stessi di annunciare la parola, celebrare i sacramenti ed esercitare la cura pastorale del popolo di Dio a offrire i tratti specifici della spiritualità dei presbiteri, in particolare di quelli diocesani. Esiste una sorta di “circolo virtuoso” tra contemplazione e azione, tra santità e apostolato; esiste un movimento di ritorno che, nell’esercizio stesso del ministero, plasma la vita spirituale dei presbiteri.
La dottrina del Vaticano II sui presbiteri comporta dunque, riassumendo: il loro pieno inserimento nella comunità cristiana e non una collocazione sopra di essa; l’appartenenza al presbiterio nel superamento di un ministero individuale; l’abilitazione sacramentale al triplice compito di annunciare, celebrare e pascere, e non ai soli atti di culto; e soprattutto l’integrazione degli atti del ministero nella vita spirituale e non la loro collocazione dopo la vita spirituale.
Papa Francesco invita pressantemente ad un rinnovamento che sia nel contempo prudente e audace.
Oltre il seminario
È certo necessario rinnovare continuamente, dall’interno della struttura esistente, lo spirito, le motivazioni, le funzioni del Seminario, come fa tra l’altro la Ratio fundamentalis italiana, approvata nel 2007, quando accoglie anche l’idea della spiritualità diocesana e radica il ministero e la vita dei presbiteri nella “carità pastorale” (cf. ECEI 8/978-979).
Ma proprio per questo non dovrebbe essere più un tabù l’ipotesi di un cambiamento strutturale del Seminario, almeno in via sperimentale in qualche diocesi, regione o nazione, seguendo alcuni spunti offerti dall’arcidiocesi di Parigi, che dal tempo del card. Lustiger, aprì una via nuova e diversa rispetto al Seminario che conosciamo: una via che comportava un anno di orientamento comune, detto “anno spirituale”, poi una suddivisione in gruppi in alcune “case parrocchiali” (maisons paroissiales) per un biennio e un triennio, ancora a gruppi, in alcune “case non parrocchiali” (maisons non paroissiales).
Tutti i seminaristi si incontravano comunque quotidianamente per frequentare le lezioni di teologia e periodicamente per gli Esercizi spirituali e alcuni momenti di formazione e di fraternità. Non dico che questo schema debba essere riproposto – la stessa arcidiocesi parigina lo ha rivisto e coretto – ma penso che sia possibile almeno riflettere e sperimentare: adelante con juicio.
Una certa varietà di percorsi verso il presbiterato diocesano è del resto riscontrabile anche in Italia, sebbene in maniera meno strutturata e meno sganciata dal modello tridentino. Non è dunque inesplorata l’ipotesi di offrire percorsi diversificati verso il sacerdozio ministeriale. Ben sapendo che non esiste una ricetta infallibile e che ogni proposta ha vantaggi e controindicazioni, al solo scopo di suscitare una riflessione e un dibattito, mi azzardo a riproporre una (parziale) alternativa sperimentale all’attuale struttura del Seminario.
È certo indispensabile, alla luce della grande eterogeneità di coloro che manifestano interesse verso la vocazione al ministero sacerdotale, un anno propedeutico: per verificare la retta intenzione dei candidati, colmare le principali lacune culturali in campo umanistico, porre le basi catechistiche, avviarsi alla vita spirituale e comunitaria. Questo tempo non dovrebbe essere allungato in via normale oltre l’anno. Non convince – come nota anche l’Autore – la tendenza a dilatare i tempi della formazione rispetto ai già lunghi sette anni, perché non sempre l’estensione cronologica corrisponde ad una maggiore incisività e intensità; a volte anzi estenua.
Un biennio di vita comune tra i seminaristi sul modello “tridentino” attuale, eventualmente nella forma regionale o interdiocesana, è sicuramente utile: per staccarsi dall’ambiente di provenienza e conoscere esperienze diverse, per concentrarsi sugli studi filosofico-teologici, recentemente riformati e resi più esigenti, per vivere un’intensa esperienza comunitaria marcata anche da ritmi custoditi e guidati, per impostare una regola di vita personale e approfondire con serenità gli aspetti fondamentali della sequela di Gesù nella vita del ministero sacerdotale.
