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mercoledì 31 ottobre 2018

Una maglietta non "spiritosa" ma "vergognosa" su Auschwitz segno della "perdita di umanità" dei nostri tempi?


SE IL SONNO DELLA RAGIONE GENERA MAGLIETTE

La vergognosa t-shirt contro l'olocausto esibita al raduno fascista di Predappio

La sorridente signora ritratta al tradizionale raduno di Predappio, paese natale di Mussolini, in occasione dell’anniversario della Marcia su Roma, si chiama Selene Ticchi, è militante di Forza Nuova (almeno fino a ieri, perché è stata espulsa) già candidata sindaco di Budrio, in provincia di Bologna, con la lista neofascista Aurora Italiana. Si è guadagnata l’attenzione dei media grazie a questa maglietta negazionista, che paragona Auschwitz, simbolo dell’olocausto in cui sono morti sei milioni di ebrei, a una Disneyland (“Auschwitzland”, che ridere, vero?).

C’è chi sostiene che in uno Stato civile e democratico una che paragona un campo di sterminio a un parco giochi sarebbe stata arrestata per apologia del fascismo e vilipendio (il fascismo è ancora un reato in Italia, Repubblica nata con il sangue della Resistenza), ma c’è anche chi sostiene che in uno Stato civile e democratico una maglietta così non sarebbe nemmeno esistita perché nessun essere pensante ci avrebbe pensato. Ma qui, come si vede dalla foto, la signora fa persino parte del servizio d’ordine dell’adunata nostalgica di camicie nere, fez, labari, bambini vestiti da balilla che fanno il saluto romano e altre carnevalate del genere.

"Volevano vietarci la manifestazione, che democrazia è questa?" si è chiesta la Ticchi, sorridente come se la sua mamma avesse fatto gli gnocchi. E qui viene in mente un pensiero ricorrente: è molto facile fare atti di trasgressione in democrazia, provateci in un regime fascista se siete capaci. Non so se quest’oltraggio al popolo ebraico e all’umanità sia figlio del periodo che stiamo vivendo, della licenza immorale cui hanno dato stura per primi certi politici che vanno per la maggiore.

Personalmente però, saprei come sistemare la signora: non con l’arresto e nemmeno con la denuncia, bensì con la lettura di “Se questo è un uomo” di Primo Levi (se la signora non fosse avvezza alla lettura è disponibile l’audiolibro), in abbinata con la visione di “Schindler’s list” e un bel viaggio con guida (a sue spese) ad Auschwitz e Birkenau, la località a 70 chilometri da Cracovia dove il gorgo del nazismo fissò la sua infernale faccenda. La denuncia semmai, me la terrei con chi ha prodotto quell’infame e vergognosa t-shirt. E speriamo che valga anche di lezione per quegli insegnanti che non fanno leggere Primo Levi a scuola, perché il sonno della ragione genera mostri, in questo caso sotto forma di magliette.
(fonte: Famiglia Cristiana, articolo di Francesco Anfossi 29/10/2018 )

Predappio, la militante scherza sui lager: 
"La mia maglietta 'Auschwitzland'? Humor nero"

Guarda il video

La sorridente signora in gita a Predappio con la maglietta "spiritosa" su Auschwitz, nelle poche battute concesse, di cose atroci ne dice almeno due. Una è quella già nota, ovvero mettere lo sterminio degli ebrei nel suo angolino del buonumore. L’altra, formalmente meno spaventosa, ma almeno altrettanto devastante, è dire che «dopo Mussolini non è stato fatto niente, in sessant’anni, per l’Italia e gli italiani». Niente, capite? I padri e i nonni usciti dalle macerie e dalla guerra (di Mussolini), che si sono rimboccati le maniche per ricostruire un Paese distrutto (da Mussolini): non hanno fatto niente. La democrazia, le libertà politiche, la Costituzione, l’ingresso in Europa: è niente. L’uscita dall’analfabetismo, la scuola dell’obbligo, l’istruzione di massa: niente. Il boom economico, i diritti sindacali, gli aumenti salariali, la dignità in fabbrica: niente. La sanità pubblica, gli ospedali, la ricerca medica: niente. I diritti civili, la tutela della maternità, la parità femminile, il divorzio: niente. Il benessere diffuso, l’aumento vertiginoso del tenore di vita, due generazioni cresciute senza guerre, senza dover scappare in cantina sotto le bombe: niente. Dal 1945 al 2018: niente. Nulla di più falso, di più ingrato, di più meschino può uscire di bocca a un italiano dei nostri giorni. Metà lagnosa, metà insolente, c’è un’Italia convinta che settant’anni di democrazia, e la fatica di due generazioni, siano "niente". Se la meriterebbero, loro sì, un’altra bella ripassata di fascismo, di miseria e di guerra.
(fonte: Repubblica, L'Amaca di Michele Serra 31/10/2018)



La bellezza è nel VOLTO di Dio di Luis Antonio Tagle

La bellezza è nel VOLTO di Dio 
di Luis Antonio Tagle




22.10.2018 - La riflessione del cardinale Tagle 
per la Settimana della Bellezza 
della Diocesi di Grosseto: 
«È rivolgendosi a Lui che ritroveremo 
il valore attuale della compassione» 
«Il Tuo Volto Io Cerco».
Testo anticipato da "Avvenire"



Il Salmo 27 esprime la sicura e illimitata certezza che Dio ci verrà in aiuto nelle avversità.

Con Dio i nostri nemici sono impotenti. Nel tempio di Dio, luogo sicuro e di pace, troviamo rifugio. Nella seconda parte il salmista prega Dio che non lo abbandoni e lo implora di essere sua guida. (...) Di fronte «al brutto volto» della vita: combattimenti, odio, pericoli e minacce, costantemente il salmista cerca il volto del Signore. Nel volto del Signore si trova la bellezza. Il volto del Signore si trova nel suo tempio, luogo della bellezza divina.

L' esperienza del salmista nel Salmo 27 è molto attuale, specialmente ai nostri tempi. Se possiamo combattere il male solo con il bene, allora possiamo combattere la bruttezza della vita con la bellezza. Per noi cristiani questa bellezza si trova nel volto di Dio che la Chiesa ha la missione di manifestare e irradiare. Thomas Troeger dice: «In un mondo pieno di orrori, il cuore anela alla visione della bellezza divina, e quando la Chiesa fallisce nel trasmettere la bellezza, la vita di fede spesso diventa triste e pesante. Noi distorciamo l' immagine di Dio in noi e nel nostro modo di vedere Dio quando ci concentriamo sul Suo potere e sulla Sua potenza, trascurando gli altri attributi divini».

(...) Il mondo va cercando la bellezza nei volti. Non c' è da stupirsi! Ci sono molti prodotti di bellezza per rendere il viso più bello e radioso. Ma qual è il volto umano? È solo una delle tante parti del corpo? (...) Il volto rivela i nostri atteggiamenti e le nostre reazioni. Se noi vogliamo conoscere gli altri, leggiamo i loro volti. Non sorprende che nella Bibbia il volto sia uno dei simboli della persona umana e di Dio. (...) 

