"La sua misericordia ci fa risorgere con lui,
perché Dio ci cambia amandoci. ...
e a misericordia ci chiede di essere misericordiosi"
don Matteo Zuppi, cardinale
arcivescovo di Bologna
omelia
Domenica in Albis, Seconda di Pasqua
Bologna, basilica di Santo Stefano
19-04-2020
Ci troviamo nella Basilica di Santo Stefano, uno dei luoghi più spirituali e importanti della nostra città e della nostra Chiesa. Siamo nella Chiesa del Santo Sepolcro, che la fede dei cristiani ci ha donato perché potessimo rivivere l’emozione di quel luogo e contemplare il centro della nostra fede, da cui nasce, come la stessa collocazione artistica ci aiuta a vedere, il Verbum Domini, come l’angelo che continua a parlare a noi.
Qui capiamo che la memoria del Corpus Domini è viva. Ci emoziona contemplare l’amore di Cristo, figlio di Dio, che ama fino alla fine, la durezza della fine, la tomba, la pietra rimossa e la vita che apre agli uomini del mondo la via per diventare uomini e uomini del cielo.
Oggi è il giorno della nuova ed eterna alleanza, che ci affranca dall’inganno del male e del male più grande, il suo frutto più amaro, ultimo, la morte. Tutti noi siamo Adamo, reso vulnerabile, fragile dal male, che ha paura di se stesso e di Dio scappa perché ha perso la pienezza dell’amore.
Possiamo non scappare più né dalla nostra debolezza né da Dio perché siamo amati e Dio ci è venuto a cercare lui. A Pasqua “il giorno di Dio entra nelle notti della storia” diceva Papa Benedetto Pasqua è la manifestazione piena della misericordia di Dio, che non ci offre un amore condizionato, selettivo, limitato, ma pieno e per tutti.
La sua misericordia ci fa risorgere con lui, perché Dio ci cambia amandoci. Egli rischia chiamando i peccatori, ma è venuto per salvare non per giudicare o condannare. Non vuole i sacrifici ma la misericordia, cioè cerca il nostro cuore, non le apparenze, le maschere, le ipocrisie, la superficie. Il cuore.
La misericordia ci chiede di essere misericordiosi. “Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia” (Mt5,7), come a dire che la sua misericordia – regalata come l’abbraccio del Padre al figlio giovane risorto dal peccato, che suscita la rabbia del maggiore, giusto ma non misericordioso – non resta con noi se noi stessi non la usiamo verso tutti. La perdiamo se ne facciamo un possesso, un diritto, come quel debitore, cui fu condonato un debito enorme ma che non era diventato misericordioso.
Questi giorni sono segnati da un buio grande, ci fanno sentire fragili, incerti, come storditi, increduli, ma anche diffidenti proprio come Tommaso. La resurrezione non vuol dire che non dobbiamo più combattere contro il male, ma che sappiamo che non vince più e che possiamo riconoscere nell’oggi la gloria della vittoria piena! Pietro ce lo ricorda: “Siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove, affinché la vostra fede, messa alla prova, torni a vostra lode”.
E’ la gioia che possiamo vivere anche in queste nostre difficoltà, nelle quali capiamo il dono della fede, cioè di amarlo “pur senza averlo visto”.
E la Chiesa è la comunità di uomini che risorgono con Gesù, che hanno fede e mettono in pratica il comandamento (non un suggerimento, un’indicazione facoltativa o necessaria solo per qualcuno!) dell’amore vicendevole. La Chiesa non è un’etnia, un gruppo whats-app, un club, una mutua di solidarietà, ma dei fratelli chiamati da Gesù e che intorno a Lui si vogliono bene concretamente come il maestro ha fatto vedere loro.
“Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune”, come una famiglia vera, che vive insieme la dimensione materiale e spirituale. In questi giorni non abbiamo potuto vivere quella fisica, ma questa dolorosa distanza ci aiuta a capire il dono di una casa e di fratelli e a esserlo con tutto noi stessi. La comunità è e sarà sempre molto concreta, come quel fratello più piccolo di Gesù che ci ricorderà se gli abbiamo dato o non dato da mangiare e bere. La Comunità prega (“Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio”), apparecchia la mensa della Parola e dell’Eucarestia, spezza il pane nelle case perché la Chiesa è una famiglia, dove non c’è mio e tuo, perché tutto è mio proprio perché tutto è tuo, come nell’amore.
Le loro proprietà e sostanze le con –dividevano e il criterio non era astratto o ideologico ma molto concreto e fraterno: il bisogno di ciascuno, che non è mai uguale per tutti. Facevano tutto e sempre con letizia e semplicità di cuore: con allegria, perché chi ama affronta anche i problemi con gioia e con semplicità, senza le tortuosità dell’orgoglio, dei rancori, dei calcoli, delle bugie, dei confronti, che rendono impenetrabili e complicati.
Lodavano Dio, perché tutto è grazia e non perché avevano ottenuto qualcosa, sentivano la sua misericordia e godevano il favore di tutto il popolo, cioè si facevano volere bene perché chi è amico di Dio è amico dell’uomo e di tutti gli uomini, benevolo, accogliente, generoso. L’altro è il suo prossimo!
I discepoli avevano chiuso la porta per proteggersi e Gesù la attraversa, perché il suo amore libera dalla paura. Tommaso aveva chiuso la porta del cuore. Non c’era quel giorno in cui Gesù era apparso ai fratelli. Era da solo. Il suo isolamento è dentro il suo cuore. Forse aveva iniziato a pensare che era ingenuo volere bene, che alla fine ci si rimette sempre, che doveva salvare se stesso, che doveva iniziare a pensare a sé e che per farlo doveva stare senza gli altri.
Si era spento qualcosa dentro di lui, non aveva la luce della speranza: ricorda solo la crudezza del male e finisce per essere un individualista. Nel suo cuore si era formata la diffidenza, veleno che vuole dimostrare l’impossibilità e l’inutilità pratica dell’amore. Tommaso disprezza le parole dei fratelli: non accetta che l’annuncio della resurrezione arrivi a lui proprio da altri uomini, deboli, dei quali conosceva i limiti.
Non cedeva più a niente e aveva paura di passare per credulone! E’ infastidito dalla loro gioia, dalla quale si difende! Noi siamo disposti a correre dietro a incantesimi, mondi che non esistono, mentre resistiamo ad aprirci ad una speranza concreta che ci arriva da uomini come noi! Il suo cuore era diventato una tomba, la tomba della speranza.
Vive ma non spera più. Pensa di essere realista sbattendo in faccia i fatti, i chiodi, che pensa di conoscere, mentre non li capisce perché non crede più a niente. Come il fratello maggiore pensa che è ingenuo il Padre a fare festa per quel suo figlio che aveva perduto tutto con le prostitute e non ha nessun interesse che sia risorto alla vita.
Per lui è morto. Gesù a Tommaso, incredulo, non propone una lezione o un ragionamento: gli mostra le sue ferite, perché si commuova e riconosca come l’amore può sanare anche quello che il male ha segnato in maniera definitiva. Qualcuno ha detto: non toccare per credere, ma credere per toccare! Proprio quelle ferite sono l’inizio della vita nuova. Esse sono la gloria di Dio, segni del suo amore senza limite e della vita che risorge e ritrova se stessa.
Tommaso vince il suo vero isolamento dicendo liberamente – ed è l’inizio dell’interiorità cioè di una relazione personale e di amore con Dio: “Mio Signore e mio Dio”. La misericordia ci fa ritrovare il nostro cuore e ci fa sentire il suo nel nostro. Come Tommaso, non viviamo più da discepoli senza speranza, individualisti, ma dicendo ”mio Signore” sapremo dire anche “Padre nostro” e ritrovare Gesù e i suoi-nostri fratelli per risorgere e con speranza cambiare il mondo, sanare tante ferite e aprire i cuori chiusi per la paura e la rassegnazione.
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Omelia dal min. 19 e 30 sec fino al min. 34 al sec 38
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