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martedì 28 aprile 2020

Non è un continente per vecchi di Giuseppe Savagnone

Non è un continente per vecchi
di Giuseppe Savagnone


Cronaca di una strage annunziata

Il coronavirus non ama gli anziani. È di ieri la constatazione fatta dal direttore regionale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per l’Europa, Hans Kluge, secondo cui in Europa quasi la metà delle persone che sono morte con il Covid-19 erano residenti in “strutture di assistenza a lungo termine”, vale a dire residenze per anziani. Con una particolare preferenza per le Rsa (Residenze sanitarie assistenziali), destinate ai non autosufficienti.

Kluge ha parlato di «una tragedia umana inimmaginabile». Che sia una tragedia è sicuro. Che fosse inimmaginabile è meno certo. Fin dall’inizio di questa pandemia si sapeva che le persone anziane e disabili sarebbero state le più vulnerabili al virus. Su questo, almeno, i virologi non hanno litigato. Per giustificare o almeno capire quanto è accaduto – in Italia come in tanti altri Paesi – non si può dunque invocare la sorpresa.

Sono morti soli.

Quello che ha reso più lacerante il distacco, per loro come per i loro familiari, è stato il fatto di non poter nemmeno esser vicini in questo momento decisivo, in cui tante ferite, tante incomprensioni, tanti conflitti – tra genitori e figli, tra coniugi –, possono essere recuperati e sanati da un’ultima parola o anche semplicemente da una carezza, o da un sorriso. Nel dolore per la morte di un congiunto colpito da coronavirus c’è stato anche questo rimpianto struggente per un saluto di addio non dato, per un estremo atto d’amore rimasto inespresso. Molti lo porteranno come una ferita per tutta la vita.

Questo dramma, comune a tutte le vittime di questa pandemia e dai loro cari, nel caso degli anziani della case di riposo è stato spesso acuito da un contesto di mancata trasparenza, che ha reso in molti casi inaspettata la notizia non solo del decesso, ma addirittura della malattia del congiunto, o almeno della sua gravità: «Mi hanno detto: sua madre è una roccia. Dopo due giorni era gravissima».

Il caso Lombardia

Torniamo alla domanda: era davvero una tragedia «inimmaginabile»? Quello che si sapeva della estrema fragilità delle persone più anziane davanti alla minaccia del virus non era sufficiente per “immaginare” il pericolo incombente e prendere alcune necessarie precauzioni allo scopo di blindare e mettere in sicurezza delle residenze dove queste persone erano radunate?

Eppure queste precauzioni non sono state prese. In nessun Paese d’Europa. Meno che mai in Italia. Emblematico il caso delle Rsa della Regione Lombardia, il cui sistema sanitario è notoriamente il più efficiente a livello nazionale, e che di questa efficienza ha voluto dar prova costruendo a tempo di record un nuovo ospedale, alla Fiera. Un’impresa tecnicamente ammirevole, che ha consentito alla giunta regionale di ostentare orgogliosamente la propria distanza da un governo nazionale spesso assai poco incisivo e sbandierando questa intraprendenza come una prova del proprio diritto alla più ampia autonomia a cui aspira da tempo (il governatore Fontana ha parlato addirittura di Conte come del «vostro» presidente del Consiglio).

In realtà, però, alla fine l’ospedale è rimasto vuoto, inutile monumento dell’amministrazione regionale a se stessa, e, mentre gli amministratori erano intenti a questa prova di forza, si sono dimenticati che gli anziani erano quelli più a rischio.

Un cerino nel pagliaio

Così, con una delibera dell’8 marzo – lo stesso giorno in cui il vituperato governo nazionale istituiva la “zona rossa” in tutta la Lombardia e in 14 province limitrofe, mostrando di aver finalmente compreso, anche se in ritardo, la gravità della minaccia – la giunta regionale invitava le case di riposo lombarde ad accogliere dei pazienti malati di coronavirus “a bassa intensità”. La motivazione era «la necessità di liberare rapidamente posti letto di terapia intensiva e sub intensiva e in regime di ricovero ordinario degli ospedali per acuti».

Commentando, più tardi, quella delibera, Luigi Degani, presidente di Uneba Lombardia, l’associazione di categoria che mette insieme circa 400 case di riposo di tutta la regione, ha osservato: «Chiederci di ospitare pazienti con i sintomi del Covid 19 è stato come accendere un cerino in un pagliaio: quella delibera della giunta regionale l’abbiamo riletta due volte, non volevamo credere che dalla Regione Lombardia potesse arrivarci una richiesta così folle». 

Pochi giorni dopo, infatti, diverse associazioni di categoria avevano scritto all’assessore Gallera una lettera in cui protestavano contro quella decisione: «Una scelta di questo genere» – si legge nella lettera – «sarebbe assolutamente contraria a qualsiasi forma di tutela sanitaria per una popolazione significativamente anziana (mediamente ultra ottantacinquenne) che, laddove si trovasse in una situazione di contagio, sarebbe esposta ad un rischio altissimo e ben più ampio di quello della media della popolazione italiana».