Nella nostra cultura contemporanea l' eccessiva attenzione alla bellezza rappresenta un grande business. Gli interventi chirurgici per cambiare naso, occhi, zigomi e pelle sono un grande affare. Ma qual è il tuo vero volto? Quello con cui sei nato o quello che hai scelto, modellato sui volti di alcune celebrità? In tanti paesi, oggi, i volti mutilati raccontano storie di guerre, di aspri conflitti, di schiavitù, di abusi e di vendette. Massimo Leone, dell' Università di Torino, afferma: «Nei social network digitali gli esseri umani sono esposti a quantità di immagini di volti senza precedenti; essi interagiscono visivamente con loro in modi nuovi, come attraverso touch screen digitali ... attraverso la mobilità degli smart phone e l' architettura delle piattaforme digitali. La maggior parte degli uomini, oggi, memorizza, trasporta e manipola centinaia, se non migliaia, di piccole icone di volti al giorno.

Abbiamo bisogno di studiare l' impatto che hanno i selfie sulla nostra comprensione del volto. Quello che facciamo con i nostri volti e con i volti di altre persone su Internet non dovrebbe essere ignorato. Abbiamo immagini digitali di volti senza una storia». Aggiunge: «Dal punto di vista emotivo, la manipolazione globale dei volti sta cambiando il meccanismo dell' empatia: gli esseri umani sono sempre più visti come carte di scambio che si possono facilmente sostituire; in qualsiasi momento, l' empatia, con l' immagine della faccia dell' altro, diventa più difficile nel momento in cui ogni icona del viso annega in un oceano di immagini simili formattate» ( La semiotica del volto nell' era digitale).

Se è vero che la «manipolazione » digitale del volto ha reso più difficile l' empatia, allora la ricerca del volto di Dio compassionevole, pieno di tenerezza, è una delle sfide del nostro tempo. Nel brutto mondo dell' indifferenza, della violenza e della disumanizzazione, possiamo sentire il salmista ripetere: «Il tuo volto pieno di compassione io cerco». La compassione è il no- me contemporaneo della bellezza. 

Lasciatemi focalizzare l' attenzione sui bambini sofferenti.

I bambini sofferenti servono da ponte tra noi e il mondo, suscitando compassione nei nostri cuori, un valore umano e cristiano di cui l' umanità ha urgente bisogno. Tutte le nostre soluzioni fiscali, politiche e finanziarie, come anche i problemi che riguardano i giovani, fallirebbero se non scaturissero dalla compassione. Immagini di bambini che cercano cibo nei cassonetti della spazzatura dei ristoranti, campi di bambini feriti e traumatizzati in luoghi devastati dalla guerra, che vengono portati di corsa in un ospedale, il rumore ossessivo delle onde che portano a riva i cadaveri dei bambini rifugiati - tutto questo ci interroga: dov' è l' uomo? Dove è finito il nostro senso dell' umanità? Dov' è la compassione? Dove manca la compassione, l' umanità muore. Ma dove andiamo per risvegliare la compassione? Dobbiamo rivolgerci a Dio che ci ricondurrà alla compassione, ai nostri fratelli e alle nostre sorelle e al nostro essere umani.

(...) Quando nel 2015 Papa Francesco ha visitato le Filippine, ha avuto un incontro speciale con i giovani. Alcuni di loro gli hanno rivolto delle domande. Una ragazza di nome Glyzelle, che viveva in una casa della Fondazione Anak per bambini poveri, gridando forte, con lacrime di dolore innocente che le bagnavano il viso, ha chiesto al Santo Padre: «Perché Dio permette la sofferenza dei bambini?». Cercava il grembo, il volto della compassione di Dio.

Papa Francesco le si è avvicinato e l' ha abbracciata in silenzio. Quando è giunto il momento di rispondere, il Papa ha messo da parte il suo discorso preparato. Ha semplicemente detto: «Ci sono domande per le quali non abbiamo risposte. Ma voglio dirtelo - non aver paura di piangere. Quando le lacrime avranno lavato i nostri occhi, potremmo vedere più chiaramente».

Papa Francesco sapeva che, più delle parole, una presenza amorevole e tranquilla poteva dare a una ragazza sofferente la certezza che la compassione di Dio è vera e che lei è un' amata figlia di Dio
La missione della Chiesa e delle persone di buona volontà è di essere il grembo e il volto della compassione per molti bambini che sentono di non appartenere a nessuno.

Vengono usati, poi scartati e dimenticati.

Compassione significa abbracciare le loro ferite come se fossero le nostre stesse ferite, alla maniera di Gesù.

(...) In una delle mie visite alla casa per bambini poveri ho incontrato Paulo e Maria, ex residenti. Crescendo poveri e senza ideali nelle strade e nelle baraccopoli di Manila, hanno trovato asilo e accoglienza nella casa Anak. Dopo aver terminato gli studi, innamoratisi l' uno dell' altra, hanno deciso di sposarsi. Mi hanno mostrato con orgoglio il loro bambino, Justin James.

Ho ricordato loro di essere buoni genitori per lui. Hanno risposto: «Eminenza, abbiamo vissuto molte cose tristi e terribili nella vita, per quanto dipende da noi, non permetteremo mai che Justin James li sperimenti anche lui. Abbiamo assaporato tanto amore ad Anak. Ricopriremo Justin James dello stesso amore». La compassione genera compassione.

Molti bambini cercano, stanno cercando ora il volto di Dio. 
Speriamo che il mondo veda il volto di Dio, la bellezza di Dio, nella nostra compassione.

(Fonte: Avvenire) 

martedì 30 ottobre 2018

Lo scandalo del male. Desirée, la giustizia e più acute domande di Marina Corradi - Le parole di don Livio Fabiani e quelle di Massimo Gramellini (video)


Lo scandalo del male. Desirée, la giustizia e più acute domande

di Marina Corradi


Passano e ripassano in tv, sui giornali, le foto di quella ragazzina con i capelli lunghi, il sorriso timido e gli shorts aderenti, quasi a sfidare: sono già una donna – in una fierezza tuttavia ancora infantile. Passano e ripassano le foto di Desirée Mariottini, accompagnate da particolari d’inferno. Drogata, violentata da più uomini per molte ore e lasciata agonizzare, sola. Nel centro di Roma. L’orrore è tale che sei tentato di non leggere, di non sapere.

Ma ogni tg ti ributta in faccia il volto di questa sedicenne, poco più che una bambina. E a ognuno che abbia figli o nipoti, o adolescenti che gli sono cari, nell’ascoltare si torce qualcosa nel cuore. Non è morta per una disgrazia, Desirée, ma è stata attirata in trappola e violentata dai suoi aguzzini per una notte intera. Il sapere di una simile ferocia non ci lascia in pace. Giustizia, si invoca e si promette. Certo, giustizia: urgente e doveroso. Ma anche quando fosse fatta, ci basterà la giustizia a cancellare quella notte a San Lorenzo? Le grida, il terrore, gli ultimi istanti di coscienza di una povera preda? Giustizia, certo. Eppure, ci pare così poco.

Chi poi è cristiano, si rabbuia ulteriormente. Perché noi, che ci diciamo certi di un disegno buono di Dio per ognuno dei suoi figli, guardiamo al destino di questa ragazzina e non possiamo non chiederci perché non ha incontrato una sola persona che la potesse aiutare; o perché l’ha incontrata, e non l’ha saputa riconoscere.

