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martedì 14 settembre 2021

Viaggio di Papa Francesco a Budapest e in Slovacchia (12-15 settembre 2021) Bratislava Cerimonia di benvenuto e incontro con le autorità - Incontro con i vescovi (testi, foto e video)

VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO
A BUDAPEST, IN OCCASIONE DELLA SANTA MESSA CONCLUSIVA
DEL 52.mo CONGRESSO EUCARISTICO INTERNAZIONALE, 
E IN SLOVACCHIA
12-15 SETTEMBRE 2021


Lunedì, 13 settembre 2021

BRATISLAVA
9:15 Cerimonia di benvenuto presso il Palazzo Presidenziale a Bratislava
9:30 Visita di cortesia alla Presidente della Repubblica nella “Sala d’oro” del Palazzo Presidenziale a Bratislava
10:00 Incontro con le Autorità, la Società civile e il Corpo Diplomatico nel giardino del Palazzo Presidenziale a Bratislava
10:45 Incontro con i Vescovi, Sacerdoti, Religiosi/e, Seminaristi e Catechisti presso la Cattedrale di San Martino a Bratislava

INCONTRO CON LE AUTORITÀ, LA SOCIETÀ CIVILE E IL CORPO DIPLOMATICO 

Giardino del Palazzo Presidenziale (Bratislava)


Il Papa è arrivato alle 9 nel palazzo presidenziale di Bratislava, seconda città visitata nel suo 34° viaggio apostolico, dove è arrivato ieri pomeriggio dopo la messa conclusiva del Congresso eucaristico internazionale a Budapest. Al suo arrivo, il Santo Padre è stato accolto dalla Presidente della Repubblica di Slovacchia, Zuzana Čaputová, all’ingresso del palazzo dove ha luogo la cerimonia di benvenuto. Due bambini in abiti tradizionali hanno offerto al Santo Padre il pane e il sale in segno di amicizia e accoglienza. 


Poi il Papa e la presidente raggiungono la postazione per la foto ufficiale. Dopo l’esecuzione degli inni, la Guardia d’Onore e la presentazione delle rispettive delegazioni, il Papa e la presidente si recano nella Sala d’Oro del palazzo presidenziale, dove alle 9.30 ha luogo la visita di cortesia. Dopo la Firma del Libro d’Onore in cui ha scritto: “Pellegrino a Bratislava, abbraccio con affetto il popolo slovacco e prego per questo Paese dalle radici antiche e dal volto giovane, perché sia un messaggio di fraternità e di pace nel cuore dell’Europa", l’incontro privato. Al termine la presidente della Repubblica accompagna Papa Francesco nella Sala Verde adiacente dove avviene lo scambio dei doni e la presentazione della famiglia. Quindi si recano nel giardino del palazzo presidenziale per l’Incontro con le autorità, i rappresentanti della società civile e i membri del Corpo Diplomatico.










DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO


Signora Presidente,
Membri del Governo e del Corpo diplomatico,
distinte Autorità civili e religiose,
Signore e Signori!

Esprimo la mia gratitudine alla Presidente Zuzana Čaputová per le parole di benvenuto che mi ha rivolto, anche a nome vostro e della popolazione. Saluto tutti voi, manifestandovi la gioia di essere in Slovacchia. Sono venuto pellegrino in un Paese giovane ma dalla storia antica, in una terra dalle radici profonde situata nel cuore d’Europa. Davvero mi trovo in una “terra di mezzo”, che ha visto tanti passaggi. Questi territori hanno fatto da confine all’Impero romano e sono stati luoghi d’interazione tra cristianesimo occidentale e orientale; dalla grande Moravia al Regno ungherese, dalla Repubblica cecoslovacca ad oggi, avete saputo, tra non poche prove, integrarvi e distinguervi in modo essenzialmente pacifico: ventotto anni fa il mondo ammirò la nascita senza conflitti di due Paesi indipendenti.