Il triennio successivo potrebbe svolgersi in piccole comunità presso parrocchie scelte dal vescovo, seguendo i criteri che già oggi vigenti nell’assegnazione delle parrocchie di servizio ai seminaristi: una parrocchia nella quale il parroco e altre auspicabili figure ministeriali possano garantire una certa vita comunitaria, sia nella preghiera sia nel confronto e nei momenti di fraternità; dove il seminarista possa vivere un’esperienza di relazione ricca anche con i laici, senza essere fagocitato dagli impegni; una situazione logistica che permetta di studiare e ritirarsi per il tempo necessario alla meditazione, alla preghiera personale e allo studio della teologia.
Frequentare la scuola di teologia o di scienze religiose e ritagliare tempi adeguati di studio può essere in questo modo più difficile, ma è condizione comune a tanti studenti universitari; ed è in ogni caso un allenamento che prepara i seminaristi a mantenere anche dopo, da presbiteri, tempi adeguati di studio e formazione permanente quotidiana.
Nella comunità
L’anno di diaconato potrebbe essere vissuto abitando nella famiglia di un diacono permanente, in modo da recuperare quella connotazione “domestica” che il ministero rivestiva nei primi secoli, quando la vita cristiana si svolgeva nelle case e il vescovo era considerato – e spesso era – un padre di famiglia, i presbiteri i fratelli più grandi e saggi, e i diaconi erano plasmati sulla figura dei servi nella casa.
In tal modo, il futuro presbitero può meglio recuperare quelle relazioni familiari dalle quali si era distaccato uscendo dalla famiglia d’origine ed entrando nel periodo formativo. Un’esperienza di questo tipo aiuta ad avviarsi al ministero presbiterale in maniera umile e concreta, avendo ben presenti i problemi quotidiani di una famiglia.
Naturalmente, anche nelle ultime due fasi saranno necessari momenti di incontro di tutti i seminaristi (e i diaconi), per ritiri, Esercizi spirituali, giorni di vacanza, assemblee.
Accennavo alle varianti, che possono essere molte: una almeno – menzionata anche nel volume di Brancozzi ed espressa tra gli altri dal vescovo Gualtiero Sigismondi – è l’istituzione di un anno di “stacco”, nel corso del cammino formativo, nel quale il seminarista viva un’esperienza forte di prossimità o, ancora meglio, di missione ad gentes. Lascerebbe certamente un solco indelebile nella sua vita e lo aiuterebbe, nel futuro ministero, a relativizzare tante questioni e “beghe interne” che rischiano poi di apparire primarie rispetto alle esigenze dell’evangelizzazione.
Le obiezioni a una ristrutturazione sperimentale di questo tipo sono molte: vi è una difficoltà psicologica nel rivedere una visione monolitica di Seminario e adottarne una più articolata, dislocata e dinamica; esistono varie difficoltà pratiche, legate alla probabile scarsità di parrocchie in grado di rispondere ai requisiti richiesti; sussistono inoltre diversi problemi relativi alla possibilità di accedere agli studi teologici del triennio per coloro che non hanno una Facoltà o uno Studio a portata di mano, a meno che non si consideri la possibilità di convalidare alcuni corsi presso gli ISSR, talvolta di qualità non inferiore alle istituzioni teologiche.
Le fatica di trovare presbiteri adatti ad accompagnare i seminaristi nelle parrocchie non sono tuttavia maggiori di quelle attuali, stante il fatto che poche diocesi sono ora in grado di offrire educatori già maturi e inseriti vitalmente nella pastorale della diocesi.
Le ragioni per un cambiamento
Più numerosi appaiono i vantaggi. Il fatto che i seminaristi vivano già negli anni di preparazione una condizione omogenea a quella che vivranno da presbiteri porta ad avvertire meno quel salto dalla formazione all’impegno pastorale che talvolta determina gravi difficoltà e ripensamenti.
I candidati in questa ipotesi, dopo avere vissuto i primi tre anni in comunità – uno propedeutico e il biennio filosofico-teologico – imparano nei tre anni successivi a custodire momenti della preghiera e meditazione, la vita liturgica, lo studio e la vita comunitaria e fraterna e a rapportarli in maniera adeguata al servizio pastorale. Tanto più se avranno vissuto anche un anno in una realtà caritativa o missionaria.
