di Michela Murgia
A vent’anni mi capitava, per le vie del mio paese, di guardare i necrologi e dalle scarne righe dei testi di cordoglio provare a immaginare qualcosa del defunto. L’alfabeto del lutto sul fronte familiare era ricco, allora come oggi: da morti tutti diventano gli affettuosi mariti e amorosi padri della cui scomparsa il triste annuncio andava forse dato mentre erano in vita. La nota che mi incuriosiva però non era tanto quell’ipocrisia postuma, quanto il fatto che spesso sull’annuncio comparisse anche la qualifica professionale del morto. Il signor Mario Rossi che veniva pianto pubblicamente come "finanziere in pensione" era il monumento funebre a un tempo in cui il mestiere di qualcuno poteva ancora coincidere con la sua identità sociale, al punto da continuare a definirla persino da pensionati e da morti.
Allora non era strano: poiché nella vita di mestieri se ne avevano uno o al massimo due, quello che facevi e quello che eri per molti anni sono stati la stessa cosa. Un privilegio generazionale, pensavano quelli che per la stabilità del lavoro avevano fatto le lotte sindacali. Una condanna all’immobilismo, dicevano invece i nuovi apostoli della flessibilità contrattuale, quasi che precarizzare le esperienze lavorative fosse una specie di training spirituale, un modo per allenarsi a uno stupore esistenziale da eterni bambini. Vuoi mettere — ti dicevano entusiasti i cantori del co.co.pro — l’opportunità di provare nuovi stimoli, cambiare spazi e tempi, mettersi continuamente alla prova e non fossilizzarsi mai? Meglio turisti per sempre, di impiego in impiego, valigia delle competenze in mano, un voucher come titolo di viaggio e un buono pasto per souvenir.
La mia generazione a quella favola del rinnovarsi rinnovando contratti un po’ ci ha creduto e un po’ no, ma in ogni caso per quel viaggio verso pianeti lavorativi in cui nessuno era mai giunto prima ci siamo poi partiti tutti, più o meno ignari di essere nella pancia di un paese-astronave claustrofobico e obsoleto, che la forza del salto nell’iperspazio economico non l’aveva più da almeno dieci anni.
Ricordando adesso quei necrologi di paese così precisi nel far coincidere il chi e il cosa, ho pensato che alla nostra morte una cosa del genere non potrà accadere. La quantità di lavori che una persona nata dopo gli anni 70 ha fatto nella vita è mediamente così alta che solo qualcuno con un disturbo da personalità multipla proverebbe a fondarci la sua identità.
"Il mio nome è legione" — diceva il demonio a Cristo che cercava di esorcizzarlo — "perché siamo in molti", e molti (troppi) sono i giovani che anche oggi sperimentano il lavoro come girone infernale, faticando quanto e più dei propri genitori, ma senza un’ombra delle loro garanzie. Gli ultimi tre decenni hanno visto l’affermazione di una flessibilità contrattuale — pacchetto Treu a cominciare, legge Biagi a seguire e Jobs Act a chiudere — che ha spezzato definitivamente il legame tra lavoro e certezze sociali della persona. Il lavoretto ha preso il posto del lavoro, trasferendo il diminutivo a tutti i suoi aspetti: paghetta, dirittucci e durate effimere, da schermata di Instagram. Grazie ai contratti alla bisogna usati con spirito corsaro anche da chi ha necessità di te ogni santo giorno, l’Istat oggi è costretto a considerare occupato anche chi lavora una sola ora alla settimana, passando per mestiere quelle che tutt’al più sono performance dadaiste.
Far festa al lavoro in questo clima somiglia al fissare un necrologio alla ricerca di una parola di cordoglio che almeno una volta dica la verità su chi/cosa non c’è più. E se nel desiderio di sollevarci l’animo volessimo distrarci con le note del concertone, vi troveremo il tributo all’uomo Faber fatto da trenta cantanti senza una voce di donna, metafora di un mercato dove le capacità femminili, motore di sviluppo in tutte le economie avanzate, in Italia sono invece invisibilizzate e sottopagate. Ne diamo il triste annuncio.
Allora non era strano: poiché nella vita di mestieri se ne avevano uno o al massimo due, quello che facevi e quello che eri per molti anni sono stati la stessa cosa. Un privilegio generazionale, pensavano quelli che per la stabilità del lavoro avevano fatto le lotte sindacali. Una condanna all’immobilismo, dicevano invece i nuovi apostoli della flessibilità contrattuale, quasi che precarizzare le esperienze lavorative fosse una specie di training spirituale, un modo per allenarsi a uno stupore esistenziale da eterni bambini. Vuoi mettere — ti dicevano entusiasti i cantori del co.co.pro — l’opportunità di provare nuovi stimoli, cambiare spazi e tempi, mettersi continuamente alla prova e non fossilizzarsi mai? Meglio turisti per sempre, di impiego in impiego, valigia delle competenze in mano, un voucher come titolo di viaggio e un buono pasto per souvenir.