Questa storia chiama la Slovacchia a essere un messaggio di pace nel cuore dell’Europa. È quanto suggerisce la grande striscia blu della vostra bandiera, che simboleggia la fratellanza con i popoli slavi. È di fraternità che abbiamo bisogno per promuovere un’integrazione sempre più necessaria. Essa urge ora, in un momento nel quale, dopo durissimi mesi di pandemia, si prospetta, insieme a molte difficoltà, una sospirata ripartenza economica, favorita dai piani di ripresa dell’Unione Europea. Si può correre tuttavia il rischio di lasciarsi trasportare dalla fretta e dalla seduzione del guadagno, generando un’euforia passeggera che, anziché unire, divide. La sola ripresa economica, inoltre, non è sufficiente in un mondo dove tutti siamo connessi, dove tutti abitiamo una terra di mezzo. Mentre su vari fronti continuano lotte per la supremazia, questo Paese riaffermi il suo messaggio di integrazione e di pace, e l’Europa si distingua per una solidarietà che, valicandone i confini, possa riportarla al centro della storia.

La storia slovacca è segnata indelebilmente dalla fede. Auspico che essa aiuti ad alimentare in modo connaturale propositi e sentimenti di fraternità. Potete attingerli dalle grandiose vite dei santi fratelli Cirillo e Metodio. Essi hanno diffuso il Vangelo quando i cristiani del continente erano uniti; e oggi ancora essi uniscono le Confessioni di questa terra. Si riconoscevano di tutti e cercavano la comunione con tutti: slavi, greci e latini. La solidità della loro fede si traduceva così in una spontanea apertura. È un’eredità che siete chiamati a raccogliere in questo momento, per essere anche in questo tempo un segno di unità.

Cari amici, non scompaia mai dai vostri cuori questa vocazione alla fraternità, ma accompagni sempre la simpatica genuinità che vi caratterizza. Voi sapete riservare grande attenzione all’ospitalità: mi colpiscono le espressioni tipiche dell’accoglienza slava, che ai visitatori offre il pane e il sale. E vorrei ora prendere spunto da questi doni semplici e preziosi, impregnati di Vangelo.

Il pane, scelto da Dio per rendersi presente tra noi, è essenziale. La Scrittura invita a non accumularlo, ma a condividerlo. Il pane di cui parla il Vangelo viene sempre spezzato. È un messaggio forte per il nostro vivere comune: ci dice che la ricchezza vera non consiste tanto nel moltiplicare quanto si ha, ma nel condividerlo equamente con chi abbiamo intorno. Il pane, che spezzandosi evoca la fragilità, invita in particolare a prendersi cura dei più deboli. Nessuno venga stigmatizzato o discriminato. Lo sguardo cristiano non vede nei più fragili un peso o un problema, ma fratelli e sorelle da accompagnare e custodire.

Il pane spezzato ed equamente condiviso richiama l’importanza della giustizia, del dare a ciascuno l’opportunità di realizzarsi. È necessario adoperarsi per costruire un futuro in cui le leggi si applichino equamente a tutti, sulla base di una giustizia che non sia mai in vendita. E perché la giustizia non rimanga un’idea astratta, ma sia concreta come il pane, è da intraprendere una seria lotta alla corruzione e va anzitutto promossa e diffusa la legalità.

Ancora, il pane si lega inscindibilmente a un aggettivo: quotidiano (cfr Mt 6,11), pane quotidiano. Il pane di ogni giornata è il lavoro, che ne occupa la gran parte. Come senza pane non c’è nutrimento, senza lavoro non c’è dignità. Alla base di una società giusta e fraterna vige il diritto che a ciascuno sia corrisposto il pane del lavoro, perché nessuno si senta emarginato e si veda costretto a lasciare la famiglia e la terra di origine in cerca di maggiori fortune.

