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martedì 11 dicembre 2018

Dieci aperture necessarie alla scuola di Franco Lorenzoni


Dieci aperture necessarie alla scuola

di Franco Lorenzoni


Il 10 dicembre parte la campagna nazionale “Mille scuole aperte per una società aperta” promossa dal tavolo Saltamuri, al quale hanno aderito finora oltre cento tra associazioni, gruppi, scuole e comuni.

Stiamo raccogliendo in tutta Italia adesioni di insegnanti e intere scuole e che stanno promuovendo e realizzando percorsi di educazione ai diritti, alla cittadinanza, allo studio delle migrazioni e alla comprensione delle diverse realtà del mondo. Per aderire e segnalare i diversi percorsi e iniziative vi chiediamo di segnalarle nel modulo google qui linkato.

Ma cosa intendiamo quando diciamo che la scuola deve essere aperta?

Provo qui a indicare dieci aperture che ritengo necessarie alla scuola oggi, intrecciando il ragionamento con le quattro libertà evocate in un celebre discorso Franklin Delano Roosvelt, unanimemente riconosciuto come punto d’avvio dell’elaborazione della Dichiarazione universale dei diritti umani, che sarà redatta da un comitato coordinato da sua moglie Eleonor e sottoscritta il 10 dicembre di settant’anni fa. È importante ricordare che quel discorso fu pronunciato il primo gennaio del 1941, quando mezza Europa era occupata dalle truppe naziste.

Dieci aperture che possono aiutarci a rendere attuale e concreta nella scuola la Dichiarazione Universale dei diritti umani

1. L’apertura personale

La prima apertura che sta a cuore a noi che educhiamo riguarda la soglia tra il dentro e il fuori. Noi non possiamo permettere che “i tesori di un solo bambino o ragazzo siano murati dentro e isteriliti”, per usare un’espressione di don Lorenzo Milani.

Bambine e bambini fin da piccoli, nella scuola, devono avere il diritto di portare fuori ciò che hanno dentro e questo, naturalmente, vale anche per gli adolescenti. Ma per fare uscire ciò che abbiamo dentro dobbiamo possedere la parola e sentire la fiducia di poter varcare liberamente quella soglia. Per questo è necessario che ci sia un contesto di ascolto perché, per costruire la fiducia nel proprio pensiero, è fondamentale che qualcuno ci ascolti e ci rimandi in qualche modo il valore di ciò che esprimiamo. Ecco allora che il dialogo diventa l’architrave della relazione educativa, che non vive se non è reciproca. Come insegnante, se chiedo ascolto devo prima ascoltare, perché in educazione l’esempio vale più delle parole.

L’apertura del bambino che un giorno scopre qualcosa e mostra col suo sguardo stupito di accorgersi che sa ragionare, riconoscendo nel suo pensare un atto creativo, è ciò che dà corpo e sostanza nella scuola alla Libertà di parola e di espressione, che è la prima delle quattro libertà del discorso di Roosvelt.

2. L’apertura alla comunità

La seconda è l’apertura alla comunità, molto legata alla prima. Io sento che abbiamo trasformato una classe in comunità quando c’è curiosità reciproca. Il bambino o ragazzo si apre alla comunità, sente di far parte di una comunità quando è desideroso di sentire cosa pensano gli altri, quando tutti sperimentiamo che l’ascoltarsi reciprocamente è un atto generativo e io comprendo meglio un teorema o una poesia guardandolo anche attraverso i tuoi occhi. C’è dunque comunità quando c’è ascolto e curiosità reciproca, quando sentiamo che tra noi si è creato un organismo in cui tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri. Abbiamo bisogno delle parole dei compagni per comprendere meglio i nostri pensieri. E in questo passaggio delicato alla comunità, che ha bisogno di tempo perché è necessariamente lento, il ruolo di promozione e mediazione di noi adulti è fondamentale. Si tratta infatti di una costruzione impegnativa, faticosa, mai lineare, di cui dobbiamo assumerci pienamente la responsabilità, incarnando con i nostri gesti prima che con le parole la necessità, coscienti di quanto sentirsi comunità aiuti profondamente tutti nell’acquisire saperi e apprendimenti.

