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mercoledì 1 maggio 2019

“PRIMO MAGGIO, FESTA DEL LAVORO”. SENZA IL LAVORO di Gad Lerner - Abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo? di Pietro Piro

“PRIMO MAGGIO, FESTA DEL LAVORO”.

SENZA IL LAVORO 

di Gad Lerner 







Cosa c’è da festeggiare il Primo Maggio se il lavoro, ogni anno che passa, vale meno? A mezzo secolo di distanza dalle lotte operaie sfociate nell'autunno caldo del 1969, che avviarono un decennio di conquiste sociali e cospicua redistribuzione della ricchezza a favore del lavoro dipendente, gli sfruttati di oggi vietano a se stessi perfino la nostalgia; non parliamo della fede in una prossima riscossa proletaria. Così, a furia di sentirsi dire che la lotta di classe è solo un nocivo ferrovecchio del passato, il 1° maggio 2019 in Italia rischia di trasformarsi in un anacronismo: la festa del lavoro che non c’è più. Ci sono la fatica e lo stress, ci sono gli orari spezzati, il ritorno del cottimo, le esternalizzazioni di rami d’azienda, i somministrati a termine, il caporalato digitale, il tariffario dei parasubordinati, il welfare aziendale differenziato, le false cooperative multiservizi con gare al massimo ribasso per l’assegnazione di appalti e subappalti. Ma è come se in frantumi fosse andata l’idea stessa di LAVORO come tutt’uno, principio ordinatore della società. Nel quale lavoro ciascuno possa rispecchiarsi e accomunarsi, considerandolo l’abito che indossa ogni mattina, l’esperienza fondamentale della propria vita fuori dall’ambito domestico.
Anacronistico, cioè fuori dal tempo, è il rituale di questo Primo Maggio che da parecchi anni nelle piazze delle principali città italiane si è già sdoppiato: da una parte il corteo ufficiale dei confederali Cgil-Cisl-Uil, dall’altra le innumerevoli sigle del precariato. Si sono scissi perfino i “concertoni”, fra Roma e Taranto. Da una parte tre apparati sindacali sopravvissuti all’estinzione dei partiti politici cui facevano riferimento, nati da una scissione della Cgil unitaria che risale agli anni lontani della Guerra fredda. E davvero non si capisce cosa impedisca loro di riunificarsi, se non convenienze di perpetuazione dei loro gruppi dirigenti. Dall’altra il tentativo, spesso velleitario, di dare rappresentanza nel pubblico impiego, nella logistica, nell’agroalimentare a una Babele di lavoratori che si sentono dispersi e sospinti alla marginalità delle tutele decrescenti.
Da entrambe le parti cominciano a emergere figure di leader la cui biografia sembra indicare un ritorno di attenzione alla centralità del lavoro, troppo a lungo retrocesso nei suoi diritti e nella sua remunerazione. Alla guida della Cgil è giunto l’ex metalmeccanico Maurizio Landini; sull’altro fronte emerge per rilevanza mediatica il sindacalista autonomo Aboubakar Soumahoro, divenuto portavoce della protesta dei lavoratori immigrati. Non si parlano tra di loro, ma ambedue segnalano l’esistenza di un vuoto da riempire: cioè di una rappresentanza unitaria del mondo del lavoro che torni nelle mani di chi davvero ha compiuto dal basso un tragitto di emancipazione nella lotta e di acculturazione, come accadeva agli albori del movimento sindacale italiano. Non a caso fondato da personalità come Bruno Buozzi, Achille Grandi, Giuseppe Di Vittorio che avevano in comune non solo le umili origini ma l’aver vissuto la piaga del lavoro minorile (un meccanico, un tipografo, un bracciante). Dirigenti sindacali che sanno quello che dicono quando adoperano una parola caduta in disuso come “sfruttamento”. Ma che devono fare i conti con la sempre più diffusa riduzione delle vicissitudini del lavoro a faccenda privata, da non condividersi ma anzi semmai da tenere nascosta.
Oggi risulta normale in tutti gli ambiti lavorativi che vi siano addetti con inquadramento contrattuale diversificato, con orari, tutele e retribuzioni molto distanti fra loro, anche se svolgono le stesse mansioni. È ingiusto? Ma è così. Meno ovvio è scoprire che di fronte a un sopruso o addirittura a un licenziamento la maggioranza dei lavoratori preferisca nasconderlo; non necessariamente perché si sentano vulnerabili e ricattati, ma spesso per ragioni di status: se vieni cacciato o degradato, preferisci che gli amici e i vicini di casa non lo sappiano. Il lavoro come fonte di umiliazione anziché di riscatto.