«Voi siete il sale della terra» (Mt 5,13). Il sale è il primo simbolo che Gesù impiega insegnando ai suoi discepoli. Esso, prima di tutto, dà gusto ai cibi, e fa pensare a quel sapore senza il quale la vita rimane insipida. Non bastano infatti strutture organizzate ed efficienti per rendere buona la convivenza umana, occorre sapore, occorre il sapore della solidarietà. E come il sale dà sapore solo sciogliendosi, così la società ritrova gusto attraverso la generosità gratuita di chi si spende per gli altri. È bello che i giovani, in particolare, vengano motivati in questo, perché si sentano protagonisti del futuro del Paese e lo prendano a cuore, arricchendo con i loro sogni e con la loro creatività la storia che li ha preceduti. Non c’è rinnovamento senza i giovani, spesso illusi da uno spirito consumistico che sbiadisce l’esistenza. Tanti, troppi in Europa si trascinano nella stanchezza e nella frustrazione, stressati da ritmi di vita frenetici e senza trovare dove attingere motivazioni e speranza. L’ingrediente mancante è la cura per gli altri. Sentirsi responsabili per qualcuno dà gusto alla vita e permette di scoprire che quanto diamo è in realtà un dono che facciamo a noi stessi.

Il sale, ai tempi di Cristo, oltre che a dare sapore, serviva a conservare gli alimenti, preservandoli dal deterioramento. Vi auguro di non permettere mai che i fragranti sapori delle vostre migliori tradizioni siano guastati dalla superficialità dei consumi e dei guadagni materiali. E nemmeno dalle colonizzazioni ideologiche. In queste terre, fino ad alcuni decenni fa, un pensiero unico precludeva la libertà; oggi un altro pensiero unico la svuota di senso, riconducendo il progresso al guadagno e i diritti ai soli bisogni individualistici. Oggi, come allora, il sale della fede non è una risposta secondo il mondo, non sta nell’ardore di intraprendere guerre culturali, ma nella semina mite e paziente del Regno di Dio, anzitutto con la testimonianza della carità, dell’amore. La vostra Costituzione menziona il desiderio di edificare il Paese sull’eredità dei Santi Cirillo e Metodio, patroni d’Europa. Essi, senza imposizioni e senza forzature, fecondarono con il Vangelo la cultura generando processi benefici. È questa la strada: non la lotta per la conquista di spazi e di rilevanza, ma la via indicata dai Santi, la via delle Beatitudini. Da lì, dalle Beatitudini, scaturisce la visione cristiana della società.

I Santi Cirillo e Metodio hanno inoltre mostrato che custodire il bene non significa ripetere il passato, ma aprirsi alla novità senza sradicarsi. La vostra storia annovera tanti scrittori, poeti e uomini di cultura che sono stati il sale del Paese. E come il sale brucia sulle ferite, così le loro vite sono spesso passate attraverso il crogiuolo della sofferenza. Quante personalità illustri sono state rinchiuse in carcere, rimanendo libere dentro e offrendo esempi fulgidi di coraggio, coerenza e resistenza all’ingiustizia! E soprattutto di perdono. Questo è il sale della vostra terra.

La pandemia, invece, è la prova del nostro tempo. Essa ci ha insegnato quanto è facile, pur nella stessa situazione, disgregarsi e pensare solo a sé stessi. Ripartiamo invece dal riconoscimento che siamo tutti fragili e bisognosi degli altri. Nessuno può isolarsi, come singoli e come nazioni. Accogliamo questa crisi come un «appello a ripensare i nostri stili di vita» (Lett. enc. Fratelli tutti, 33). Non serve recriminare sul passato, occorre rimboccarsi le maniche per costruire insieme il futuro. Vi auguro di farlo con lo sguardo rivolto verso l’alto, come quando guardate ai vostri splendidi monti Tatra. Lì, tra i boschi e le vette che puntano al cielo, Dio sembra più vicino e il creato si rivela come la casa intatta che nei secoli ha ospitato tante generazioni. I vostri monti collegano in un’unica catena cime e paesaggi variegati, e travalicano i confini del Paese per congiungere nella bellezza popoli diversi. Coltivate questa bellezza, la bellezza dell’insieme. Ciò richiede pazienza, ciò richiede fatica, ciò richiede coraggio e condivisione, ciò richiede slancio e creatività. Ma è l’opera umana che il Cielo benedice. Dio vi benedica, Dio benedica questa terra. Nech Boh žehná Slovensko! [Dio benedica la Slovacchia!] Grazie.