Perché, pure in una famiglia divisa e tormentata, la sua solitudine fosse così assoluta da smettere di andare a scuola, da drogarsi, da aggirarsi da sola di notte fra gli spacciatori: fino al massacro, sempre sola. E il Dio che ci ama tutti, insorge aspra la domanda, non aveva un disegno buono anche per lei? Che ne è stato, del disegno di Dio per Desirée? (Per la bambina che pure, messa al mondo da una mamma appena quindicenne, era stata chiamata, fra mille nomi possibili, "desiderata").

Sono domande che ti lasciano zitta, e tuttavia avverti come uno scricchiolio nelle tue stesse fondamenta. L’amore di Dio, o c’è per ciascuno, o non c’è. Qualcuno ti risponderà subito che Dio ha lasciato il suo stesso figlio morire in Croce, e che il suo disegno è spesso ai nostri occhi incomprensibile.

Assolutamente vero, e però davanti a storie come quella di Roma la più giusta e pronta delle risposte non vale forse quel momento o quei giorni di silenzio, quel ritrovarsi senza parole. La libertà a sedici anni è così acerba, soprattutto se sei cresciuta in una famiglia azzoppata, che comunque questa sedicenne violata e abbandonata agonizzante è una figura del dolore innocente. Il più grande dei misteri, il più intollerabile.

Tornano implacabili quelle foto sui tg, e quei particolari. Lo scandalo del male è tale, che ci troviamo davanti a una scelta. Non volerci pensare, seppellire la domanda che si affaccia - e però, in fondo, cominciare a dubitare di Dio. O affrontare invece questa domanda e, non trovando un plausibile perché, fronteggiare la disperazione ( se non è vero che Dio ci conosce e ci ama a uno a uno, cosa siamo?)

C’è poi una terza via, forse: lasciare che la domanda ci insegua, ci incalzi, infine si depositi in noi. Lasciare che ci cada dentro come un macigno e, finito l’eco del boato, si faccia un più largo silenzio. Un silenzio e un vuoto. Come una povertà assoluta. Come la mano tesa di un mendicante, che chiede la carità. Accogliere in sé questo silenzio e vuoto, come una cavità che ci si apre nel petto: farne una preghiera. Farne un luogo in cui Dio possa trovare spazio in noi. («L’anima non è che una cavità che Egli riempie», ha scritto Clive Staples Lewis, grande scrittore cristiano).

E domandare che in questo spazio, in questo tetto che, pure senza capire, gli lasciamo, Dio ci renda più generosi e più capaci di vedere. Di vedere gli altri, ogni sconosciuto altro. Capaci di scorgere, nelle famiglie, nelle scuole, negli oratori, le Desirée che sbocciano sole, senza nessuno a proteggerle, come certi fiori sulle massicciate delle ferrovie, a maggio; di riconoscerle, e prendercene cura come fossero, i figli che paiono di nessuno, figli nostri.
(fonte: Avvenire, 29/10/2018)



A Cisterna di Latina hanno avuto luogo i funerali di Desirée Mariottini. Le esequie si sono tenute oggi, nella chiesa di San Valentino, da cui prende il nome il quartiere popolare alla periferia della città e in cui viveva la ragazza con la mamma e i nonni.

Ad accogliere il feretro, seguito dai genitori e dagli altri familiari della giovane, il parroco don Livio Fabiani. 
«In questa chiesa Desirée da me ha ricevuto la Prima Comunione e, qualche anno dopo la Cresima. Non avrei mai pensato che un giorno, oggi, sarei stato io stesso a darle l’ultimo saluto».

Proseguendo nell'omelia, il parroco ha invitato la comunità «a dimenticare ciò che i giornali e gli altri mezzi di comunicazione nel bene e nel male, nella verità e nella menzogna, ci hanno presentato. Stringiamoci intorno a Desirée e ai suoi famigliari. Facciamo loro sentire la nostra vicinanza e il nostro affetto. Ma soprattutto cerchiamo di ricevere, nella gioia e nel dolore, il messaggio umano e cristiano che deriva da questo nostro stare insieme».

Non è mancato, da parte di don Livio, «un appello a tutti i responsabili della cosa pubblica, grandi o piccoli, centrali o periferici che essi siano, a vigilare, a controllare e a intervenire a tempo debito contro ogni forma di violenza senza aspettare che questa violenza esploda e che si ripeta ciò per cui oggi stiamo piangendo. E la nostra preghiera sia anche per questo».

E infine: "Il paradiso esiste, non ne abbiamo fatto un raccontino per bambini. Questa stella è volata in cielo e il Signore le apre le porte del paradiso".
(fonte Avvenire 30/10/2018)
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Massimo Gramellini il 27 ottobre dedica la chiusura del programma "Le Parole della Settimana", in onda il sabato sera su rai3tv, a Desirée Mariottini e alla sua terribile storia, tragicamente conclusasi in una via oramai divenuta simbolo di degrado urbano, dimenticata da tutti.

A sedici anni Desirée Mariottini ha bisogno di tutto, ma non lo vuole da nessuno...
Sul suo profilo fb si descrive così, in rima: Nata principessa, cresciuta guerriera, un angelo bianco con l'anima nera. ...
Guarda il video


"Voglio morire con la speranza che si possa vivere in un mondo di pace. ...Bisogna far cessare il vento dell'odio... Il futuro è nelle mani dei giovani. Non disilludetemi!!" Andrea Camilleri (VIDEO)

Razzismo. Liliana Segre propone commissione anti-odio
"Voglio morire con la speranza 
che si possa vivere in un mondo di pace. ...
Bisogna far cessare il vento dell'odio...
 Il futuro è nelle mani dei giovani. 
Non disilludetemi!!"
 Andrea Camilleri 
(VIDEO)


Andrea Camilleri 
è stato ospite della trasmissione della Rai 
«Che Tempo Che Fa» il 28.10.2018.
Lo scrittore ha commentato la proposta al Senato 
per la Commissione Anti-odio 
da parte dalla Senatrice Liliana Segre. 



Purtroppo, Fazio, sento – dice Camilleri – Non ho bisogno di vedere in faccia chi produce certe parole. Proprio in questo momento è una fortuna esser ciechi, non vedere certe facce ributtanti che seminano odio e vento e raccoglieranno tempesta. Le parole della senatrice Segre sono parole sofferte e tutte da sottoscrivere. Stiamo perdendo la misura, il peso, il valore della parola. Le parole sono pietre, le parole possono trasformarsi in pallottole. Bisogna pesare ogni parole che si dice e soprattutto far cessare questo vento dell'odio che è veramente atroce. Lo si sente palpabile attorno a noi.

"Ma perché – si chiede lo scrittore – perché l'altro è diverso da me? L'altro non è altro che me stesso allo specchio. Ancora oggi è una notizia di cronaca di quel pazzo che entra in una sinagoga e uccide undici persone urlando "ebrei tutti a morte". Ma ci si rende conto a che livelli ci abbassiamo quando non solo diciamo, ma siamo capaci di pensare tutto questo? Peggio degli animali, che hanno la fortuna di non parlare. Le parole della senatrice dovrebbero essere dette e scritte all'ingresso di ogni scuola. Perché la cosa terribile è che stiamo educando la gioventù all'odio. Perché abbiamo perso il senso dei valori ...  i veri valori della vita, la vita, che è bellissima!
...
“Non voglio morire male, con l’umor nero del tramonto. Voglio morire con la speranza che i miei nipoti e pro nipoti vivano in un mondo di pace. Bisogna che tutti i giovani si impegnino perché il futuro sono loro, è nelle loro mani. Spero molto nelle nuove generazioni, moltissimo. 
Non disilludetemi!”