La varietà delle forme in cui si esercita, nel formale rispetto delle normative di legge, la precarizzazione dei rapporti di lavoro in Italia (tralasciando le piaghe del sommerso e del caporalato servile) è pari solo alla fantasia dei commercialisti che orientano le imprese a escogitare nuovi assetti societari ed escamotages contrattuali. Quasi sempre la politica ha assecondato tali “semplificazioni” nella speranza che rimuovere limiti d’orario e facilitare collaborazioni episodiche incrementasse l’occupazione e favorisse la crescita economica. Non abbiamo la controprova di politiche meno flessibili (magari sarebbe andata peggio), ma di certo siamo rimasti senza incrementi di occupazione e senza crescita. In compenso abbiamo vissuto un drastico calo del valore del lavoro in Italia, più accentuato che nel resto del mondo occidentale.
Nell’ordine, dunque, il 1 maggio 2019 si segnala per: espansione dell’area del lavoro povero, ovvero retribuito sotto una soglia ragionevole di sussistenza; diffusione parallela del part-time forzato, cioè orari ridotti con proporzionale riduzione dei compensi (un milione di sottoccupati dichiara che sarebbe disponibile a lavorare 19 ore di più a settimana); boom degli occupati sovraistruiti, 5 milioni e 569 mila dipendenti che hanno un titolo di studio superiore a quello che sarebbe necessario per svolgere le loro mansioni (il 25% del totale). La (presunta) ineluttabilità di questa marcia indietro, un vero e proprio ControPrimoMaggio strutturale, si esprime nella forma del teorema che Carlo Cottarelli ha sintetizzato con la consueta chiarezza: «Più lavoratori ci sono rispetto al capitale, più il lavoro costa meno». A prima vista sembrerebbe un dogma indiscutibile, il frutto avvelenato della globalizzazione. Spiegherebbe anche il successo del nazionalismo economico che illude i lavoratori con la scorciatoia del “prima i nostri”, e pazienza se gli altri ci rimettono. Un’illusione già più volte smentita dalla storia, ma che dal punto di vista dei sovranisti conserva il pregio di supportare la retorica interclassista della Grande Proletaria (Giovanni Pascoli, 1911) che declinata al giorno d’oggi recita più o meno così: «Noi italiani siamo tutti quanti popolo-vittima di perfide potenze straniere che mirano a depredarci; dunque sindacati e lavoratori si adeguino al superiore interesse nazionale».
Il Primo Maggio per sua natura è internazionalista, riunisce proletari di tutte le origini, ha dentro di sé gli anticorpi che lo immunizzano dalla menzogna “sangue e suolo” della Grande Proletaria. Ma proprio questo è l’ultimo anacronismo, quello che più di ieri rende faticoso riconoscersi fra proletari. Proletario era colui che non possedeva altri beni oltre ai propri figli. E ne generava parecchi, di figli, perché calcolava che una parte se li sarebbe portati via la mortalità infantile e la guerra, mentre lui solo dalle loro braccia avrebbe potuto ottenere sostegno in vecchiaia. Oggi in Italia chi non possiede altro che il proprio lavoro, di figli non ne genera più, e quei pochi che ha generato spesso deve mantenerli anche da adulti. Il proletario senza prole viene così attanagliato dalla paura che lo Stato non sia più in grado di pagare le prestazioni sociali a sostegno della sua vecchiaia.
Stiamo diventando un Paese di proletari senza prole. Sempre più spesso, di proletari senza sapere di esserlo, come succede anche a tanti giornalisti pagati venti euro ad articolo. Ha fatto scalpore, nei giorni scorsi, che i fattorini di Deliverance Milano abbiano pubblicato una lista di personaggi famosi renitenti alla mancia facoltativa, ma soprattutto che abbiano minacciato di divulgarne gli indirizzi privati. Una palese scorrettezza che serviva a mettere a nudo la vulnerabilità delle piattaforme di AssoDelivery da cui i rider reclamano maggiori tutele. Cominciava così, cinquant’anni fa, con sabotaggi illegali, anche la rivolta dell’operaio-massa che bloccava a scacchiera (“gatto selvaggio”) le catene di montaggio della Fiat Mirafiori. Peccato che un solo reparto di quella città-fabbrica contasse più operai di quanti non siano tutti i rider attivi oggi sull’intero territorio nazionale. Unire i proletari è diventato più difficile, anche il Primo Maggio. Ma da una loro ulteriore retrocessione — altro che sabotaggio delle mance! — non c’è da aspettarsi niente di buono. Nuova unità sindacale cercasi.