Guarda il video integrale


Piccolo fuori programma prima del successivo incontro nella Cattedrale di San Martino, dove sono raccolti i vescovi, i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i seminaristi e i catechisti. I giornalisti chiedono a Papa Francesco come sta e lui risponde "Sono ancora vivo".

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INCONTRO CON I VESCOVI, SACERDOTI, RELIGIOSI/E, SEMINARISTI E CATECHISTI 

Cattedrale di San Martino (Bratislava)


A Bratislava, nella Cattedrale di San Martino, Papa Francesco incontra i vescovi, i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i seminaristi e i catechisti. Il Papa viene accolto all’ingresso della Cattedrale dall’Arcivescovo di Bratislava Monsignor Stanislav Zvolenský e dal parroco, che gli porge il crocifisso e l’acqua benedetta per l’aspersione.

Prima di arrivare all’altare, il Papa riceve dei fiori da un seminarista e da una catechista, che depone davanti al Santissimo. Dopo una breve preghiera in silenzio, il Papa raggiunge nuovamente l’altare. 

Monsignor Stanislav Zvolenský, Presidente della Conferenza Episcopale della Slovacchia, Arcivescovo Metropolita di Bratislava, saluta con affetto il Papa. "I nostri cuori tremano di emozione, come in quel momento quando il Sommo Pontefice San Giovanni Paolo II anni fa entrò in questo tempio. Per noi è una visita molto cara, gioiosamente attesa. La Sua presenza ci fa sentire l’universalità e l’unità della Madre Chiesa. Gli Slovacchi hanno sempre amato e rispettato il Santo Padre. E amano e rispettano Papa Francesco! Noi ogni giorno chiediamo l’aiuto di Dio per Lei, pregando, anche cantando", dice Monsignor Stanislav Zvolenský.









Gli slovacchi oggi hanno bisogno di una Chiesa “che forma alla libertà interiore e responsabile, che sa essere creativa immergendosi nella storia e nella cultura, e che sa dialogare con il mondo”. E’ il cammino che Papa Francesco indica ai 4 milioni di cattolici del Paese, ai duemila catechisti, ai 300 seminaristi, ai tremila sacerdoti, rappresentati da coloro che insieme ai 22 vescovi lo ascoltano nella Cattedrale di san Martino nel primo vero incontro con la comunità dei fedeli e dei pastori della Chiesa che è in Slovacchia e nel suo discorso consegna alla Chiesa della Slovacchia tre parole: libertà, creatività, dialogo.

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO


Cari fratelli Vescovi,
Cari sacerdoti, religiose, religiosi e seminaristi,
Cari catechisti, sorelle e fratelli, buongiorno!

Vi saluto con gioia e ringrazio Mons. Stanislav Zvolenský per le parole che mi ha rivolto. Grazie per l’invito a sentirmi a casa: vengo come vostro fratello e perciò mi sento uno di voi. Sono qui per condividere il vostro cammino – questo deve fare il vescovo, il Papa –, le vostre domande, le attese e le speranze di questa Chiesa e di questo Paese. E, parlando del Paese, ho appena detto alla Signora Presidente che la Slovacchia è una poesia! Condividere era lo stile della prima Comunità cristiana: erano assidui e concordi, camminavano insieme (cfr At 1,12-14). Litigavano pure, ma camminavano insieme.