3. L’apertura alle differenze

Riguardo all’apertura alle differenze la scuola italiana ha un passato glorioso e impegnativo perché è stata tra le prime in Europa ad accogliere, dal 1977, ragazzi portatori di disabilità. Un ingresso che non sempre è stato accompagnato da misure, capacità e qualità di formazione dei docenti all’altezza della sfida, ma che configura una delle caratteristiche più interessanti e avanzate della nostra scuola. Da oltre vent’anni la scuola si sta misurando con nuove sfide portate dal crescere dell’emigrazione, che ha portato migliaia di bambini e nuove geografie a popolare le nostre classi. Insegnare a gruppi di bambini e ragazzi che hanno alle spalle altre lingue, altre religioni e altri modi di porsi e di vedere il mondo è certamente difficile. Necessita, da parte nostra, una trasformazione nel nostro modo di lavorare. Dobbiamo ragionare su come valorizzare queste differenze considerando che la lingua di origine porta con sé una visione del mondo, perché ogni lingua non solo comunica, ma dà forma al mondo. Noi siamo chiamati ad insegnare a tutti la nostra lingua ed è importante che i bambini che vengono da tanti diversi continenti parlino bene l’italiano. Dobbiamo dare la possibilità a tutti di parlare la nostra lingua nel modo più ricco e articolato possibile e sono profondamente convinto che lo sforzo che comporta l’aprirsi alla disomogeneità sia ripagato dalle straordinarie possibilità che ci offre il potere osservare il mondo da tanti punti di vista (leggi anche Elogio della disomogeneità).

Questo è uno dei principali terreni su cui con il tavolo Saltamuri ci vogliamo dare coraggio reciprocamente, perché sappiamo che il cammino sarà un lungo e che cooperare, scambiarci esempi e pratiche positive ci può essere di grande aiuto.

A questo proposito è importante ricordare che la seconda libertà evocata da Roosvelt è la libertà di religione, che lui nomina in modo molto pregnante, sostenendo il diritto e la libertà di ogni persona di rivolgersi a Dio a suo modo.

4. L’apertura della classi

Un’altra apertura necessaria è quella delle classi. Le classi aperte permettono di introdurre movimento dentro a un’istituzione spesso troppo rigida. Una dirigente che lavora a Montecastrilli, in Umbria, che ha portato la sua esperienza nell’incontro del 24 novembre a Roma, sostiene con i suoi docenti che non devono definirsi e considerarsi insegnanti di matematica, di inglese o di arte, ma insegnanti della scuola, che lavorano a un progetto educativo unitario costruito dalla comunità docente, a cui ciascuna disciplina dà il suo apporto. Pensare che un’istituzione come la scuola possa essere attraversata da un movimento è importante. Aumenta la responsabilità di noi insegnanti e ci invita a sporgerci al bordo delle nostre competenze. Permette di non irrigidire la didattica disciplinare, scoprendo che è nell’incrocio tra diversi ambiti e saperi che possiamo forgiare gli strumenti per provare a comprendere il mondo, gli altri e noi stessi, intrecciando anche le qualità portate delle diverse età.

5. L’apertura al corpo, alla natura

Quest’apertura è vitale e necessaria, soprattutto oggi che bambini e ragazzi trascorrono una quantità smisurata di tempo incollati a schermi di ogni dimensione. Abbiamo grande bisogno di guardare il cielo, osservare la pioggia, giocare con la terra, stupirci dei giochi che la luce compie con le fronde di un albero. Dobbiamo avere la possibilità di modellare la terra e giocare e fare composizioni con materiali naturali, dobbiamo poter costruire con le mani oggetti e figure per pensare. E tutto deve partire dal corpo. La prima natura che incontriamo è infatti il nostro corpo, che deve potere essere vivo tutto intero nella scuola, deve potersi muovere, uscire, esplorare. Se il corpo è attento e lo poniamo al centro, si possono indagare mille connessioni e scoprire il cuore di una educazione ecologica indispensabile, che sta nel riuscire a percepire il nostro pianeta come qualcosa di tuttattaccato, come disse una volta una bambina.

6. L’apertura alla città

L’apertura alla città è forse la più difficile da realizzare, ma non possiamo pensare di educare senza stabilire una relazione continua con il territorio che ci circonda esplorandone gli spazi e cercando di tentare collegamenti con chi abita il paese o la porzione della città in cui si trova la scuola. A partire dai genitori, naturalmente, che può essere interessante coinvolgere perché portino nella scuola i loro mestieri, le loro esperienze e conoscenze, talvolta i viaggi che li hanno portati a vivere qui (leggi e firma il Manifesto dell’educazione diffusa ndr). Faccio un esempio. A Cetona, in provincia di Siena, una classe di scuola media, che viveva al suo interno alcune difficoltà relazionali, ha compiuto per un intero anno un percorso teatrale insieme a giovani profughi richiedenti asilo, ospiti nel paese. Lo ha fatto avvalendosi delle capacità di una operatrice formatasi nell’esperienza del Teatro povero di Montichiello, esempio particolarissimo di teatro popolare che coinvolge da cinquant’anni gli abitanti di un intero paese toscano. In questo caso il teatro è stato il linguaggio e il tramite di un’apertura che ha permesso di superare molti stereotipi e diffidenze reciproche, regalando al paese un momento corale a fine anno. Una manifestazione pubblica realizzata grazie al teatro, in cui si è vissuta una familiarità inimmaginabile nei mesi precedenti. Ecco un caso, come ce ne sono molti altri nel nostro paese, in cui la scuola è stata migliore e più avanti rispetto alla società che la circonda, fecondando positivamente il territorio.