GUARDA IL VIDEO



Leggi anche: 
Liliana Segre in prima linea contro l’intolleranza propone commissione anti-odio al Senato
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Liliana Segre: "Il senso comune si sta fascistizzando"  (VIDEO)

ENZO BIANCHI: "LA BIBBIA CI INSEGNA CHE NELLA STORIA SIAMO TUTTI MIGRANTI"

ENZO BIANCHI: "LA BIBBIA CI INSEGNA CHE 
NELLA STORIA SIAMO TUTTI MIGRANTI"

In Centroamerica varie migliaia di persone, partite dall'Honduras, marciano verso gli Stati Uniti, mentre l'Occidente innalza muri contro gli stranieri. Ma, dice il fondatore della Comunità di Bose, i progenitori degli ebrei erano nomadi, il cristianesimo si è spostato da un luogo all'altro. L'umanità, da sempre, è in cammino.



Un'impressionante fiume di gente in marcia. Gente a piedi, che porta con sé il vestito che ha addosso e poco altro. C'è chi dice siano 7.000, chi di più. L’unica certezza è che il loro numero aumenta di giorno in giorno, grazie al tamtam della rete e a volantini passati di mano in mano. Sono migranti. I primi sono partiti circa due settimane fa dall’Honduras (Stato poverissimo dell’America centrale) e si sono messi in cammino per raggiungere gli Stati Uniti, meta o miraggio di una vita migliore. A ogni tappa, il fiume raccoglie nuovi disperati. Dopo un percorso estenuante tra Honduras e Guatemala, ora la carovana sta attraversando il Messico. E benché i migranti siano ancora lontanissimi dal confine statunitense, il presidente Donald Trump ha già minacciato dure repressioni: ha inviato 800 soldati alla frontiera e molto probabilmente sta facendo pressione sul Messico perché la colonna in marcia venga arrestata.

Guardando le immagini di quella moltitudine in cammino, è impossibile non pensare ai racconti dell’esodo biblico. L'Occidente torna ad alzare muri contro un fenomeno antico quanto l’uomo. Ma leggere con profondità e attenzione la Sacra Scrittura potrebbe aiutarci a decifrare il presente. Sì, perché «la Bibbia nasce da migrazioni di popoli», ci ricorda Enzo Bianchi, fondatore della comunità monastica di Bose (Biella), una realtà molto speciale, formata da monaci di entrambi i sessi, provenienti da diverse Chiese cristiane.

«I progenitori degli ebrei erano nomadi che dall’Oriente si spostavano verso il Medio Oriente», spiega il religioso. «E la storia del popolo ebraico è stata una migrazione continua: prima in terra di Canan, poi in Egitto, poi l'esodo dall’Egitto alla Palestina. C'è un legame profondo tra la rivelazione del nostro Dio e i migranti. I credenti che si riconoscono nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe individuano come punti di riferimento tre nomadi, tre uomini che hanno sempre cercato una terra e hanno sempre dimorato in luoghi per loro stranieri». Non parliamo poi della storia della Chiesa: «Il Cristianesimo nasce giudaico, ma presto si sposta nel mondo greco e latino, per poi subire le influenze dei popoli barbari. Proprio da questa mescolanza di genti è nato il pensiero europeo, che mostra un’umanizzazione e un cammino raro nella storia dell’umanità».

Ma certo il tema non si esaurisce con le ragioni storiche, poiché l’appartenenza al popolo cristiano ci chiede un impegno nel qui e ora. Un impegno quanto mai concreto. «Basterebbe ricordare», prosegue Enzo Bianchi, «che nel cuore del messaggio di Gesù, là dove vengono esemplificate quelle relazioni sulle quali si giocherà la nostra salvezza, leggiamo “ero straniero e mi avete accolto”. Con il Vangelo, l’amore per il migrante, già presente nell’Antico Testamento, assume una dimensione universale, poiché lo straniero diventa segno, sacramento di Cristo stesso».

Ma se l'accoglienza è così fortemente presente nel Dna del messaggio di Cristo, come spiegare il timore dello straniero che in questo periodo attanaglia tanti Paesi cristiani, in America come in Europa? «Emerge una grande fragilità, anche nella fede. Per molti, il cristianesimo si riduce a un fatto culturale, diventa semplice tradizione, localismo, appartenenza al campanile, rassicurante tranquillità. Ma così si nega il messaggio più profondo racchiuso nel Vangelo. Ci sono poi forze politiche che cavalcano queste paure e in certa misura le creano». Risultato: «Una barbarie incipiente, della quale dovremmo vergognarci». 

«Dovremmo recuperare la nostra autentica memoria cristiana», osserva il fondatore della comunità di Bose. «O, più semplicemente, dovremmo ricordarci di ciò che siamo stati. Vale per noi italiani, vale per il popolo statunitense, che è costituto da discendenti di migranti. Attualmente siamo preda di impreparazione e mancanza di conoscenza. I fenomeni migratori non possono essere negati, ma vanno governati. Serve una politica piena di visione, che non si accontenti delle risposte a breve termine. Quando i migranti sono alle nostre frontiere, o peggio, in mare, dovremmo rispondere con umanità. Ma servirebbe anche uno sguardo globale. Non dimentichiamo che il più grande movimento migratorio del nostro tempo non si sta verificando nel Mediterraneo, ma all’interno del continente africano. Allo stesso modo, in America ci si muove da Sud verso il più ricco Nord. Finché queste persone non avranno la possibilità di una vita nelle loro terre, continueranno a fuggire. E tenteranno di raggiungere i nostri Paesi. Perché, da sempre, chi ha fame si sposta per cercare il pane». 

(fonte: Famiglia Cristiana, articolo di Lorenzo Montanaro del 29/10/2018)


lunedì 29 ottobre 2018

Buon compleanno Chiara, una delle Sante più giovani e amate della Chiesa cattolica - CHIARA LUCE BADANO, LA RAGAZZA CHE TRAVOLSE IL TUMORE CON LA GIOIA DELLA FEDE


CHIARA LUCE BADANO, 
LA RAGAZZA CHE TRAVOLSE IL TUMORE CON LA GIOIA DELLA FEDE

Giovane focolarina, morì per un cancro il 7 ottobre 1990 a 19 anni pronunciando queste parole: «Mamma sii felice, perché io lo sono. Ciao!», a coronamento di una sofferenza vissuta nella luce radiosa e consolante della fede che stupì gli stessi medici e le persone che le stavano intorno. È stata beatificata nel 2010. Chiara Lubich, fondatrice dei Focolari, la soprannominò “Luce” per il suo sorriso

Giovane focolarina, una delle Sante più giovani e amate della Chiesa cattolica, beatificata nel 2010 al Santuario del Divino Amore di Roma, Chiara Badano morì per un tumore il 7 ottobre 1990 a 19 anni pronunciando queste parole: «Mamma sii felice, perché io lo sono. Ciao!», a coronamento di una sofferenza vissuta nella luce radiosa e consolante della fede. Una forza della fede che lei conobbe già a nove anni. Trovava Gesù nei lontani, negli atei e tutta la sua vita è stata una tensione all’amore concreto per tutti. Ogni sua giornata fu una gemma da innalzare a Dio, dando un senso eterno ad ogni gesto. Dinamica, sportiva, bella, Chiara si sente amata da Dio e lo vuole portare a tutti coloro che incontra sulla sua strada. Animata da profondo rispetto per ognuno, manifesta con schiettezza il proprio pensiero di credente, ma evita di prevaricare sulla libertà e coscienza dell’interlocutore: ben più efficace dei ragionamenti è infatti la sua testimonianza di serenità e di generosa disponibilità.