Per non allarmare i pazienti

Soltanto il 4 aprile un editoriale di Gad Lerner su «Repubblica» rivelava che la direzione del Pio Albergo Trivulzio, il polo geriatrico più importante d’Italia, con oltre milleduecento anziani ricoverati, per tutto il mese di marzo aveva occultato la diffusione del Covid-19 nei suoi reparti, lasciando che il virus contagiasse numerosi pazienti e operatori sanitari.

Nell’articolo si denunziava anche il fatto che il professor Luigi Bergamaschini, geriatra fra i più qualificati di Milano, fosse stato esonerato, il 3 marzo, per avere autorizzato l’uso delle mascherine chirurgiche al personale alle sue dipendenze. Contravvenendo all’esplicito divieto della direzione a medici e paramedici di indossarle, «per non allarmare i pazienti».

A partire da qui, una serie di inchieste della magistratura e del ministero della salute che hanno portato alla luce quello che il presidente del «Comitato giustizia e verità per le vittime del Trivulzio» ha definito un «agghiacciante quadro di malasanità». 

«Non abbiamo sbagliato niente»

Eppure ancora il 5 aprile l’assessore della regione al Territorio e alla Protezione civile, Pietro Foroni, si ostinava ad affermare orgogliosamente in una conferenza stampa: «C’è anche da riconoscere – e penso sia un dato oggettivo – che fino ad ora, come Regione Lombardia, le abbiamo azzeccate tutte».

Da parte sua, sempre a proposito delle Rsa, il governatore Fontana ha replicato con sufficienza all’ondata di critiche: «Credo proprio che non abbiamo assolutamente sbagliato niente», e ha scaricato la responsabilità delle sue scelte sui “tecnici”: «Sono stati i nostri tecnici» – ha dichiarato il presidente lombardo – «che ci hanno fatto la proposta e valutato condizioni delle singole case di riposo e noi ci siamo adeguati». Come se chi governa non fosse eletto dal popolo – lui, non i suoi consulenti (chi sono?) – per assumersi la responsabilità delle scelte…

Quello che è sicuro è che, a seguito di questa sciagurata decisione, sia al Pio Albergo Trivulzio che in diverse altre Rsa lombarde gli anziani ospiti sono stati decimati dal Covid-19, senza che per settimane si prendessero provvedimenti .

Un esempio di “cultura dello scarto”

Ma quello della Lombardia è soltanto un esempio. E non riguarda solo le case di riposo. Si diceva che la strage delle persone anziane si è consumata in tutti i Paesi europei (e non solo). Ovunque, anche se probabilmente in forme diverse, la motivazione è stata la stessa che emerge dalla delibera della Regione Lombardia: la necessità di liberare posti di terapia intensiva, risorse, personale, per salvare la vita di persone più giovani, anche a costo di sacrificare quella di persone più anziane. Un perfetto esempio di quello che papa Francesco ha definito una volta «cultura dello scarto».

Un’alternativa di fondo

A un livello politico più generale, la scelta davanti a cui questa pandemia ha posto i governi è stata, fin dall’inizio, quella fra una strategia volta a limitare il più possibile il numero dei morti con misure di confinamento costosissime sul piano economico, perché implicanti la chiusura dei negozi, degli uffici, delle fabbriche, e una che invece puntasse sulla “immunità di gregge”, accettando un alto tasso di mortalità come un prezzo da pagare per continuare a far funzionare l’economia. Tenendo conto, in questa seconda ipotesi, del fatto che a morire sarebbero state soprattutto le persone anziane, ormai “inutili” ai fini della crescita del Pil.

L’Italia al livello nazionale ha seguito subito la prima linea, attirandosi derisone e concorrenza sleale da parte di chi non chiudeva. Altri Paesi, come il Regno Unito di Boris Johnson e gli Stati Uniti di Donald Trump, avevano puntato sulla seconda, trovandosi poi però costretti a rinnegarla – o almeno mitigarla – davanti alle previsioni di un costo umano eccessivo.

Ma la tentazione è rimasta e aleggia, in Europa e in Italia, nelle continue sollecitazioni a “riaprire”, quali che siano i rischi per la popolazione (specialmente anziana). C’è, senza dubbio, l’esigenza di limitare i danni una catastrofe economica che colpirà comunque giovani e anziani. Ma è presente anche l’idea che “gli affari sono affari” e che qualche migliaio di morti, specie se improduttivi, è un prezzo tutto sommato sopportabile.

I morti si dimenticano

Il coronavirus è dunque venuto a evidenziare spietatamente logiche già presenti, anche se sottotraccia, nella cultura europea ed Occidentale. Né basta il moto di orrore suscitato nell’opinione pubblica da questa strage silenziosa per cambiare un orientamento radicato. I morti si dimenticano facilmente. Così come i giovani tendono a dimenticare che un giorno anche loro saranno anziani.