(Fonte. “La Repubblica” - 30 aprile 2019)


Abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo? 

di Pietro Piro



Oggi non è possibile abitare in zone franche. Siamo costretti a guardare il mondo con occhi adulti, assumendoci il peso della responsabilità dell'azione, del giudizio, del conflitto. In questo senso, ai cristiani non è chiesto di essere "difensori di una "fede", ma piuttosto, di dire la propria, d' indicare strade alternative, di pensare insieme ai credenti di altre fedi un mondo migliore di quello che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno


Per noi cosiddetti cristiani alloggiati nella "confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà" della vecchia Europa, il continuo stress causato dalle rapidissime mutazioni sociali in atto rischia d'immobilizzarci, spingendoci a desiderare una "restaurazione dell'impossibile", un ritorno a un passato immaginario dove l'appartenenza cristiana garantiva certezze, stabilità, consolazione.

Oggi non è possibile abitare in zone franche e si è sempre più costretti a guardare il mondo con occhi adulti assumendosi il peso della responsabilità dell'azione, del giudizio, del conflitto. Mai come oggi ai cristiani è chiesto di essere non solo i praticanti di una credenza religiosa, i difensori di una "fede", ma piuttosto, di dire la propria, d' indicare strade alternative, di pensare insieme ai credenti di altre fedi un mondo migliore di quello che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno.
L'impossibile ritorno

Se è vero che: "Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore", occorre chiedersi come agire per fare in modo che dalle prediche si passi alla quotidianità senza rimanere impantanati nella palude dell'opportunismo, della rassegnazione, del compiacimento.

Se con attenzione si analizzano le critiche rivolte dalle "persone comuni" a Papa Francesco (nulla a che vedere con i tentativi molto seri di critica come quello di Marco Marzano, ad esempio) ci si rende facilmente conto che si rimprovera al Papa di essere troppo "aperto" nei confronti del mondo, di volere essere prima di tutto un "politico", un "comunista", un "amico dei migranti" e di non dare più la giusta importanza a "Dio".

Queste critiche rivendicano una "tradizione" tradita, offesa, ignorata di cui ci si sente privati di fronte a un impegno nei confronti dei problemi del mondo, quello ecologico in particolare, troppo grandi e distanti dalla quotidianità dei credenti.

In questa tensione tra passato e futuro si collocano due volumi apparsi di recente che ci aiutano a riflettere su la qualità del nostro impegno civile.
Lavoro e cristianesimo

Il primo volume di Sandro Antoniazzi e Costantino Corbari, Lavoro e cristianesimo. Un problema aperto (Jaca Book, Milano 2019), affronta il difficile rapporto tra Chiesa e mondo del lavoro. Il volume è diviso in due parti: nella prima ci sono interviste ad esponenti di spicco del mondo cattolico che si sono impegnati anche nel mondo sindacale e del lavoro. Nella seconda parte si riflette sulle relazioni tra dottrina sociale della Chiesa e mondo del lavoro. Le interviste convergono in un punto: "Oggi il tema del lavoro va interpretato tenendo presente il legame con l’innovazione tecnologica, la globalizzazione. È legato anche, come sottolinea la Caritas in veritate di Benedetto xvi, al rapporto tra occupazione, disoccupazione e povertà. La relazione tra questi fattori rappresenta una frontiera nuova". (p. 33).

Il libro mette in evidenza come di fronte alle rapide trasformazioni che hanno cambiato il mondo del lavoro molti cattolici si sono sentiti privi di riferimenti perché: "Ritenere la religione un’attività rivolta allo spirituale e al trascendente è un fatto pacificamente accettato e riconosciuto, ma pensare che la religione abbia qualcosa da dire e che intervenga sui problemi economici, sociali e politici non è una cosa facile da accettare e tanto meno da spiegare e attuare. Ancora oggi, a distanza di tanti anni e dopo infiniti interventi e dibattiti, sia il fondamento teologico della dottrina sociale come i motivi di una sua scarsa recezione nella coscienza dei cattolici, rappresentano problemi che rimangono aperti" (p. 126). Sembra quasi che il vero problema sia che "la dottrina sociale, al di là del nome, non è entrata a far parte della concezione cristiana della vita" (p. 145). Ottima la sintesi che Sandro Antoniazzi propone per focalizzare i principali problemi odierni:

"Continua così a rimanere radicata l’impostazione di un tempo, per cui i problemi della vita quotidiana e sociale sono affrontati sulla base della legge naturale (o dei dieci comandamenti, ma le due cose si equivalgono). La religione riguarda esclusivamente la sfera spirituale. Questa visione morale presenta molti problemi: – in un mondo complesso e fortemente strutturato, non sono facilmente rilevabili le evidenze etiche (possono essere relativamente comprensibili comandamenti come non rubare, non uccidere, ecc., ben diverso è parlare di etica finanziaria, aziendale, fiscale, ambientale e così via); – il mondo attuale è in continua evoluzione e l’adeguamento alle nuove situazioni presenta non facili problemi; spesso si rimane legati alle posizioni precedenti (come capita di verificare quotidianamente); – di fronte al mondo secolarizzato la reazione di molti cristiani è spesso di indignazione morale, però poi ci si ferma lì; non sapendo cosa fare cresce l’impotenza e di conseguenza l’irritazione (benignamente chiamata “indignazione”, ma è molto di più perché è una rabbia trattenuta a fatica, che può esplodere in dati contesti); – i cristiani tendenzialmente sono alieni e contrari al conflitto, ma il conflitto è ormai una dimensione normale dei processi economici e sociali. È giusto tendere alla concordia, ma come risultato finale da perseguire, non come una precondizione, quasi una pregiudiziale. Ciò costituisce per i cristiani un impedimento concreto a una maggiore presenza; – il militante ha bisogno di una morale concreta, legata alla situazione oggettiva, che può nascere solo dalla esperienza e dalla condivisione" (pp. 172-173).

Il richiamo di Antoniazzi alla dimensione del conflitto mi pare essenziale. Se non si riesce a "dare ragione della speranza" in quei luoghi dove il conflitto sociale è più forte e dove le persone lottano per sopravvivere non è pensabile che si possa imporre una fede che il più delle volte è letta come l'ennesima imposizione, l'ennesimo sopruso. Di fronte allo scempio di un capitalismo che lascia sempre più persone ai margini non si leva dai pulpiti delle chiese una voce chiara e forte di condanna e una possibile alternativa.

La missione di riformare le strutture economico-sociali, affinché la trasformazione del mondo da parte dell’uomo realizzi il suo vero senso universale in favore di tutta la comunità umana, non è una missione profana (Padre Pietro Arrupe s.j.)

Per Antoniazzi è questa la situazione attuale del movimento sociale cattolico: "molto presente a livello dell’azione sociale diretta, quella che potremmo chiamare sociale-caritativa (Caritas, volontariato, cooperative sociali), praticamente assente quando si tratta di affrontare i ben più ardui problemi della società, del lavoro e della politica. Questa situazione non è priva di ambiguità; offre infatti l’immagine di un mondo cattolico molto presente, ma si tratta di un sociale di prossimità, espressione di opere buone piuttosto che di azioni che aspirino a promuovere un’idea soddisfacente di società. Questa assenza è grave. Se si considera la scomparsa dei partiti di massa, il popolo è rimasto privo di ogni riferimento per le sue scelte nella società: la politica scivola inevitabilmente verso il populismo e il lavoro perde molto della sua dimensione etica e sociale (nutrimento indispensabile per i lavoratori, direbbe Simone Weil). In una bella intervista raccolta da don Acerbi, Giuseppe De Rita segnalava come la Chiesa oggi si leghi di più agli ultimi piuttosto che prestare attenzione ai processi evolutivi e come invece sia vitale una cultura di processo per affrontare i problemi attuali di sviluppo e dare un senso alla storia come futuro" (p. 176).

Per affrontare i temi del lavoro è essenziale dunque una cultura di processo che anticipi le derive disumane. Una capacità concreta di leggere i segni dei tempi che si basi su una visione allargata della società dove i soggetti del cambiamento sono molti (non solo i partiti, i sindacati o le organizzazioni) e devono trovare il modo di cooperare senza soffocarsi a vicenda.

Il mondo del lavoro resta al centro perché: "tutti lavorano e perché il lavoro è tanta parte della vita delle persone, non solo economicamente, ma anche moralmente e come espressione di sé. Interessarsi del lavoro significa farsi prossimi alle persone e contribuire a cambiare la società a partire dal basso. Significa dare fiducia ai lavoratori perché siano soggetto della propria elevazione personale e sociale e di quella degli altri lavoratori" (p. 194).