È la prima cosa di cui abbiamo bisogno: una Chiesa che cammina insieme, che percorre le strade della vita con la fiaccola del Vangelo accesa. La Chiesa non è una fortezza, non è un potentato, un castello situato in alto che guarda il mondo con distanza e sufficienza. Qui a Bratislava il castello già c’è ed è molto bello! Ma la Chiesa è la comunità che desidera attirare a Cristo con la gioia del Vangelo – non il castello! –, è il lievito che fa fermentare il Regno dell’amore e della pace dentro la pasta del mondo. Per favore, non cediamo alla tentazione della magnificenza, della grandezza mondana! La Chiesa deve essere umile come era Gesù, che si è svuotato di tutto, che si è fatto povero per arricchirci (cfr 2 Cor 8,9): così è venuto ad abitare in mezzo a noi e a guarire la nostra umanità ferita.

Ecco, è bella una Chiesa umile che non si separa dal mondo e non guarda con distacco la vita, ma la abita dentro. Abitare dentro, non dimentichiamolo: condividere, camminare insieme, accogliere le domande e le attese della gente. Questo ci aiuta a uscire dall’autoreferenzialità: il centro della Chiesa… Chi è il centro della Chiesa? Non è la Chiesa! E quando la Chiesa guarda sé stessa, finisce come la donna del Vangelo: curvata su sé stessa, guardandosi l’ombelico (cfr Lc 13,10-13). Il centro della Chiesa non è se stessa. Usciamo dalla preoccupazione eccessiva per noi stessi, per le nostre strutture, per come la società ci guarda. E questo alla fine ci porterà a una “teologia del trucco”… Come ci trucchiamo meglio… Immergiamoci invece nella vita reale, la vita reale della gente e chiediamoci: quali sono i bisogni e le attese spirituali del nostro popolo? Che cosa si aspetta dalla Chiesa? A me sembra importante provare a rispondere a queste domande e mi vengono in mente tre parole.

La prima è libertà. Senza libertà non c’è vera umanità, perché l’essere umano è stato creato libero e per essere libero. I periodi drammatici della storia del vostro Paese sono un grande insegnamento: quando la libertà è stata ferita, violata e uccisa, l’umanità è stata degradata e si sono abbattute le tempeste della violenza, della coercizione e della privazione dei diritti.

Allo stesso tempo, però, la libertà non è una conquista automatica, che rimane tale una volta per tutte. No! La libertà è sempre un cammino, a volte faticoso, da rinnovare continuamente, lottare per essa ogni giorno. Non basta essere liberi esteriormente o nelle strutture della società per esserlo davvero. La libertà chiama in prima persona a essere responsabili delle proprie scelte, a discernere, a portare avanti i processi della vita. E questo è faticoso, questo ci spaventa. Talvolta è più comodo non lasciarsi provocare dalle situazioni concrete e andare avanti a ripetere il passato, senza metterci il cuore, senza il rischio della scelta: meglio trascinare la vita facendo ciò che altri – magari la massa o l’opinione pubblica o le cose che ci vendono i media – decidono per noi. Questo non va. E oggi tante volte facciamo le cose che decidono i media per noi. E si perde la libertà. Ricordiamo la storia del popolo di Israele: soffriva sotto la tirannia del faraone, era schiavo; poi viene liberato dal Signore, ma per diventare veramente libero, non solo liberato dai nemici, deve attraversare il deserto, un cammino faticoso. E veniva da pensare: “Quasi quasi era meglio prima, almeno avevamo un po’ di cipolle da mangiare…”. Una grande tentazione: meglio un po’ di cipolle che la fatica e il rischio della libertà. Questa è una delle tentazioni. Ieri, parlando al gruppo ecumenico, ricordavo Dostoevskij con “Il grande inquisitore”. Cristo torna in terra di nascosto e l’inquisitore lo rimprovera per aver dato la libertà agli uomini. Un po’ di pane e qualcosina basta; un po’ di pane e qualcos’altro basta. Sempre questa tentazione, la tentazione delle cipolle. Meglio un po’ di cipolle e di pane che la fatica e il rischio della libertà. Lascio a voi di pensare a queste cose.

