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sabato 22 dicembre 2018

I “compiti a casa”: un’inutile formalità? di Giuseppe Savagnone

I “compiti a casa”: un’inutile formalità?
di Giuseppe Savagnone


Il dibattito sui compiti

L’invito rivolto dal ministro della Pubblica Istruzione agli insegnanti, perché assegnino meno compiti ai loro alunni per le vacanze natalizie, in modo da poter trascorrere più tempo con le loro famiglie, è stato accolto dall’opinione pubblica con pareri contrastanti. C’è stato chi ha visto in questa raccomandazione un’ulteriore prova dello sfascio della scuola italiana. Ma c’è stato anche chi ha salutato con soddisfazione questo riconoscimento del diritto degli studenti a vivere liberamente delle pause di riposo e di svago. Tanto più che ormai da tempo esiste un movimento che si batte per la totale abolizione dei “compiti per casa”, ritenuti superflui in una scuola che funzioni veramente. La sola cosa su cui tutti si sono trovati d’accordo è un sorriso di compatimento nei confronti della motivazione portata dal ministro: nessuno può pensare seriamente che i ragazzi trascorreranno con le loro famiglie il tempo che avrebbero impiegato a studiare.

Lettura e nuovi media

L’episodio può apparire, comunque – e in sé lo è –, del tutto marginale, se lo si isola da un contesto più ampio, che riguarda il rapporto dei nostri giovani con la lettura e, più in generale, con la tradizione culturale veicolata dai libri.

È sotto gli occhi di tutti il fatto che ormai le nuove generazioni sono segnate da una simbiosi quasi organica con i nuovi mezzi di comunicazione, in primo luogo smartphone, ma anche tablet e computer. I genitori glieli mettono nelle mani sempre più precocemente – un’inchiesta ha rivelato che il 30% degli intervistati lo aveva fatto prima del compimento dei diciotto mesi! – sia per tenerli occupati e buoni, quando sono piccoli, sia per controllarne i movimenti, quando cominciano a crescere. I pochi che si rifiutano vengono sommersi dalle proteste dei figli: «Ce l’hanno tutti i miei amici!», e alla fine devono cedere.

Il medium e il messaggio

Poco male, dirà qualcuno. Si tratta solo di strumenti. Il loro valore dipende dal modo in cui li si usa. E in molti casi sono comodi, come dimostra il fatto che anche gli adulti ormai non possono farne a meno.

In realtà, le cose sono un po’ più complicate. È vero che resta decisivo l’uso che si fa di questi mezzi tecnici, ma si dimentica che essi non sono soltanto strumenti neutri, esterni alle persone che li usano e ai contenuti che si comunicano. La verità è che essi entrano a modificare profondamene le une e gli altri. Umberto Galimberti ha scritto che oggi la domanda non è che cosa noi facciamo della tecnica, ma ciò che la tecnica fa di noi. E McLuhan già molti anni fa avvertiva che «il medium», ben lungi dall’essere solo un veicolo estrinseco, «è il messaggio», in altri termini che il modo in cui ci comunichiamo le cose è alla fine, al di là dei singoli contenuti, il vero risultato della comunicazione.

Come la scrittura ha cambiato società e persone

Lo stesso accadde, molti secoli fa, quando la scrittura fece progressivamente irruzione in un mondo caratterizzato dalla comunicazione orale. Perché chi deve raccontare qualcosa o ascoltarla può farlo solo in un gruppo, chi deve scrivere o leggere ha bisogno di farlo restando solo. L’individuo, secondo molti studiosi, è nato con la scrittura, sostituendo il clan che era legato ai racconti degli anziani. Così, al posto degli antichi poemi, frutto di questi racconti trasmessi da padre in figlio ed espressione di una comunità, hanno avuto sempre più spazio le opere firmate da un singolo autore. Una rivoluzione antropologica di cui noi, figli della scrittura, non percepiamo più il carattere rivoluzionario.