La “supervisione” degli educatori – ormai senza i tempi garantiti dalla struttura – sarà sufficiente a sviluppare la capacità personale di armonizzare le diverse dimensioni della vita presbiterale.
L’inserimento vivo nella propria Chiesa locale, attraverso una parrocchia, sviluppa in modo naturale la dimensione “diocesana” della spiritualità del futuro presbitero; una spiritualità a volte studiata e teorizzata, ma raramente sperimentata in modo incisivo.
L’esperienza di contatto quotidiano con una parrocchia e – nell’anno di diaconato – con una famiglia, rappresenta un elemento importante per l’integrazione degli affetti nella personalità umana, cristiana e presbiterale; a volte un presbitero appena uscito dal Seminario fatica a gestire le relazioni specialmente con le donne; anche perché attualmente sono ancora pochi i Seminari nei quali è stata accolta l’esortazione della Pastores dabo vobis al n. 66, ribadita nella Ratio fundamentalis del 2016 della Congregazione per il Clero al n. 151 (e ricordata dall’Autore), ad inserire strutturalmente figure femminili nella formazione dei futuri presbiteri.
Infine, la presenza di piccole comunità di seminaristi nelle parrocchie costituisce già da sola una pastorale vocazionale efficace e capillare, poiché i giovani si lasciano spontaneamente interrogare più dallo stile di vita di coetanei che si stanno preparando al ministero presbiterale in mezzo a loro, che dalle meditazioni e dalle omelie sulla chiamata al presbiterato.
Naturalmente è solo un’ipotesi, e si possono pensare parecchie altre modalità. Mi rendo ben conto che il problema fondamentale non risiede nella forma della preparazione, ma nel contesto pastorale più ampio nel quale si inseriranno i giovani presbiteri e nelle possibilità reali, per la comunità cristiana, di suscitare, plasmare e discernere un cammino vocazionale così impegnativo. Ma questa ipotesi va appunto nella direzione di una osmosi tra il prima e il dopo; una osmosi che interroga a fondo anche il dopo, ossia la vita dei presbiteri inseriti nella pastorale e la figura delle nostre comunità cristiane, specialmente di quelle parrocchiali.
Ripensare la pastorale nel suo complesso
Un ripensamento del Seminario (trovando magari un altro nome) può avere un senso, quindi, nel contesto di un più globale ripensamento della pastorale dell’esercizio del ministero: sono necessarie scelte coraggiose e impopolari, da parte delle diocesi e dei loro pastori (questa è la famosa zappa sui piedi), per semplificare le strutture, alleggerire con diete adeguate il peso burocratico, amministrativo e gestionale che grava sui parroci, rilanciare in maniera sinodale gli organismi di partecipazione, rivedere il senso di alcune espressioni religiose tradizionali, che qualche volta hanno perso la loro anima cristiana.
Una dieta di questo tipo aiuta i preti a dedicarsi con maggiore entusiasmo alla parola di Dio, alla crescita delle persone e delle comunità, all’aggiornamento e alla preghiera e a dosare meglio i tempi del riposo e dell’azione. E aiuta coloro che si orientano a diventare preti a ridurre i loro timori verso il futuro, perché vedono che non è solo possibile, ma anche appassionante, dedicarsi totalmente all’edificazione della comunità cristiana, mantenendo lo spessore umano e la fede, nella consapevolezza di essere, sì, minoranza: ma “minoranza creativa” (Benedetto XVI).
Questo articolo è il saggio introduttivo al libro di Enrico Brancozzi Rifare i preti. Come ripensare i Seminari (EDB, Bologna 2021, pp. 191, € 16,00, ISBN 978-88-10-41314-2). L’autore del libro è rettore del Semiario di Fermo e insegna materie teologiche presso l’Istituto Teologico Marchigiano.Erio Castellucci è arcivescovo di Modena-Nonatola e vescovo di Carpi, e vice presidente della Conferenza episcopale italiana.
(fonte: Settimana News 20 settembre 2021)