La mia generazione a quella favola del rinnovarsi rinnovando contratti un po’ ci ha creduto e un po’ no, ma in ogni caso per quel viaggio verso pianeti lavorativi in cui nessuno era mai giunto prima ci siamo poi partiti tutti, più o meno ignari di essere nella pancia di un paese-astronave claustrofobico e obsoleto, che la forza del salto nell’iperspazio economico non l’aveva più da almeno dieci anni.
Ricordando adesso quei necrologi di paese così precisi nel far coincidere il chi e il cosa, ho pensato che alla nostra morte una cosa del genere non potrà accadere. La quantità di lavori che una persona nata dopo gli anni 70 ha fatto nella vita è mediamente così alta che solo qualcuno con un disturbo da personalità multipla proverebbe a fondarci la sua identità.
"Il mio nome è legione" — diceva il demonio a Cristo che cercava di esorcizzarlo — "perché siamo in molti", e molti (troppi) sono i giovani che anche oggi sperimentano il lavoro come girone infernale, faticando quanto e più dei propri genitori, ma senza un’ombra delle loro garanzie. Gli ultimi tre decenni hanno visto l’affermazione di una flessibilità contrattuale — pacchetto Treu a cominciare, legge Biagi a seguire e Jobs Act a chiudere — che ha spezzato definitivamente il legame tra lavoro e certezze sociali della persona. Il lavoretto ha preso il posto del lavoro, trasferendo il diminutivo a tutti i suoi aspetti: paghetta, dirittucci e durate effimere, da schermata di Instagram. Grazie ai contratti alla bisogna usati con spirito corsaro anche da chi ha necessità di te ogni santo giorno, l’Istat oggi è costretto a considerare occupato anche chi lavora una sola ora alla settimana, passando per mestiere quelle che tutt’al più sono performance dadaiste.
Far festa al lavoro in questo clima somiglia al fissare un necrologio alla ricerca di una parola di cordoglio che almeno una volta dica la verità su chi/cosa non c’è più. E se nel desiderio di sollevarci l’animo volessimo distrarci con le note del concertone, vi troveremo il tributo all’uomo Faber fatto da trenta cantanti senza una voce di donna, metafora di un mercato dove le capacità femminili, motore di sviluppo in tutte le economie avanzate, in Italia sono invece invisibilizzate e sottopagate. Ne diamo il triste annuncio.
(Fonte: “la Repubblica” del 1 maggio 2019)
Quando il lavoro è mutante
di Ezio Mauro
Probabilmente dobbiamo prendere atto che la Repubblica non riesce più a fondarsi sul lavoro, come impone la Costituzione disegnando il modello della nuova Italia. E contemporaneamente dobbiamo domandarci se il lavoro definisce ancora la nostra società, le sue relazioni interne, le sue trasformazioni e la sua cifra complessiva: anche se in forma radicalmente diversa dal passato in cui siamo cresciuti. Se non è più la misura delle persone e delle classi, è comunque il metro di riferimento del nostro modo di vivere, di ordinare il tempo, di interpretare un ruolo sociale?
Per decenni il lavoro garantiva questi elementi di base, ai quali si appoggiava per entrare in un’altra dimensione, civile e culturale, con la capacità di creare una coscienza dei diritti, un’intelligenza civica del collegamento tra l’individuale e il collettivo, un sentimento della cittadinanza. È esattamente questo che è entrato in crisi, quando parliamo di lavoro. Non si tratta della quantità di ricchezza prodotta: ciò che è in crisi è il rapporto tra il lavoro e quella ricchezza (la vecchia coppia lavoro-capitale che ritorna), e tra la ricchezza e il benessere collettivo.
Il capitale, potremmo dire, ha meno bisogno di lavoro nelle forme tradizionali perché può fare ricorso sempre più intensivo all’automazione, e perché con la rivoluzione digitale ha smaterializzato il concetto stesso di lavoro, svincolandolo così dalla dipendenza secolare nei confronti del luogo e dell’uomo. Questa trasformazione che inaugura l’era post- industriale nasce come tecnologica, economica, finanziaria, ma diventa rapidamente sociale e culturale, quindi politica. È ciò che abbiamo oggi davanti ai nostri occhi.