L’INCONTRO CON IL MOVIMENTO DEI FOCOLARI

La beatificazione di Chiara Badano
al Santuario del Divino Amore nel 2010
Chiara nasce a Sassello, in provincia di Savona della diocesi di Acqui, dopo undici anni di attesa dei suoi genitori, Maria Teresa Caviglia e Ruggero Badano. È il 29 ottobre 1971. Cresce nella vivacità e nell’intelligenza, è simpatica e trainante, è leader, ma non lo lascia apparire, perché mette sempre in risalto gli altri. Poi avviene un incontro importante, è in terza elementare quando conosce il Movimento dei Focolari, fondato da Chiara Lubich. Entra così fra le Gen (Generazione nuova). Lei non parla di Gesù agli altri, lo porta con la sua vita. Dice infatti: «Io non devo dire di Gesù, ma devo dare Gesù con il mio comportamento» e così si ripensa allo straordinario insegnamento di sant’Ignazio di Antiochia: «È meglio essere cristiani senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo». La gioia di vivere, l’entusiasmo per le piccole cose, la contemplazione del creato, la felicità di godere dell’amicizia erano il nutrimento delle sue giornate.

LA SCOPERTA DEL TUMORE E LA VITALITÀ NELL’AFFRONTARLO 

Alla fine della quinta ginnasio Chiara appare pallida, sorride meno, è stanca. Nell’estate, durante una partita di tennis sente un lancinante dolore alla spalla. Medici, ospedali… e la Tac. Chiara ha un cancro maligno: «processo neoplastico di derivazione costale (7ª di sinistra) con invasione dei tessuti molli adiacenti». Affetta dunque da un tumore osseo di quarto grado, il più grave. Ha 17 anni. Inizia il pellegrinaggio negli ospedali di Torino, una vera e propria via crucis. Deve subire un intervento e prima di entrare nella sala operatoria dice alla mamma: «Se dovessi morire, celebrate una bella messa e di’ ai Gen che cantino forte». Si sottopone alla chemioterapia e alle sedute di radioterapia, affrontando tutto come identificazione con i dolori di Cristo. Si abbandona e allora la malattia diventa per lei fatto marginale, vivendolo in Gesù. «Sono sempre stato impressionato», ha raccontato a Maria Grazia Magrini il dottor Brach, «dalla forza di accettazione della malattia da parte di Chiara e dei suoi familiari. Lei conosceva la gravità del male che l’aveva colpita e fui io stesso a spiegarle quanto fosse grave la sua situazione, e che quindi avrebbe incontrato crisi di vomito, avrebbe perso i capelli e sarebbe andata incontro ad infezioni, emorragie ed altre conseguenze». Eppure, accanto a lei, parenti e amici continuano a respirare aria di festa. Chiacchiera volentieri, gioca, scherza. Non c’è odore di malattia, né di prossima morte. La vita continua a fuoriuscire da lei e gli altri si abbeverano a questa straordinaria fonte. Si consuma e si offre per amore di Gesù ai dolori della Chiesa, al Movimento dei Focolari e ai giovani. È molto dimagrita, fatica a respirare e ha forti contrazioni agli arti inferiori. Avrebbe bisogno di morfina, ma non la vuole perché le toglierebbe la lucidità, la consapevolezza. 
Un'immagine di Chiara Badano durante la malattia
«MI PREPARO ALL’INCONTRO CON LO SPOSO»


Nessun risultato, nessun miglioramento. La malattia avanza nell’impotenza sanitaria. Tutti depongono le armi, non c’è più nulla da fare. La giovane scrive a Chiara Lubich, informandola della decisione di interrompere la chemioterapia: «Solo Dio può. Interrompendo le cure, i dolori alla schiena dovuti ai due interventi e all’immobilità a letto sono aumentati e non riesco quasi più a girarmi sui fianchi. Stasera ho il cuore colmo di gioia… Mi sento così piccola e la strada da compiere è così ardua, spesso mi sento sopraffatta dal dolore. Ma è lo Sposo che viene a trovarmi». La fondatrice dei Focalarini nel risponderle le assegna un nuovo nome: «Chiara Luce», è da qui che tutti prendono a chiamarla così. Chiara predispone tutto per il suo prossimo funerale, che chiama la sua messa, le sue nozze con Gesù. Dovrà essere lavata con l’acqua, segno di purificazione e pettinata in modo molto giovanile e chiede alla mamma di non piangere perché «quando in cielo arriva una ragazza di diciotto anni, si fa festa!». Il suo vestito da sposa lo vuole bianco, lungo, semplice, con una fascia rosa in vita. La sua amica del cuore, Chicca, lo prova di fronte a lei: le piace molto, è semplice come lo desiderava. Chiara Luce muore alle 4,10 del 7 ottobre 1990, festa della beata Vergine Maria del Rosario. Ma la luce del suo incantevole sguardo non si spegnerà perché i suoi occhi saranno donati a due ragazzi. Dichiarata venerabile il 3 luglio 2008, è stata proclamata beata il 25 settembre 2010. 

«SI SENTIVA IN LEI LA PRESENZA DELLO SPIRITO» 

La sua cameretta, in ospedale prima e a casa poi, diventa una piccola chiesa, luogo di incontro e di apostolato: «L’importante è fare la volontà di Dio... è stare al suo gioco... Un altro mondo mi attende... Mi sento avvolta in uno splendido disegno che, a poco a poco, mi si svela... Mi piaceva tanto andare in bicicletta e Dio mi ha tolto le gambe, ma mi ha dato le ali...». Chiara Lubich, che la seguirà da vicino, durante tutta la malattia, in un’affettuosa lettera le pone il soprannome di “Luce”. Mons. Livio Maritano, vescovo diocesano, così la ricorda: «Si sentiva in lei la presenza dello Spirito Santo che la rendeva capace di imprimere nelle persone che l’avvicinavano il suo modo di amare Dio e gli uomini. Ha regalato a tutti noi un’esperienza religiosa molto rara ed eccezionale».
(fonte: Famiglia Cristiana 29/10/2018)


«La speranza di Dio non è un miraggio, è una promessa per la gente come noi. ... » Papa Francesco, Angelus del 28 ottobre 2018 (Testo e video)


ANGELUS
Piazza San Pietro
Domenica, 28 ottobre 2018



Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Ma non sembra tanto buono! [piove e c’è vento]

Questa mattina, nella Basilica di San Pietro, abbiamo celebrato la Messa di chiusura dell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi dedicata ai giovani. La prima Lettura, del profeta Geremia (31,7-9), era particolarmente intonata a questo momento, perché è una parola di speranza che Dio dà al suo popolo. Una parola di consolazione, fondata sul fatto che Dio è padre per il suo popolo, lo ama e lo cura come un figlio (cfr v. 9); gli apre davanti un orizzonte di futuro, una strada agibile, praticabile, sulla quale potranno camminare anche «il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente» (v. 8), cioè le persone in difficoltà. Perché la speranza di Dio non è un miraggio, come certe pubblicità dove tutti sono sani e belli, ma è una promessa per la gente reale, con pregi e difetti, potenzialità e fragilità, come tutti noi: la speranza di Dio è una promessa per la gente come noi.

