«Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese. Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza e nell’anonimato. La mia vita non ha più valore di un’altra».
Aveva scritto così nel suo testamento, stilato tra il dicembre 1993 e il gennaio 1994: poco più di due anni dopo, nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996, frère Christian de Chergé - priore del monastero trappista di Notre-Dame de l'Atlas in Algeria, veniva preso in ostaggio insieme a sei confratelli da un commando del Gia (Gruppo islamico armato). I loro corpi martoriati furono ritrovati dopo 56 giorni.
Una vicenda, quella dei monaci di Tibhirine che a vent’anni di distanza non cessa di indurre una riflessione sul sangue dei «martiri di oggi» – come li ha definiti Papa Bergoglio all’Angelus del 6 marzo scorso in riferimento alle quattro missionarie della carità uccise in Yemen - ed è significativo che il loro anniversario cada quest’anno proprio alla veglia pasquale.
Sono stati testimoni (traduzione del termine greco, martire) della loro fede in un Dio che considera figli e fratelli tutti gli uomini della terra, testimoni di una convinzione profondamente evangelica: la possibilità di una pacifica convivenza tra le diverse religioni al di là di ogni fondamentalismo.
Il loro monastero in Algeria, come quello di Deir Mar Musa fondato da padre Paolo Dall’Oglio - l’uno arroccato sui monti dell’Atlas, l’altro sul monte Libano davanti al deserto siriano - entrambi luoghi in cui la fede cristiana aveva imparato a convivere con l’islam.
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Un “martirio d’amore”. In un’omelia del Giovedì Santo, padre Christian de Chergé definiva così la testimonianza estrema di Cristo sulla croce. E un martirio di amore e fedeltà al Vangelo e all’Algeria fu quello dei monaci trappisti, rapiti (e poi uccisi) esattamente vent’anni fa. Il loro ricordo nelle parole dei vescovi, insieme a quello degli altri dodici martiri di quel Paese
«La testimonianza di Gesù sino alla morte, il suo “martirio”, è un martirio d’amore, amore per l’uomo, per tutti gli uomini, anche di ladri, assassini, carnefici… Il martirio include il perdono…». Così diceva Christian de Chergè, priore del monastero di Tibhirine, nella sua omelia del Giovedì Santo, nel marzo 1994.
Insieme ad altri sei confratelli, venne rapito due anni dopo, nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996. Esattamente vent’anni fa. Ma il ricordo dei monaci – così come quello di tutti i 19 martiri d’Algeria – è ancora vivo e continua a essere una luce non solo per la piccola Chiesa di quel Paese, ma per tutta la Chiesa universale.
In attesa delle celebrazioni, che si svolgeranno a metà aprile in Algeria, i vescovi di quel Paese indirizzano a tutti i fratelli e le sorelle che continuano a vivere sul posto (non senza difficoltà) e a tutti gli amici sparsi per il mondo il loro ricordo di queste 19 vite donate, che si mescolano a quelle di moltissimi algerini uccisi durante gli anni bui della guerra civile.
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