Così come non ci rendiamo conto della novità che è stata il passaggio da racconti orali, in cui il narratore si immedesimava in ciò che narrava – come oggi capita ancora quando si racconta una barzelletta, imitando voci e facendo gesti –, a testi scritti, in cui l’oggetto della comunicazione è ben distinto da chi lo comunica e deve essere valutato di per sé. Così è nata l’attitudine della scienza occidentale all’oggettiva descrizione dei fatti, condivisibile da chiunque a prescindere dalla persona che li riferisce. E, al tempo stesso, la percezione di se stessi come soggetti, contrapposti agli oggetti della conoscenza e della comunicazione. Anche qui, si è costituito un nuovo tipo di essere umano.

Oltre l’orale, oltre lo scritto: una nuova comunicazione

Ho ricordato questi passaggi epocali del passato per far riflettere su ciò che sta accadendo oggi. Siamo davanti all’avvento di un tipo di comunicazione che non è più né quella orale – perché non suppone più la vicinanza fisica dei comunicanti – né quella scritta – perché non consente più una valutazione distaccata di ciò che viene comunicato. E chi nasce, con le nuove generazioni, all’interno di essa, ne viene plasmato automaticamente.

Ciò si riflette anche sui contenuti del messaggio. Sia la comunicazione orale che quella scritta avevano in comune l’uso della parola, il cui valore di segno è evidente. Nessuno può credere che il termine “gatto”, detto o scritto, sia un vero gatto. Tutti si rendono conto che è solo un intermediario, il cui significato sta nel rimandare alla realtà fisica del gatto in carne ed ossa. Ciò che caratterizza il virtuale è invece la capacità di occultare questo suo ruolo di intermediario e di farsi identificare con ciò che dovrebbe solo indicare. Significativo il film Matrix, dove si descrive un modo dove la gente vive in un mondo virtuale cedendo sia quello reale.

Non demonizzare, ma imparare a gestire

Non si tratta, ovviamente, di demonizzare le nuove tecnologie. Platone, che ha cercato di farlo nel Fedro, denunciando i pericoli della scrittura, ha dovuto scrivere la sua critica ed essa ci è pervenuta solo grazie a questo. Dicevo prima che resta decisivo l’uso che fa dei mezzi. A patto di rendersi conto che non sono affatto neutri e che bisogna stare molto attenti a correggerne le dinamiche intrinseche, integrandole con quelle dei mezzi precedenti. Così è stato con la scrittura: se, dopo la sua introduzione, ci si fosse affidati solo ad essa per comunicare, dimenticando l’oralità, gli esseri umani sarebbero diventati dei mostri. Così oggi la battaglia per educare i nostri giovani non può mirare a eliminare smartphone, tablet e computer, ma a integrarli con la conversazione faccia a faccia e con la lettura.

Scuola, educazione e nuovi media

Per questo fa paura la tendenza odierna a mettere in secondo piano il dialogo tra le persone in carne ed ossa, trasferendo quasi per intero la comunicazione su whatsapp e sui social. E per questo fa paura la resistenza sempre maggiore dei giovani a leggere. Certo, per combattere queste distorsioni c’è innanzi tutto la famiglia. Ma essa ha un ruolo sempre più debole nel condizionare i figli. Ciò rende molto importante il ruolo della scuola.

Acquista allora un significato sinistro che gli ultimi due ministri della Pubblica Istruzione abbiano mostrato scarsissima consapevolezza dell’importanza di limitare, dentro le aule almeno, l’abuso degli smarphone e del virtuale, autorizzandone l’uso a scuola, come ha fatto la Fedeli, e della necessità di promuovere – non di restringere – il rapporto degli studenti con i libri non solo durante i giorni di lezione, ma come stile abituale di vita (anche durante le vacanze).

Per ciò che riguarda il secondo caso, è vero che molte volte i “compiti” vengono intesi come un’oppressione. Ma conosco tanti insegnanti che approfittano delle vacanze per assegnare ai loro alunni la lettura di romanzi interessanti, che, una volta cominciati (magari a fatica), poi li appassionano. È la strada indicata da un intellettuale intelligente e non certo conformista come Pennac. Ma forse il nostro ministro non ha mai letto nulla di Pennac…
(fonte: Tuttavia)