Benvenuto a chiunque è alla "ricerca di senso nel quotidiano"



martedì 18 dicembre 2018

Senza incarnazione non c'è cristianesimo di Enzo Bianchi - Jesus - Dicembre 2018

Atrribuito a Rembrandt, verso il 1655,
olio su tavola, Bijbels Museum, Amsterdam
Senza incarnazione 
non c'è cristianesimo 
di Enzo Bianchi 

rubrica "Bisaccia del mendicante"
Jesus - Dicembre 2018 



Nei "discorsi da bar", che un tempo avvenivano tra poche persone nelle bettole dei paesi e dei rioni, mentre oggi hanno come teatro i social, a volte vengo accusato di essere «neo-ariano», cioè di non credere a Gesù Cristo quale Figlio di Dio, confessato dalla tradizione cristiana Dio oltre che uomo.
Tale accusa viene lanciata da cristiani che di fatto sono degli incalliti teisti, non avendo mai preso sul serio il proprium del cristianesimo, che resta scandaloso, oggi come agli inizi della fede dei discepoli di Gesù: Dio si è fatto uomo

È il Vangelo di Giovanni che sintetizza l'evento della salvezza cosmica nella famosa affermazione del prologo: «E il Verbo», cioè la Parola di Dio, «si fece carne» (1,14), il Lógos si fece sàrx. Questa è la novità cristiana, e già il Nuovo Testamento e gli antichi padri hanno molto faticato per affermarla rispetto al giudaismo e alle interpretazioni gnostiche della vita di Gesù. Per questo, nella Prima lettera, Giovanni mette in guardia dalla più pesante aggressione alla verità del Vangelo: «Chi non confessa Gesù Cristo venuto nella carne, non è da Dio» (1Gv 4,3). La svalutazione della carne del Figlio di Dio, infatti, è il pensiero dell'Anticristo, e senza carne non c'è Cristo. 

Eppure il docetismo è stato sempre presente come tentazione di molti cristiani, al punto che alcuni giunsero a negare la morte reale di Gesù in croce, forgiando addirittura l'ipotesi che un altro, Simone il Cireneo, fosse stato crocifisso al suo posto. Anche Ignazio di Antiochia all'inizio del II secolo ammoniva i cristiani a chiudere gli orecchi verso quanti dicevano che Gesù non aveva sofferto e non era veramente morto. 

Poi il grandissimo Ireneo di Lione e in seguito Tertulliano elaborarono una vera teologia della carne assunta da Dio in Gesù Cristo: Dio aveva plasmato con le sue mani la carne di Adamo, dalla terra (adamah), e quella è la nostra carne. Carne che dunque non fu il vile strumento per la missione del Figlio di Dio sulla terra, abbandonata subito dopo l'uso, ma carne risorta, che ora è in Dio stesso, primizia della risurrezione della nostra carne nel Regno eterno. L'incarnazione va presa sul serio, mentre noi ne restiamo scandalizzati, fino ad avere paura della fragilità dell'uomo Gesù. Preferiremmo discernerlo solo come Dio, ma così facendo svuoteremmo il cristianesimo, e allora la carne non sarebbe più — come asseriva Tertulliano — «opera d'arte delle mani di Dio, custodia del suo Spirito, regina della creazione, sacerdotessa della religione, sorella di Cristo» (La risurrezione della carne 9,2). 

Secondo la fede cristiana, Gesù è «nato da donna» (Gal 4,4), per grazia dello Spirito Santo. È «cresciuto in sapienza; età e grazia» (Lc 2;52), come tutti noi; è stato tentato, ha sofferto, è morto come ogni figlio di Adamo, perché la sua condizione era umanissima, anzi quella di un uomo collocato all'ultimo posto, uno schiavo. Ecco perché «la carne è il cardine della salvezza» (La risurrezione della carne 8,3). Questa non è solo una professione di fede, ma determina la nostra esistenza vissuta nella carne, perché noi siamo un corpo, siamo carne e spirito insieme. Perciò noi cristiani non abbiamo paura della carne, ma osiamo la carne! Non dobbiamo pensare alla nostra vita spirituale senza la carne. Nel corpo che siamo; la nostra carne significa respiro e sensibilità, intelligenza, parola e gesto, cultura e storia. 

La fede mette al centro l'uomo Gesù, così che non si può più affermare Dio senza affermare l'essere umano. Guardando a Gesù Cristo, contempliamo una creatura umanissima, in cui «abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col 2,9); in lui vediamo «l'immagine del Dio invisibile» (Col 1,15). Non possiamo dunque fare diversamente da ciò che fece Tommaso davanti al Risorto: in adorazione confessarlo «mio Signore e mio Dio» (1Gv 20,28).