C’è un altro aspetto in cui la scuola può svolgere un ruolo fondamentale, ed è quando si confronta con le tante ferite e fratture, ingiustizie e disparità che avviliscono il vivere sociale.

Farsi carico delle fragilità dei singoli alunni da parte della scuola comporta una relazione convinta e costante di noi insegnanti con i servizi sociali, le ASL, le circoscrizioni o i comuni. Spesso a scuola ci troviamo a scoprire e a dover denunciare situazioni di violenza o gravi sofferenze patite dai minori o, in altri casi, ci troviamo a dover dare una mano nel costruire ponti tra famiglie avvilite da forti disagi e le istituzioni.

Qui incontriamo la terza libertà evocata da Roosvelt che è la libertà dal bisogno, che tradotta in parole semplici dallo stesso presidente “significa conoscenze economiche che assicurino ad ogni nazione una vita sana e pacifica per i propri abitanti – ovunque nel mondo”. Cioè il diritto a un lavoro, a una casa e al bisogno di sentirsi di casa.

Simone Weil, nel suo Studio per una dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano, scritta nel 1943, fa una considerazione che chi educa credo debba tenere in gran conto:

“Quando, in conseguenza delle azioni o delle omissioni degli altri uomini, la vita di un uomo è distrutta o mutilata da una ferita o da una privazione dell’anima o del corpo, in lui non è solo la sensibilità a subire il colpo, ma anche l’aspirazione al bene. C’è allora sacrilegio verso ciò che l’uomo racchiude di sacro”.

Chi lavora nella scuola ha esperienza di bambini e ragazzi a cui troppe sofferenze e ingiustizie hanno provocato la più grave delle sottrazione, che è l’aspirazione al bene.

Ecco allora che la mancata libertà dal bisogno di cui parla Roosvelt ha conseguenze non solo sul piano sociale, ma sulla natura profonda dell’essere umano che siamo chiamati a sostenere nella sua crescita.

7. L’apertura all’arte e alla bellezza

Bambini e ragazzi hanno diritto di incontrare letteratura e musica, pittura e architettura così come cinema e teatro. La scuola deve aprirsi alla grande arte perché l’incontro con la bellezza, come dimostrano molteplici esperienze, porta a vaste aperture intime e sociali. Permette una più profonda comprensione di se stessi e degli altri e offre l’opportunità di apprezzare la straordinaria molteplicità di narrazioni che provengono da ogni parte del mondo, attraverso ogni tipo di linguaggio. Del resto anche la Dichiarazione del 1948 sostiene che “Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici”.

8. L’apertura al nuovo, al non sperimentato

Il mondo è in continuo mutamento e così le culture. Nascono nuove parole e diamo nuovi significati a vecchie espressioni.

Lunghe battaglie femministe hanno portato all’abolizione dell’infamia che chiamava l’assassinio di una donna delitto d’onore e aveva come corrispettivo giuridico un’attenuazione della pena, giustificata a cominciare dal modo in cui si nominava il delitto nel linguaggio. Ancora oggi si scrive di delitti passionali, mentre si è cominciato a chiamarli sempre più femminicidi, per indicare delitti che nascono dal non riconoscimento della libertà di scelta delle donne. È un esempio illuminante di quanto sia importante, in ogni avanzamento nella costruzione di maggiori diritti, il sapere mutare il linguaggio, che informa il modo in cui pensiamo alle cose.

La parola nonviolenza, ad esempio, è molto lontana dall’essere pienamente compresa, pur essendo stata alla base di rivolte epocali.

Poi ci sono i nuovi strumenti e le nuove tecnologie di cui disponiamo, che mutano profondamente modi di comunicare e probabilmente di pensare, verso i quali non possiamo non essere aperti, per poterli intendere e utilizzare in modo critico e intelligente.

Un’espressione che pensavamo superata e bandita dal linguaggio pubblico è quel me ne frego, a cui Don Milani e i ragazzi di Barbiana contrapposero I care, mi importa, che fu l’emblema di quella scuola di emancipazione dall’ignoranza e dalla povertà. Anni fa un dirigente di una scuola primaria di Roma con alta presenza di figli di immigrati, cominciò a dire che il suo Istituto era una scuola internazionale, capace di coinvolgere le famiglie dichiarando così, a partire dal linguaggio, che una difficoltà nascondeva una opportunità.