Questa Parola di Dio esprime bene l’esperienza che abbiamo vissuto nelle settimane del Sinodo: è stato un tempo di consolazione e di speranza. Lo è stato anzitutto come momento di ascolto: ascoltare infatti richiede tempo, attenzione, apertura della mente e del cuore. Ma questo impegno si trasformava ogni giorno in consolazione, soprattutto perché avevamo in mezzo a noi la presenza vivace e stimolante dei giovani, con le loro storie e i loro contributi. Attraverso le testimonianze dei Padri sinodali, la realtà multiforme delle nuove generazioni è entrata nel Sinodo, per così dire, da tutte le parti: da ogni continente e da tante diverse situazioni umane e sociali.

Con questo atteggiamento fondamentale di ascolto, abbiamo cercato di leggere la realtà, di cogliere i segni di questi nostri tempi. Un discernimento comunitario, fatto alla luce della Parola di Dio e dello Spirito Santo. Questo è uno dei doni più belli che il Signore fa alla Chiesa Cattolica, cioè quello di raccogliere voci e volti dalle realtà più varie e così poter tentare un’interpretazione che tenga conto della ricchezza e della complessità dei fenomeni, sempre alla luce del Vangelo. Così, in questi giorni, ci siamo confrontati su come camminare insieme attraverso tante sfide, quali il mondo digitale, il fenomeno delle migrazioni, il senso del corpo e della sessualità, il dramma delle guerre e della violenza.

I frutti di questo lavoro stanno già “fermentando”, come fa il succo dell’uva nelle botti dopo la vendemmia. Il Sinodo dei giovani è stato una buona vendemmia, e promette del buon vino. Ma vorrei dire che il primo frutto di questa Assemblea sinodale dovrebbe stare proprio nell’esempio di un metodo che si è cercato di seguire, fin dalla fase preparatoria. Uno stile sinodale che non ha come obiettivo principale la stesura di un documento, che pure è prezioso e utile. Più del documento però è importante che si diffonda un modo di essere e lavorare insieme, giovani e anziani, nell’ascolto e nel discernimento, per giungere a scelte pastorali rispondenti alla realtà.

Invochiamo per questo l’intercessione della Vergine Maria. A lei, che è la Madre della Chiesa, affidiamo il ringraziamento a Dio per il dono di questa Assemblea sinodale. E lei ci aiuti ora a portare avanti quanto sperimentato, senza paura, nella vita ordinaria delle comunità. Lo Spirito Santo faccia crescere, con la sua sapiente fantasia, i frutti del nostro lavoro, per continuare a camminare insieme con i giovani del mondo intero.

Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle,

esprimo la mia vicinanza alla città di Pittsburgh, negli Stati Uniti d’America, e in particolare alla comunità ebraica, colpita ieri da un terribile attentato nella sinagoga. L’Altissimo accolga i defunti nella sua pace, conforti le loro famiglie e sostenga i feriti. Tutti, in realtà, siamo feriti da questo disumano atto di violenza. Il Signore ci aiuti a spegnere i focolai di odio che si sviluppano nelle nostre società, rafforzando il senso di umanità, il rispetto della vita, i valori morali e civili, e il santo timore di Dio, che è Amore e Padre di tutti.

Ieri, a Morales, in Guatemala, sono stati proclamati Beati José Tullio Maruzzo, religioso dei Frati Minori, e Luis Obdulio Arroyo Navarro, uccisi in odio alla fede nel secolo scorso, durante la persecuzione contro la Chiesa, impegnata a promuovere la giustizia e la pace. Lodiamo il Signore e affidiamo alla loro intercessione la Chiesa guatemalteca, e tutti i fratelli e le sorelle che purtroppo ancora oggi, in varie parti del mondo, sono perseguitati perché testimoni del Vangelo. Ai due Beati un applauso, tutti!

Saluto con affetto voi, cari pellegrini dell’Italia e di vari Paesi, in particolare i giovani provenienti da Maribor (Slovenia), la Fondazione spagnola “Centro Académico Romano” e i parrocchiani di San Siro Vescovo in Canobbio (Svizzera). Saluto i volontari del Santuario San Giovanni XXIII di Sotto il Monte, a 60 anni dall’elezione dell’amato Papa bergamasco; come pure i fedeli di Cesena e di Thiene, i ministranti e i ragazzi dell’Azione Cattolica della diocesi di Padova.

Oggi si celebra la festa del Señor de los Milagros, molto sentita a Lima e in tutto il Perù; rivolgo un grato pensiero al popolo peruviano e alla comunità peruviana di Roma. Domenica scorsa eravate qui con l’icona del Señor de los Milagros, e io non mi sono accorto. Tanti auguri nel giorno della festa! E saluto con affetto la comunità venezuelana in Italia, qui radunata con l’immagine di Nostra Signora di Chiquinquirá, la Chinita.

A tutti voi auguro una buona domenica e, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

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«Riuscirò a farmi santo?» Causa di Beatificazione di Don Oreste Benzi: in chiusura la fase diocesana


Causa di Beatificazione di Don Oreste Benzi:
in chiusura la fase diocesana

L'intervista al giudice don Giuseppe Tognacci


È in corso il processo per la causa di beatificazione di Don Oreste Benzi.

«Riuscirò a farmi santo?», si chiedeva in uno scritto del 1958 il giovane sacerdote riminese di ritorno dagli Stati Uniti, dove si era recato per raccogliere fondi con cui avrebbe dato vita alla sua opera, diffusa oggi in 42 Paesi del mondo.

Quella tensione interiore di don Oreste Benzi si è trasformata via via in un programma di vita, che lo ha portato ad essere il sacerdote dei poveri, dei diseredati, dei bambini abbandonati, dei disabili, dei tossicodipendenti, delle donne schiavizzate dalla prostituzione, di tutti coloro che avevano bisogno di una parola, di una guida, tanto da essere definito da Benedetto XVI «l’infaticabile apostolo della carità».

Sono trascorsi 11 anni da quel 2 novembre del 2007 in cui don Oreste ha lasciato questa terra, e da subito la gente lo ha considerato “santo”, perché in lui ha colto la tangibilità del Vangelo.

«Si può parlare di un santo. Si può parlare a un santo. Si può far parlare un santo. Don Oreste non è ancora stato proclamato santo, neanche beato, ma noi non saremmo qui, oggi, se la sua vita non parlasse di santità» raccontava il Vescovo di Rimini mons. Francesco Lambiasi il 27 settembre 2014, alla cerimonia di apertura della causa di beatificazione.

Dopo quattro anni di lavoro, la prima fase, quella diocesana, potrebbe essere ormai alle ultime battute.

«Nell’ascolto dei testimoni, ad oggi stiamo veramente finendo» ci spiega don Giuseppe Tognacci, giudice del processo. Ma «proprio in questo ultimo periodo alcune persone hanno chiesto di essere ascoltate. E questo ha richiesto più tempo.»

Perciò la chiusura del processo non coinciderà con il 50° anniversario della nascita della Comunità Papa Giovanni XXIII, come tutto faceva presagire?

