Maggio. Torniamo al mese mariano che fa rivivere la mistica
Quando Eliot, di fede anglicana, scrisse parole tenerissime sulla Madre di Cristo. Un esempio che deve indurci a riscoprire la preghiera che anima tante tradizioni locali
Statua della Madonna conservata nel Santuario di Loreto
Maggio. Il mese mariano. Quale poesia fusa con la memoria porta con sé questa quinta scansione dell’anno, che è un po’ tutta al femminile, dedicata alla Madonna da donne, soprattutto, che si riuniscono per pregarla. Ci si ritrova in chiesa, di pomeriggio, per rivolgersi alla Domina con una recita del rosario che ne segna in qualche modo l’apoteosi, mentre fuori dispensano incredibili colori i tramonti dell’«odoroso mese» cantato da Leopardi. E qui viene fuori la domanda.
Chissà se il mese mariano sopravviverà al tempo presente. Speriamo di sì, anche se il dato anagrafico di chi «va al mese di maggio» non è confortante: basta entrare in chiesa e vedere l’età media delle presenti. Le altre – mogli, mamme che magari lavorano – sono troppo impegnate in quelle ore preserali e vanno capite. Oltre a casa e lavoro, hanno marito e figli di cui occuparsi. Riguardo a questi ultimi, maggio è oltretutto il mese che precede la chiusura della scuola, con le ultime interrogazioni, con gli ultimi compiti in classe in cui arrivano al parossismo le ansie che i ragazzi perdano l’anno o si portino debiti da recuperare in estate. E a ben guardare, comunque, anche quando queste preoccupazioni non esistevano – per esempio nell’Ottocento in un determinato contesto, nobile o altoborghese – ad andare in chiesa non riuscivano neanche le donne di elevata condizione sociale le quali non lavoravano, magari avevano istitutori privati e domestici in casa, ma erano più frequenti a messa di prima mattina che di pomeriggio, quando venivano assorbite dalla gestione della quotidianità, sicché il rosario veniva da loro recitato privatamente (chi non ricorda l’attacco del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che si apre proprio con un rosario recitato nel palazzo del principe Fabrizio?). Per molti di noi maggio è anche un’occasione per tornare indietro nel tempo.
Quando andavamo all’asilo o alle elementari venivamo portati in chiesa dalle nonne, col permesso di girare tra gli ultimi banchi vuoti, aspettando qualche compagnuccio con cui giocare, in questa chiesa che era un po’ piena e un po’ vuota e dove non bisognava stare fermi perché una funzione vera a propria non c’era ancora, almeno fino alla messa. Poi, quando le nonne si erano fatte più vecchie, con la prima macchina avevamo noi l’incarico di accompagnarle e di andarle a riprendere perché il «mese di maggio» era irrinunciabile e, ad onta delle loro proteste di autonomia, non era più tanto tranquillo farcele andare da sole; così ce le portavamo noi, più spesso restando fuori ad aspettarle appoggiati all’auto, mentre ascoltavamo magari una cassetta registrata, o fumavamo, o chiacchieravamo con gli amici; e loro, le nonne, dentro, intente a sgranar rosari affinché trovassimo una brava ragazza, un lavoro, oppure finissimo gli studi.
Si pregava ancora in latino, fino ai primi anni Sessanta. Anzi si pregava in quel misterioso «latino italianizzato», piegato ad assonanze italiane, di matrice popolare, nato tra i banchi di chiesa e che soprattutto il rosario aveva assestato; creando un unicum poeticamente irripetibile nella storia della linguistica e dell’evoluzione delle favelle neolatine.
Di maggio in maggio siamo cresciuti col sottofondo di questo ronzio antico, come d’alveare, a voci alternate, delle Avemaria, dei Paternoster e dei Gloria, che all’improvviso viravano verso l’italiano coi Gesùmmio e con la contemplazione dei misteri; ma la cui parte più poetica (preletteraria) era sempre in latino e consisteva nella finale recita delle lauretane. Esse sono chiamate così dal luogo (Loreto nelle Marche) dove si trova la celebre basilica che contiene la Santa Casa, e dove altissima è sempre stata la devozione mariana. Sono attestate lì sin dal XVI secolo, ma alcuni attributi mariani in esse presenti sono molto più antichi.
Il poeta inglese Thomas Stearn Eliot nel 1923 |
Oggi, a distanza di decenni dalla verde età, per noi poche madeleine verbali possono competere con le lauretane di maggio. Con la loro lirica. Col loro magnetismo. Talmente forte da ispirare, in una delle sue composizioni più famose, anche un sommo poeta del Novecento, Thomas Stearns Eliot, nel poemetto Mercoledì delle ceneri (1930) la cui sezione finale consiste appunto in una rivisitazione delle litanie. Questa parte del poema è detta della “Signora dei silenzi” (dal vocativo «Lady of silences» con cui si apre) e dunque della Madonna, qui celebrata con parole tenerissime, sofisticate e rare, in quanto non presenti neppure nella restante produzione religiosa del poeta, il quale peraltro non era cattolico. Il poeta colse tuttavia in queste litanie una tale bellezza da volerle riprodurre, trasfigurare e rigenerare in forma di preghiera – a tratti oscura, a tratti luminosa – declinata soprattutto in moderni, inquieti ossimori d’inarrivabile altezza.
Ecco:
«Signora dei Silenzi/ Quieta e affranta/ Consunta e, più, integra./ Rosa del ricordo/ Rosa della dimenticanza/ / Esausta e feconda/Tormentata, che doni riposo / Rosa solitaria./ Ora è il giardino/ Dove ogni amore finisce/ Terminato il tormento/ Dell’amore insoddisfatto/ Il più grande tormento/ Dell’amore soddisfatto...».