A volte anche nella Chiesa questa idea può insidiarci: meglio avere tutte le cose predefinite, le leggi da osservare, la sicurezza e l’uniformità, piuttosto che essere cristiani responsabili e adulti, che pensano, interrogano la propria coscienza, si lasciano mettere in discussione. È l’inizio della casistica, tutto regolato… Nella vita spirituale ed ecclesiale c’è la tentazione di cercare una falsa pace che ci lascia tranquilli, invece del fuoco del Vangelo che ci inquieta, che ci trasforma. Le sicure cipolle d’Egitto sono più comode delle incognite del deserto. Ma una Chiesa che non lascia spazio all’avventura della libertà, anche nella vita spirituale, rischia di diventare un luogo rigido e chiuso. Forse alcuni sono abituati a questo; ma tanti altri – soprattutto nelle nuove generazioni – non sono attratti da una proposta di fede che non lascia loro libertà interiore, non sono attratti da una Chiesa in cui bisogna pensare tutti allo stesso modo e obbedire ciecamente.

Carissimi, non abbiate timore di formare le persone a un rapporto maturo e libero con Dio. Importante è questo rapporto. Questo forse ci darà l’impressione di non poter controllare tutto, di perdere forza e autorità; ma la Chiesa di Cristo non vuole dominare le coscienze e occupare gli spazi, vuole essere una “fontana” di speranza nella vita delle persone. È un rischio. È una sfida. Lo dico soprattutto ai Pastori: voi esercitate il ministero in un Paese nel quale tante cose sono rapidamente cambiate e sono stati avviati molti processi democratici, ma la libertà è ancora fragile. Lo è soprattutto nel cuore e nella mente delle persone. Per questo vi incoraggio a farle crescere libere da una religiosità rigida. Uscire da questo, e che crescano liberi! Nessuno si senta schiacciato. Ognuno possa scoprire la libertà del Vangelo, entrando gradualmente nel rapporto con Dio, con la fiducia di chi sa che, davanti a Lui, può portare la propria storia e le proprie ferite senza paura, senza finzioni, senza preoccuparsi di difendere la propria immagine. Poter dire: “Sono peccatore”, ma dirlo con sincerità, non batterci il petto e poi continuare a crederci giusti. La libertà. L’annuncio del Vangelo sia liberante, mai opprimente. E la Chiesa sia segno di libertà e di accoglienza!

Sono sicuro che questo mai si saprà da dove viene. Vi dico una cosa che è successa tempo fa. La lettera di un Vescovo, parlando di un Nunzio. Diceva: “Mah, noi siamo stati 400 anni sotto i turchi e abbiamo sofferto. Poi 50 sotto il comunismo e abbiamo sofferto. Ma i setti anni con questo Nunzio sono stati peggiori delle altre due cose!”. A volte mi domando: quanta gente può dire lo stesso del vescovo che ha o del parroco? Quanta gente? No, senza libertà, senza paternità le cose non vanno.