«Per quanto dipende da me, penso che andremo a prima dell’estate del 2019».

Cosa succederà dopo la chiusura del processo di beatificazione di Don Oreste?

«Terminata l’inchiesta ci sarà la sessione di chiusura che sarà pubblica della fase diocesana del processo – così come è stata pubblica quella di apertura – in cui tutti i componenti del tribunale presteranno nuovamente giuramento. Si sigilleranno gli scatoloni contenenti i documenti, che verranno poi spediti alla Congregazione delle cause dei santi.»

Fino ad ora quanti testimoni avete ascoltato?

«131 persone. Oltre 90 sono stati presentati dalla postulazione, altri convocati d’ufficio, perché alcuni testimoni hanno indicato altre persone durante l’interrogatorio, che a loro avviso meritavano di essere ascoltate, permettendo di ampliare la conoscenza di don Oreste.»

Un lavoro lungo e metodico, a quanto pare.

«Dipende dal testimone. Diciamo che mediamente ha richiesto per ciascuno cinque mattinate di incontro.»

Don Oreste, almeno pubblicamente, non parlava del suo stato di salute, eppure il suo cuore ha ceduto. È emerso qualcosa su questo aspetto?

«Chi gli era vicino aveva consapevolezza del suo stato di salute e non era affatto ignaro di come don Oreste si rapportava alla sua condizione di salute. Che lui non ne parlasse apertamente è vero. Dall’ascolto dei testimoni si può perfettamente ricostruire ed essere a piena conoscenza di tutta la parabola clinica di don Oreste, fino alla sua morte.»

Si è fatto qualche idea di come lui ha affrontato tutto ciò?

«Don Oreste era cosciente della sua condizione di salute, seria e meritoria di maggiori attenzioni e cure, ma per tutta la sua storia, ben consapevolmente, ha deciso di non fermarsi se non con la morte.»

Dunque non ha anteposto la sua salute alla salvezza delle anime?

«Questo lo può dire solo il Signore. Chi lo può misurare? Non sta a me e neppure posso dire cosa è emerso. L’impressione che mi sono fatto è che lui abbia risposto ad una verità, ad una responsabilità che sentiva totalmente sua. Aveva il senso dell’eterno. Se il sacerdote è chiamato ad essere dono di sé, non aveva senso per lui risparmiarsi per un anno e mezzo di vita in più, perché tanto non finisce niente con la morte, anzi, la morte non è altro che un passaggio in cui si compie tutto e non finisce nulla. Un pensiero che lui ha esplicitato nella celeberrima frase di “Pane Quotidiano”.» (nel commento del 2 novembre 2007, giorno che ha coinciso proprio con la sua morte – ndr)

Come tribunale vi siete recati nei luoghi dove don Oreste è vissuto.

«Tra i luoghi visitati sorprende in particolare la casa canonica: un luogo di estrema semplicità, caratteristica che appartiene anche a tante altre case canoniche delle nostre parti costruite in quel periodo. Ma se pensiamo alla notorietà di don Oreste, un prete che ha viaggiato come pochi, ai vari livelli di frequentazione – era uno che contattava anche il Presidente del Consiglio dei Ministri – al giro di risorse materiali che ha avuto tra le mani per portare avanti la sua opera, questo rimarca ancora di più non solo l’essenzialità ma anche l’estrema povertà in cui viveva.»

Che idea si è fatto di questo sacerdote in odore di santità?

«Non è facile far emergere dai testimoni tutto quello che è stato veramente don Oreste. Mi rimane una domanda: questo sacerdote dalla vita così intensa, immersa nella profondità del vissuto degli uomini, con tutte le luci e le ombre, le comprensioni e incomprensioni che avrà dovuto vivere, la sequela alla sua proposta ma anche l’avversione e l’abbandono, con chi ha avuto la possibilità di raccontare se stesso nella profondità della sua anima di prete? Non solo essere guida e trascinatore, come è stato, ma poter raccontare di sé da fratello o magari anche da figlio.»

Forse raccontava direttamente al Padreterno.

«Può essere…»

Lei come sacerdote cosa si sente di aver ricevuto da questa esperienza di giudice per la causa di don Oreste?

«Tanta soddisfazione nel poter comunicare con una grande anima sacerdotale. Da bambino sentivo i miei genitori parlare di don Oreste con stima e ammirazione e mai avrei potuto pensare di trovarmi in questa vicenda: uno stupore rimasto vivissimo fino ad oggi. Un altro aspetto è che questo impegno e servizio mi ha permesso di entrare in una relazione di conoscenza e stima con varie persone che altrimenti non sarebbero mai entrate nella mia vita e questo mi fa vedere certi frutti di bene impensabili e inimmaginabili.»


Le tappe della causa di beatificazione di Don Benzi


27 ottobre 2012

Il responsabile della Comunità Papa Giovanni XXIII, Giovanni Paolo Ramonda, consegna la richiesta di avvio della causa di canonizzazione al Vescovo di Rimini, mons. Francesco Lambiasi, al termine del convegno Don Oreste Benzi, testimone e profeta per le sfide del nostro tempo.

24 ottobre 2013

La postulatrice Elisabetta Casadei consegna a monsignor Lambiasi, la richiesta formale di aprire la causa, dopo un anno di ricerche circa la “fama di santità” di don Benzi, sostenuta da molte lettere tra cui quelle di 9 cardinali, 41 vescovi italiani e 11 vescovi e arcivescovi stranieri, oltre a vari movimenti ecclesiali e, naturalmente, la Comunità Papa Giovanni XXIII.

3 gennaio 2014

Nulla osta da parte della Congregazione delle cause dei Santi

31 marzo 2014

Parere favorevole della Conferenza episcopale dell’Emilia Romagna

8 aprile 2014

Decreto di avvio della causa. Il vescovo Lambiasi lo rende pubblico.

27 settembre 2014

Cerimonia pubblica di apertura della causa di beatificazione di don Oreste Benzi nella chiesa della parrocchia La Resurrezione, da lui fondata nel 1968 e che per 32 anni ha avuto il sacerdote riminese come parroco.

Una curiosità: il processo ha inizio lo stesso giorno dell’apertura della causa di canonizzazione della sua figlia spirituale Sandra Sabattini avvenuta il 27 settembre 2006. Sandra il 6 marzo 2018 è stata dichiara “venerabile” da Papa Francesco.

Come è costituito il Tribunale Ecclesiastico

Giudice delegato: don Giuseppe Tognacci; Promotore di giustizia: padre Victorino Casas Llana (avvocato del diavolo), Notaio: Alfio Rossi e il notaio aggiunto Paolo Bonadonna. 131 sono stati i testimoni ascoltati, seguendo una traccia composta da oltre 150 domande.


