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lunedì 24 dicembre 2018

“Per questo io sono nato”: la riflessione sul Natale del biblista Alberto Maggi

“Per questo io sono nato”: 
la riflessione sul Natale 
del biblista Alberto Maggi


"Con Gesù non è più la Legge, fosse pure quella divina, a guidare i passi dell'uomo, ma è la risposta agli impulsi vitali dell'uomo a fargli da guida, portandolo a realizzare quel deside­rio di pienezza di vita che costituisce il suo essere e a renderlo, come Gesù, figlio di Dio". 



Nel vangelo di Giovanni è Gesù stesso che parla della sua nascita, il cui significato è stato formulato teologicamente dall’evangelista con l’affermazione “La Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1,17). Per questo Gesù è nato e venuto, per una nuova relazione tra gli uomini e Dio, non più basata sull’obbedienza alla Legge divina, ma sull’accoglienza e assomiglianza all’amore del Padre. Mentre l’alleanza di Mosè rendeva sudditi, quella di Gesù ne faceva dei figli; nella prima restava sempre una distanza tra il Dio che comandava e il suddito che ubbidiva, in quella di Gesù più l’uomo assomiglia al Padre e più Dio si fonde con lui, ne dilata la capacità d’amore e Dio e l’uomo diventano una sola cosa (Gv 17,11-2314,23). È questo il vero motivo della morte del Cristo: “Per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio” (Gv 5,18).

Di fatto, l’unica volta in cui Gesù si riferisce al perché della sua nascita, è paradossalmente in occasione della sua uscita da questo mondo, poco prima di essere condannato a morte, in un impossibile dialogo tra sordi con Pilato.

Gesù è stato condotto dai capi del popolo da Pilato con l’accusa di essere un malfattore (“Se costui non fosse un malfattore, non te l’avremmo consegnato”, Gv 18,30). Per le autorità religiose l’attività di Gesù, di restituire dignità e libertà agli uomini, rendendoli capaci “di diventare figli di Dio” (Gv 1,12), è un crimine intollerabile, da punire con la morte. I capi sono coscienti che Gesù, chiamando Dio suo Padre, si proclama suo unico rappresentante, e che se con Gesù l’amore di Dio giunge direttamente a ogni uomo, senza bisogno di mediatori, di strutture, di leggi, di culti, è la rovina del potere religioso. Pertanto il progetto di Dio sull’umanità, che ogni uomo diventi suo figlio (Gv 1,12), viene considerato dalle autorità religiose un crimine degno di morte, in quanto mina le basi stesse di un sistema che pretende di essere l’indispensabile mediatore tra Dio e gli uomini (“Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per la bestemmia e perché tu, che sei uomo, ti fai Dio”, Gv 10,33).

Per tutto questo i capi non portano Gesù davanti a Pilato per fargli un processo, ma perché venga ammazzato, e lo accusano di essere un sobillatore politico, un agitatore che vuol porsi a capo di una ribellione contro l’Impero romano (Gv 11,48). Per la casta sacerdotale al potere, Gesù è un criminale talmente pericoloso che essi lo detestano più dei pur odiati dominatori, che vengono usati per farsi strumento della loro vendetta. In realtà i Romani, rappresentati da Pilato, non vedono alcun pericolo in Gesù, e il procuratore mostra tutto il suo stupore di fronte al “malfattore” e gli chiede con insistenza se sia o no il re dei Giudei, un pericoloso rivoluzionario.

Gesù non risponde alla domanda di Pilato. Lui non è interessato al tema della regalità, unico argomento che invece sta a cuore e comprende il procuratore romano. Gesù, che è venuto per offrire vita a quanti incontra, invita anche Pilato a ragionare con la propria testa, ad essere una persona libera: “Dici questo da te oppure altri ti hanno parlato di me?” (Gv 18,35). Nella sua irata reazione, Pilato esprime tutto il suo disgusto per il popolo che deve governare: “Sono io forse Giudeo? La tua nazione e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto?” (Gv 18,35). Non solo i detentori del potere religioso, i capi, sono contro Gesù, ma anche i sottomessi alle autorità, il popolo. È il fallimento di Gesù, “venne tra i suoi ma i suoi non lo accolsero” (Gv 1,11).

Per la seconda volta Gesù non risponde alla domanda che gli rivolge Pilato (“Che cosa hai fatto?”) e cerca, vanamente, di fargli comprendere che il suo è un regno dove il re non esercita dominio ma servizio, per questo non ha servitori, in quanto è lui stesso il servitore dei suoi. Ma è un dialogo tra sordi. Pilato è il rappresentante dell’Impero, e insiste a chiedere a Gesù se sia o no il re dei Giudei (“Dunque tu sei re?”), ma egli tronca definitivamente il discorso della regalità, al quale non è interessato (“Tu dici che sono re”, Gv 18,37), e cerca di dialogare su quel che gli sta a cuore: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto al mondo, per dare testimonianza alla verità” (Gv 18,37). La verità, per Gesù non è una dottrina che si possiede, ma un modo di essere (“Chi fa la verità”, Gv 3,21). Contrapposto a chi fa il male (Gv 3,20), “fare la verità” indica fare il bene. Per questo Gesù non afferma mai di avere la verità, ma di essere la verità (“Io sono la verità”, Gv 14,6), e non autorizza nessuno ad avere la verità, ma a esserlo. Quanti pretendono avere la verità tendono per questo a giudicare gli altri e a separarsene in base all’ortodossia della loro dottrina. Quanti sono nella verità, vengono coinvolti nello stesso dinamismo divino d’amore, che non si esprime attraverso formule dottrinali, ma mediante opere che trasmettono vita. Mentre la dottrina separa, le opere d’amore uniscono e avvicinano a tutti. Questa verità, pertanto, non è da acquisire, come se fosse una conoscenza, ma da fare.

Poi Gesù aggiunge: “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”. Per ascoltare e comprendere la voce del Cristo occorre fare una scelta preventiva, essere dalla verità, ovvero porre il bene dell’uomo come unico valore assoluto nella propria esistenza. L’evangelista aveva anticipato già questa tematica nel Prologo al suo vangelo, affermando che “la vita era la luce degli uomini” (Gv 1,4). Mentre la tradizione religiosa insegnava che la luce, figura della Legge, era la vita per gli uomini (“Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino…”, Sal 119,105; Sap 18,4), con Gesù non è più la Legge, fosse pure quella divina, a guidare i passi dell’uomo, ma è la risposta agli impulsi vitali dell’uomo a fargli da guida, portandolo a realizzare quel deside­rio di pienezza di vita che costituisce il suo essere e a renderlo, come Gesù, figlio di Dio.

La stessa linea teologica di Giovanni si ritrova in Matteo e Luca, gli evangelisti che nei primi due capitoli dei loro vangeli narrano, con prospettive diverse, la nascita di Gesù. Per Matteo, Gesù è il “Dio con noi” (Mt 1,23): con la sua venuta, Dio non è più nei cieli, ma con gli uomini, non deve più essere cercato, ma da questi accolto, e con lui e come lui andare verso gli altri uomini. Per Luca, Gesù è il “Salvatore” (Lc 2,11), non di un solo popolo, ma dell’umanità intera, e non c’è alcun uomo che possa sentirsi escluso da questa salvezza, perché “il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto” (Lc 19,10)
(Fonte: Il Libraio)