Seconda parola – la prima era libertà –: creatività. Siete figli di una grande tradizione. La vostra esperienza religiosa trova il suo luogo sorgivo nella predicazione e nel ministero delle luminose figure dei Santi Cirillo e Metodio. Essi ci insegnano che l’evangelizzazione non è mai una semplice ripetizione del passato. La gioia del Vangelo è sempre Cristo, ma le vie perché questa buona notizia possa farsi strada nel tempo e nella storia sono diverse. Le vie sono tutte diverse. Cirillo e Metodio percorsero insieme questa parte del continente europeo e, ardenti di passione per l’annuncio del Vangelo, arrivarono a inventare un nuovo alfabeto per la traduzione della Bibbia, dei testi liturgici e della dottrina cristiana. Fu così che divennero apostoli dell’inculturazione della fede presso di voi. Furono inventori di nuovi linguaggi per trasmettere il Vangelo, furono creativi nel tradurre il messaggio cristiano, furono così vicini alla storia dei popoli che incontravano da parlarne la loro lingua e assimilarne la cultura. Non ha bisogno di questo anche oggi la Slovacchia? Mi domando. Non è forse questo il compito più urgente della Chiesa presso i popoli dell’Europa: trovare nuovi “alfabeti” per annunciare la fede? Abbiamo sullo sfondo una ricca tradizione cristiana, ma per la vita di molte persone, oggi, essa rimane nel ricordo di un passato che non parla più e che non orienta più le scelte dell’esistenza. Dinanzi allo smarrimento del senso di Dio e della gioia della fede non giova lamentarsi, trincerarsi in un cattolicesimo difensivo, giudicare e accusare il mondo cattivo, no, serve la creatività del Vangelo. Stiamo attenti! Ancora il Vangelo non è stato chiuso, è aperto! È vigente, è vigente, va avanti. Ricordiamo cosa fecero quegli uomini che volevano portare un paralitico davanti a Gesù e non riuscivano a passare dalla porta di ingresso. Aprirono un varco sul tetto e lo calarono dall’alto (cfr Mc 2,1-5). Furono creativi! Davanti alla difficoltà – “Ma come facciamo?... Ah, facciamo questo” –, davanti, forse, a una generazione che non ci crede, che ha perso il senso della fede, o che ha ridotto la fede a un’abitudine o a una cultura più o meno accettabile, cerchiamo di aprire un buco e siamo creativi! Libertà, creatività… Che bello quando sappiamo trovare vie, modi e linguaggi nuovi per annunciare il Vangelo! E noi possiamo aiutare con la creatività umana, anche ognuno di noi ha questa possibilità, ma il grande creativo è lo Spirito Santo! È Lui che ci spinge a essere creativi! Se con la nostra predicazione e con la nostra pastorale non riusciamo a entrare più per la via ordinaria, cerchiamo di aprire spazi diversi, sperimentiamo altre strade.

E qui faccio una parentesi. La predicazione. Qualcuno mi ha detto che in “Evangelii gaudium” mi sono fermato troppo sull’omelia, perché è uno dei problemi di questo tempo. Sì, l’omelia non è un sacramento, come pretendevano alcuni protestanti, ma è un sacramentale! Non è una predica di Quaresima, no, è un’altra cosa. È nel cuore dell’Eucaristia. E pensiamo ai fedeli, che devono sentire omelie di 40 minuti, 50 minuti, su argomenti che non capiscono, che non li toccano… Per favore, sacerdoti e vescovi, pensate bene come preparare l’omelia, come farla, perché ci sia un contatto con la gente e prendano ispirazione dal testo biblico. Un’omelia, di solito, non deve andare oltre i dieci minuti, perché la gente dopo otto minuti perde l’attenzione, a patto che sia molto interessante. Ma il tempo dovrebbe essere 10-15 minuti, non di più. Un professore che ho avuto di omiletica, diceva che un’omelia deve avere coerenza interna: un’idea, un’immagine e un affetto; che la gente se ne vada con un’idea, un’immagine e qualcosa che si è mosso nel cuore. Così, semplice, è l’annuncio del Vangelo! E così predicava, Gesù che prendeva gli uccelli, che prendeva i campi, che prendeva questo… le cose concrete, ma che la gente capiva. Scusatemi se torno su questo, ma a me preoccupa… [applauso] Mi permetto una malignità: l’applauso lo hanno incominciato le suore, che sono vittime delle nostre omelie!