9. L’apertura contro la paura

L’ultima libertà richiamata Roosvelt è la libertà dalla paura.

E forse questa è tra le più necessarie oggi, in un tempo in cui si cerca di iniettare il veleno dell’odio nel corpo sociale a partire dalla paura del diverso – oggi del nero soprattutto – trasformando l’istintiva diffidenza, dovuta ai tanti pregiudizi, in xenofobia, che a volte arriva a comportamenti discriminatori e razzisti. Di fronte a nuove forme di discriminazione sancite da leggi ingiuste, che riportano tristemente nel nostro paese forme di razzismo istituzionale, a ottant’anni dall’emanazione delle leggi razziali del 1938.

Superficialità di giudizio, affermazioni non dimostrate e generalizzazioni indebite diffuse ad arte nel linguaggio pubblico e nei social alimentano l’odio. Nell’articolo 7 la Dichiarazione universale dei diritti umani condanna esplicitamente l’incitamento alla discriminazione, che nella storia ha portato alle peggiori forme di imbarbarimento, fino al perpetrarsi di genocidi.

Di fronte a tutto ciò la scuola può e deve essere un luogo protetto, dove è possibile aprirsi agli altri e coltivare, far crescere e diffondere quelle piante pioniere che hanno a cuore l’arte, la cultura e la lingua della convivenza.

10. L’apertura alla disubbidienza civile, all’imparare a vedere le cose da un altro punto di vista

È importante essere chiari e convincerci che, se ci opponiamo a una legge ingiusta che priva di cittadinanza 800.000 ragazzi nati qui o che frequentano da tempo le nostre scuole, non siamo noi ad essere trasgressivi, ma piuttosto a prendere alla lettera ciò che prescrive la Costituzione. Ugualmente riguardo al famigerato decreto legge numero 113 che, intrecciando pretestuosamente e demagogicamente sicurezza e immigrazione, abolisce la protezione umanitaria (leggi anche Confini e confino di Alessandra Algostino).

Sulla necessità di educare alla disobbedienza, don Milani usò parole di grande forza nella sua Lettera ai giudici:

Non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. (…) E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede”.

In un mondo in continua trasformazione, di fronte a sempre nuove questioni aperte, nella scuola abbiamo il dovere di educare alla legalità, ma non possiamo esimerci dal porci e porre all’attenzione di ragazze e ragazzi le contraddizioni che caratterizzano il nostro tempo e la necessità di immaginare nuove soluzioni ai problemi di oggi. L’apertura alla disubbidienza è dunque particolarmente necessaria oggi.

Luigi Manconi, in Corpo e anima scrive:

“Si è immaginato che il principio di legalità di per sé fosse capace di determinare un processo di emancipazione dei gruppi sociali più deboli attraverso la forza della legge positiva, nonché di una loro inclusione nel sistema della cittadinanza in virtù dell’affermazione di regole e norme. (…) Se così fosse noi dovremmo escludere dalla scena pubblica e dalla sfera politica tutto il grande repertorio della disobbedienza civile, il tema della resistenza e quello del conflitto. Secondo una simile ottica l’intera azione pubblica dovrebbe ridursi a una mobilitazione per la legalità. E, invece, l’affermazione della legalità è solo una parte di un’idea più ampia e assai più complicata della politica. Che comprende anche quella funzione vitale che è la tensione tra soggettività e norma”.

Credo che queste considerazioni riguardino da vicino il mestiere dell’educare perché la scuola necessariamente si situa tra passato e futuro e deve educare a una profonda apertura verso prospettive e paesaggi non ancora esplorati.

Assumiamoci le nostre responsabilità

Quaranta anni fa, dopo una lunga battaglia, fu varata una legge che chiudeva i manicomi, veri e propri lager in cui per secoli erano stati reclusi i malati di mente in condizioni disumane. Lo psichiatra Franco Basaglia, che portò con altri all’approvazione di quella legge e di quella liberazione, nei mesi che seguirono quella svolta epocale chiese all’Alitalia e riuscì a farsi noleggiare un aereo, per permettere ai malati di mente di fare un volo sopra Trieste e vedere finalmente dall’alto una città che non avevano mai potuto abitare, perché reclusi da decenni.

Stiamo vivendo il peggior momento politico dal dopoguerra. Quella capacità di osare l’impensabile, quel volo, quella visione, è ciò di cui abbiamo bisogno nel nostro lavoro educativo quotidiano, assumendoci in prima persona le nostre responsabilità.

Il Tavolo saltamuri ha ora una pagina facebbok “SaltaMuri” e un sito www.saltamuri.it Si possono chiedere informazioni a tavolo.saltamuri@gmail.com
(fonte: Comune-info)