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martedì 21 maggio 2019

Chi chiama eretico il papa di Giuseppe Ruggieri




Chi chiama eretico il papa 

di Giuseppe Ruggieri 






Ho letto con un penoso senso di fastidio spirituale la lettera firmata inizialmente da una ventina di cattolici, chierici e laici, e indirizzata ai vescovi, perché mettano in stato di accusa, come eretico, papa Francesco. Il fastidio ha vari motivi. Cercherò di spiegarli. Il primo è di natura estetica, come se un ragazzaccio avesse lanciato una manciata di fango su un bel quadro. Sul volto dolce di un vecchio papa, stanco ma irradiato e reso bello dalla “gioia del vangelo”, sono stati lanciati sputi meschini da volti somiglianti agli arcigni inquisitori di un famoso film di Dreyer. Chi una sola volta ha visto la Passione di Giovanna d’Arco di quel regista, non riuscirà mai a dimenticare il contrasto tra il volto pulito e sofferente di Renée Falconetti e quello grossolano e duro dei suoi giudici. È vero che gli inquisitori di papa Francesco non chiedono il rogo, ma ne vogliono l’abiura pubblica. Il secondo motivo è dato dalla grossolanità delle accuse formulate, in termini che citano non ciò che è stato effettivamente detto dal papa, ma ciò che dovrebbe essere presupposto da ciò che il papa ha detto, scritto o fatto. Questa è una vecchia prassi inquisitoriale, purtroppo ancora non del tutto dismessa nella chiesa cattolica. Tutto verte attorno a 3 titoli di accusa: il rifiuto della condanna degli omosessuali, l’ammissione all’eucaristia dei cristiani divorziati, la giustificazione del pluralismo religioso. Non mancano tra i firmatari alcuni teologi di professione. A loro, anche se non a tutti i firmatari, è legittimo chiedere come facciano a passare sotto silenzio il canone 8 del concilio di Nicea sulla comunione ai digamoi, come ignorino il senso esatto dei decreti tridentini sull’indissolubilità del matrimonio e la disciplina conseguente, che non implica la condanna della prassi delle chiese ortodosse le quali prevedono per i divorziati, secondo il principio della “economia” (cioè, in termini orientali, della “misericordia”), una benedizione particolare (fino alle terze nozze “civili” e per alcune chiese persino fino alla quarta). E si può ancora chiedere perché ignorino tutta la portata della dottrina di Trento sull’eucaristia che stabilisce come, quando si partecipa con i retti sentimenti alla celebrazione del sacrificio eucaristico, Dio “placato dall’offerta, concede il dono e la grazia della penitenza e crimina et peccata etiam ingentia dimittit”. Il terzo motivo è dato dalla rozzezza dell’ermeneutica teologica messa in atto dai firmatari sedicenti ortodossi. Che le dottrine della chiesa siano mutate, nella continuità sostanziale, non è un fatto che possa essere messo in discussione. E sappiamo che, come in tanti altri casi analoghi. i “ vincitori” al concilio di Calcedonia ( 451) furono “ vinti” nel secondo concilio di Costantinopoli (553).
Che ci sia qualcosa di mutato nella disciplina della chiesa, introdotta sotto il pontificato di papa Francesco, è un dato altrettanto incontrovertibile. E, dato importante, i capisaldi di quel mutamento sono stati approvati con la maggioranza qualificata di due terzi e passa da un sinodo episcopale. Ma almeno i teologi dovrebbero sapere che la continuità o discontinuità non si misurano nel rapporto diretto tra dottrina e dottrina, tra disciplina e disciplina, ma ogni volta nel rapporto di ogni formulazione dottrinale o misura disciplinare con il vangelo.
Ogni dottrina e ogni disciplina deve cioè, nelle sempre mutevoli condizioni storiche, essere fedele al vangelo che resta sovrano nella chiesa. Ed è quindi grave ignorare la portata del vangelo, che non è racchiuso nella formulazione dottrinale o nella legge disciplinare, ma « è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco. In esso infatti si rivela la giustizia di Dio».
Ci sono inoltre altri motivi del fastidio.
Scorrendo i nomi dei firmatari e cercando notizie sul loro conto attraverso la rete, ho scoperto che la maggior parte di loro fanno esplicitamente riferimento a una sorta di Internazionale dei tradizionalisti, sia sul piano politico che religioso, che sappiamo ben foraggiata economicamente da un certo signor Bannon. Qui il fastidio non è soltanto quello di una determinata sensibilità teologica, ma tocca altre fibre forse più delicate, quelle cristiane come tali e culturali di chi, nato negli anni Quaranta del secolo scorso, fino a tutti gli anni Sessanta, ha respirato l’aria di una umanità, sottomessa controvoglia alla caducità, ma che non cessa di sperare che «la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio». 

(Fonte: pubblicato su  “La Repubblica” - 11 maggio 2019)

L’autore, teologo, ha insegnato presso l’Università Gregoriana di Roma e presso la facoltà di Teologia cattolica di Tubinga


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