Ritengo che se i cristiani vogliono contribuire alla tutela e alla qualità del lavoro devono, innanzitutto, abbandonare l'idea che occuparsi di "cose mondane" sia una perdita di tempo che allontana dal "regno di Dio";poi avere l'umiltà di conoscere le ricerche più recenti sulle trasformazioni del lavoro per capire quali siano i "punti di attacco" sui quali meditare il loro ambito d'azione e, infine, stare vicini a chi lavora con una grande opera di supporto e di ascolto che permetta al lavoratore e al cristiano di riconoscersi come fratelli uniti nello sforzo di creare una comunità concreta fondata sui principi guida della fraternità e del rispetto. Esempi virtuosi in questa direzione ce ne sono molti ma stentano a diventare coscienza diffusa, prassi quotidiana di tutti i cristiani.


Un nuovo umanesimo

Il secondo volume è stato scritto da Luigi Ciotti e da Vittorio V. Alberti, Per un Nuovo Umanesimo. Come ridare un ideale a italiani e europei (Rizzoli, Milano 2019). Il libro mira a demolire i tanti muri "delle menti, delle visioni, delle paure" (p. 7) che insieme ai muri di pietre e filo spinato rendono la nostra terra un luogo ostile. Un libro che vuole ricordarci come "l'impegno sociale non è mai neutrale ma sempre intrinsecamente politico" (p. 11). Per gli autori occorre saldare solidarietà e giustizia (p. 11) e dare la parola a chi soffre per evitare che il populismo resti l'unica via da percorrere per masse sempre più abbandonate a se stesse. Superare l'identità sovranista e campanilista e riprendere le basi di uno "spirito inquieto, dialettico, aperto alla scoperta e alla ricerca" (p. 24). Per Ciotti la paura nasce dal vuoto culturale, dall'incapacità di leggere i cambiamenti, dal sentirsi sovrastati da logiche e meccanismi incontrollabili. Questa condizione di "rischio" apre lo spazio alla superstizione, al pensiero magico, al mercato delle illusioni (p. 27) il tutto aggravato da una vera e propria "emorragia di memoria" (p. 27).

È nel divorzio tra etica e politica, tra libertà e responsabilità che possono vivere e prosperare mafie, corruzione, disoccupazione, povertà e ignoranza. Mali che hanno una radice comune nell'indifferenza, nel disprezzo del bene comune (p. 29). Gli autori ci ricordano che abbiamo bisogno di leggi che siano capaci di graffiare le coscienze ma soprattutto di: "percorsi educativi di grande respiro, capaci di astrarre, far conoscere, responsabilizzare, generare il desiderio di ricercare i propri talenti" (p. 122). Occorre un impegno sociale che rifiuta la delega, la neutralità, l'indifferenza, gli imperativi della società dell'Io, un impegno di accoglienza (p.123). Gli autori ci propongono tre "parole guida" per l'impegno: la prima è corresponsabilità (sapere che le ingiustizie poggiano su complicità e silenzi); la seconda è continuità (trasformare l'indignazione passeggera in sentimento duraturo, in motivazione che nutre l'azione e da essa si lascia nutrire) la terza è condivisione (sapere che da soli non andiamo da nessuna parte).

Ciotti e Alberti ci invitano a unirci senza uniformarci intorno a un umanesimo che porti a compimento il percorso di liberazione iniziato con la Costituzione e ancora oggi bloccato da una libertà ancora troppo limitata e dai poteri criminali. Un invito a cui non possiamo dire di no.
Ognuno come può e per quello che è capace

Essere cristiani nel mondo non è mai stato facile e oggi da molti parti del mondo giungono notizie terribili di massacri tanto brutali quanto insensati. La tentazione più grande di fronte a questo orrore è di ritirarsi in preghiera lontani dalla "città degli uomini".

Tuttavia, proprio in questi nostri tempi: "una nuova era della cittadinanza cosmopolita si annuncia e forse anche nuove leggi di solidarietà, nuove leggi di ospitalità internazionale: una nuova ospitalità per lo straniero" (J. Derrida).

Occorre comprendere se il cristiano vuole partecipare da protagonista a questa fase di mutazione di tutti i valori e apportare il suo contributo d'intelligenza, oppure, subire passivamente il cambiamento e vivere gli effetti dello shock del futuro. Una scelta non facile e soprattutto non priva di rischi e fraintendimenti. Vale allora, anche per noi, quella predica di un parroco al funerale di un sindacalista quando diceva: "Molti pensano che il comportamento giusto stia nel non fare il male, ma poi si arriva alla fine della vita senza aver fatto nulla. Importante invece è fare il bene, ognuno come può e per quello che è capace»

(Fonte: Vita - 24 aprile 2019)