Storicamente quando la tecnica determinava il calo di occupazione in un settore nasceva un settore nuovo che attirava forza-lavoro. Ma oggi l’indebolimento del lavoro è universale, vale anche fuori dall’industria, nei servizi, nel commercio, nel nuovo mondo della conoscenza, dove l’onnipotenza del web si sposa con la nuova cultura della "prima linea" e la esalta. È la tendenza irresistibile a saltare ogni intermediazione, anche di esperti, di specialisti, di professionisti, per consentire al consumatore di essere nello stesso tempo produttore del contenuto che sta cercando, del servizio di cui ha bisogno, del bene che sceglie sul computer, sagomandolo, modificandolo, colorandolo e infine ordinandolo direttamente da casa. Senza accorgersi che in questa sua libertà solitaria di selezione è certamente in prima linea, ma per svolgere in realtà un lavoro surrogato.
Questo lavoro che non si vede ma fa crescere il Pil produce due immediate conseguenze.
La prima è l’aumento del tasso di disoccupazione, la seconda è la difficoltà di costruire un meccanismo di tutela e una rete di garanzie, perché la forma tradizionale del sindacato non riesce a inseguire il lavoro nella sua frantumazione e nella sua dispersione, e la flessibilità scambiata quotidianamente nel nuovo mercato rende impossibile la definizione di un modello di protezione e ancor più la sua applicazione, poiché il lavoro nelle sue forme più estreme, sperimentali e individuali è diventato un mutante che vive in un continuo altrove. Il risultato finale è una svalorizzazione materiale, spontanea, naturale dei diritti legati al lavoro. Senza più classi, senza sindacati che lo rappresentino, senza bandiere il lavoro torna a essere merce, sia pure della modernità, non ha storia e non ha coscienza, non pretende e non genera diritti, accontentandosi di negoziare ogni volta il suo prezzo sul posto e sulla porta, in piedi, secondo le necessità quotidiane, fuori da ogni quadro generale di riferimento. Aggiungiamo l’azione del più grande attore sociale, la crisi economica più pesante del secolo, che ha trasformato le disuguaglianze in esclusioni, tagliando fuori dallo stesso processo democratico pezzi di generazione, in alto e in basso, padri e figli. E soprattutto ha rimesso in discussione alcuni diritti nati dal lavoro e nel lavoro, trasformandoli in variabili dipendenti dell’economia, disponibili quando è il caso, dunque temporanei, quindi comprimibili al bisogno: come se fossero — a differenza di altri — dei diritti "nani", di seconda categoria e non facessero parte della cifra complessiva di libertà materiale della nostra società, che vale per tutti, e della qualità generale della nostra democrazia, di cui tutti beneficiamo. La crisi ha poi agito sul welfare, ritagliandolo e riducendolo secondo le esigenze della fase, favorita da un cambio di cultura e di sensibilità così profondo da rovesciare quel senso di responsabilità collettiva nei confronti dei più deboli che aveva favorito lo stato sociale.
Oggi al contrario per la prima volta il ricco che opera nei flussi transnazionali scopre di poter fare a meno del povero che sopravvive nel monolocale degli Stati nazionali, non ha relazione con lui e non ha dunque responsabilità. È il legame di società che si allenta per tutti, fino a sciogliersi, modificando lo stesso concetto di libertà: ormai mi sento libero non perché sono nella piena espressione delle mie facoltà e dei miei diritti, ma libero perché liberato da ogni vincolo nei confronti degli altri, dunque autorizzato a pensare soltanto a me stesso.
Ecco cosa succede quando si infragilisce il lavoro, salta il tavolo di compensazione dei conflitti che teneva insieme i vincitori e i perdenti della mondializzazione, si rompe il patto tra capitalismo, welfare e democrazia rappresentativa che è il nucleo stesso della civiltà occidentale.
Il lavoro non è stato soltanto strumento di realizzazione, di dignità, di emancipazione, ma ha funzionato da elemento di riconoscibilità sociale: e oggi ci accorgiamo invece che nessuno dei ruoli mutevoli che nascono dal lavoro è abbastanza consistente e durevole da conferire un’identità solida, riconoscibile e spendibile. Tutto questo, nei postumi faticosi della crisi, toglie al lavoro quel carattere di certezza, di garanzia e di protezione che ha sempre avuto, lo rende un bene incerto e persino sospetto.
Quanto pesa, questo indebolimento del lavoro, sulla sensazione di instabilità che domina i cittadini? Quando incide sullo stesso sentimento di insicurezza, che la politica declina soltanto nei confronti dei migranti o della criminalità, e invece nasce in gran parte dall’incertezza del presente, dalla paura del futuro?
Il dovere "costituzionale" della politica è dunque quello di rimettere il lavoro al suo posto, perché il reddito di cittadinanza non basta, è la sostituzione di un diritto con l’assistenza, quindi un aiuto materiale e un indebolimento politico. Per la sinistra quel dovere è addirittura un obbligo: è nata dal lavoro, la fine del lavoro è la fine di ogni progetto di emancipazione, dunque è il venir meno della sua stessa ragione di esistere.
(Fonte: “la Repubblica” del 1 maggio 2019)