Cirillo e Metodio hanno aperto questa creatività nuova, lo hanno fatto e ci dicono questo: non può crescere il Vangelo se non è radicato nella cultura di un popolo, cioè nei suoi simboli, nelle sue domande, nelle sue parole, nel suo modo di essere. I due fratelli furono ostacolati e perseguitati molto, lo sapete. Venivano accusati di eresia perché avevano osato tradurre la lingua della fede. Ecco l’ideologia che nasce dalla tentazione di uniformare. Dietro il volersi uniformi c’è un’ideologia. Ma l’evangelizzazione è un processo di inculturazione: è seme fecondo di novità, è la novità dello Spirito che rinnova ogni cosa. Il contadino semina – dice Gesù –, poi va a casa e dorme. Non si alza per vedere se cresce, se germoglia… È Dio che dà la crescita. Non controllare troppo in questo senso la vita: lasciare che la vita cresca, come hanno fatto Cirillo e Metodio. A noi spetta seminare bene e custodire come padri, questo sì. Il contadino custodisce, ma non va lì a vedere tutti i giorni come cresce. Se fa questo, uccide la pianta.

Libertà, creatività, e infine, il dialogo. Una Chiesa che forma alla libertà interiore e responsabile, che sa essere creativa immergendosi nella storia e nella cultura, è anche una Chiesa che sa dialogare con il mondo, con chi confessa Cristo senza essere “dei nostri”, con chi vive la fatica di una ricerca religiosa, anche con chi non crede. Non è selettiva di un gruppetto, no, dialoga con tutti: con i credenti, con quelli che portano avanti la santità, con i tiepidi e con i non credenti. Parla con tutti. È una Chiesa che, sull’esempio di Cirillo e Metodio, unisce e tiene insieme l’Oriente e l’Occidente, tradizioni e sensibilità diverse. Una Comunità che, annunciando il Vangelo dell’amore, fa germogliare la comunione, l’amicizia e il dialogo tra i credenti, tra le diverse confessioni cristiane e tra i popoli.

L’unità, la comunione e il dialogo sono sempre fragili, specialmente quando alle spalle c’è una storia di dolore che ha lasciato delle cicatrici. Il ricordo delle ferite può far scivolare nel risentimento, nella sfiducia, perfino nel disprezzo, invogliando a innalzare steccati davanti a chi è diverso da noi. Le ferite, però, possono essere varchi, aperture che, imitando le piaghe del Signore, fanno passare la misericordia di Dio, la sua grazia che cambia la vita e ci trasforma in operatori di pace e di riconciliazione. So che voi avete un proverbio: «A chi ti tira un sasso, tu dona un pane». Questo ci ispira. È molto evangelico questo! È l’invito di Gesù a spezzare il circolo vizioso e distruttivo della violenza, porgendo l’altra guancia a chi ci percuote, per vincere il male con il bene (cfr Rm 12,21). Mi colpisce un particolare della storia del Cardinale Korec. Era un Cardinale gesuita, perseguitato dal regime, imprigionato, costretto a lavorare duramente finché si ammalò. Quando venne a Roma per il Giubileo del 2000, andò nelle catacombe e accese un lumino per i suoi persecutori, invocando per loro misericordia. Questo è Vangelo! Questo è Vangelo! Cresce nella vita e nella storia attraverso l’amore umile, attraverso l’amore paziente.

Carissime e carissimi, ringrazio Dio di essere tra voi, e ringrazio di cuore voi per quello che fate e per quello che siete, e per quello che farete ispirandovi a questa omelia, che è anche un seme che io sto seminando… Vediamo se crescono le piante! Vi auguro di continuare il vostro cammino nella libertà del Vangelo, nella creatività della fede e nel dialogo che sgorga dalla misericordia di Dio, che ci ha resi fratelli e sorelle, e ci chiama ad essere artigiani di pace e di concordia. Vi benedico di cuore. E, per favore, pregate per me. Grazie!

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All'uscita dalla cattedrale Francesco si ferma a salutare religiose e fedeli che lo attendevano.





Papa Francesco subito dopo rientra in auto alla Nunziatura Apostolica di Bratislava.

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