(fonte: Comunità Giovanni XXIII articolo di Nicoletta Pasqualini del 28/10/2018)


«Ascoltare, farsi prossimi, testimoniare sono i tre passi fondamentali per il cammino della fede .... Vorrei dire ai giovani, a nome di tutti noi adulti: scusateci se spesso non vi abbiamo dato ascolto; se, anziché aprirvi il cuore, vi abbiamo riempito le orecchie ... La fede è questione di incontro, non di teoria...» Papa Francesco omelia a conclusione del Sinodo (foto, testo e video)


SANTA MESSA PER LA CONCLUSIONE
DELLA XV ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI
Basilica Vaticana
Domenica, 28 ottobre 2018


È iniziata con la processione dei giovani uditori, seguiti dai padri sinodali, la Messa di chiusura del Sinodo, presieduta dal Papa nella basilica di San Pietro.
Un Sinodo che, dal 3 ottobre, in 26 giorni, tappa dopo tappa, ha messo al centro il mondo dei giovani, la fede e il discernimento vocazionale.
Non maestri di tutti o esperti del sacro ma “portatori di vita nuova”, cioè “testimoni dell’amore di Dio che salva”: questo sono chiamati ad essere i cristiani. Lo ricorda Papa Francesco e le sue forti parole risuonano nella Basilica vaticana, davanti a circa 7mila fedeli. 
Tutta l’omelia si snoda sui tre passi che scandiscono il “cammino della fede” e parte dal Vangelo della Liturgia di oggi. Come Bartimeo, il cieco di Gerico che dopo essere stato guarito da Gesù diventa discepolo, così “anche noi abbiamo camminato insieme, abbiamo fatto ‘sinodo’”, dice infatti Francesco.











 


OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

L’episodio che abbiamo ascoltato è l’ultimo che l’evangelista Marco narra del ministero itinerante di Gesù, il quale poco dopo entrerà a Gerusalemme per morire e risorgere. Bartimeo è così l’ultimo a seguire Gesù lungo la via: da mendicante ai bordi della strada a Gerico, diventa discepolo che va insieme agli altri verso Gerusalemme. Anche noi abbiamo camminato insieme, abbiamo “fatto sinodo” e ora questo Vangelo suggella tre passi fondamentali per il cammino della fede.

Anzitutto guardiamo a Bartimeo: il suo nome significa “figlio di Timeo”. E il testo lo specifica: «il figlio di Timeo, Bartimeo» (Mc10,46). Ma, mentre il Vangelo lo ribadisce, emerge un paradosso: il padre è assente. Bartimeo giace solo lungo la strada, fuori casa e senza padre: non è amato, ma abbandonato. È cieco e non ha chi lo ascolti; e quando voleva parlare lo facevano tacere. Gesù ascolta il suo grido. E quando lo incontra lo lascia parlare. Non era difficile intuire che cosa avrebbe chiesto Bartimeo: è evidente che un cieco voglia avere o riavere la vista. Ma Gesù non è sbrigativo, dà tempo all’ascolto. Ecco il primo passo per aiutare il cammino della fede: ascoltare. È l’apostolato dell’orecchio: ascoltare, prima di parlare.

Al contrario, molti di quelli che stavano con Gesù rimproveravano Bartimeo perché tacesse (cfr v. 48). Per questi discepoli il bisognoso era un disturbo sul cammino, un imprevisto nel programma prestabilito. Preferivano i loro tempi a quelli del Maestro, le loro parole all’ascolto degli altri: seguivano Gesù, ma avevano in mente i loro progetti. È un rischio da cui guardarsi sempre. Per Gesù, invece, il grido di chi chiede aiuto non è un disturbo che intralcia il cammino, ma una domanda vitale. Quant’è importante per noi ascoltare la vita! I figli del Padre celeste prestano ascolto ai fratelli: non alle chiacchiere inutili, ma ai bisogni del prossimo. Ascoltare con amore, con pazienza, come fa Dio con noi, con le nostre preghiere spesso ripetitive. Dio non si stanca mai, gioisce sempre quando lo cerchiamo. Chiediamo anche noi la grazia di un cuore docile all’ascolto. Vorrei dire ai giovani, a nome di tutti noi adulti: scusateci se spesso non vi abbiamo dato ascolto; se, anziché aprirvi il cuore, vi abbiamo riempito le orecchie. Come Chiesa di Gesù desideriamo metterci in vostro ascolto con amore, certi di due cose: che la vostra vita è preziosa per Dio, perché Dio è giovane e ama i giovani; e che la vostra vita è preziosa anche per noi, anzi necessaria per andare avanti.

Dopo l’ascolto, un secondo passo per accompagnare il cammino di fede: farsi prossimi. Guardiamo Gesù, che non delega qualcuno della «molta folla» che lo seguiva, ma incontra Bartimeo di persona. Gli dice: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (v. 51). Che cosa vuoi: Gesù si immedesima in Bartimeo, non prescinde dalle sue attese; che io faccia: fare, non solo parlare; per te: non secondo idee prefissate per chiunque, ma per te, nella tua situazione. Ecco come fa Dio, coinvolgendosi in prima persona con un amore di predilezione per ciascuno. Nel suo modo di fare già passa il suo messaggio: così la fede germoglia nella vita.

La fede passa per la vita. Quando la fede si concentra puramente sulle formulazioni dottrinali, rischia di parlare solo alla testa, senza toccare il cuore. E quando si concentra solo sul fare, rischia di diventare moralismo e di ridursi al sociale. La fede invece è vita: è vivere l’amore di Dio che ci ha cambiato l’esistenza. Non possiamo essere dottrinalisti o attivisti; siamo chiamati a portare avanti l’opera di Dio al modo di Dio, nella prossimità: stretti a Lui, in comunione tra noi, vicini ai fratelli. Prossimità: ecco il segreto per trasmettere il cuore della fede, non qualche aspetto secondario.

Farsi prossimi è portare la novità di Dio nella vita del fratello, è l’antidoto contro la tentazione delle ricette pronte. Chiediamoci se siamo cristiani capaci di diventare prossimi, di uscire dai nostri circoli per abbracciare quelli che “non sono dei nostri” e che Dio ardentemente cerca. C’è sempre quella tentazione che ricorre tante volte nella Scrittura: lavarsi le mani. È quello che fa la folla nel Vangelo di oggi, è quello che fece Caino con Abele, è quello che farà Pilato con Gesù: lavarsi le mani. Noi invece vogliamo imitare Gesù, e come lui sporcarci le mani. Egli, la via (cfr Gv 14,6), per Bartimeo si è fermato lungo la strada; Egli, la luce del mondo (cfr Gv 9,5), si è chinato su un cieco. Riconosciamo che il Signore si è sporcato le mani per ciascuno di noi, e guardando la croce ripartiamo da lì, dal ricordarci che Dio si è fatto mio prossimo nel peccato e nella morte. Si è fatto mio prossimo: tutto comincia da lì. E quando per amore suo anche noi ci facciamo prossimi diventiamo portatori di vita nuova: non maestri di tutti, non esperti del sacro, ma testimoni dell’amore che salva.

Testimoniare è il terzo passo. Guardiamo i discepoli che chiamano Bartimeo: non vanno da lui, che mendicava, con un’acquietante monetina o a dispensare consigli; vanno nel nome di Gesù. Infatti gli rivolgono solo tre parole, tutte di Gesù: «Coraggio! Alzati. Ti chiama» (v. 49). Solo Gesù nel resto del Vangelo dice coraggio!, perché solo Lui risuscita il cuore. Solo Gesù nel Vangelo dice alzati, per risanare lo spirito e il corpo. Solo Gesù chiama, cambiando la vita di chi lo segue, rimettendo in piedi chi è a terra, portando la luce di Dio nelle tenebre della vita. Tanti figli, tanti giovani, come Bartimeo cercano una luce nella vita. Cercano amore vero. E come Bartimeo, nonostante la molta gente, invoca solo Gesù, così anch’essi invocano vita, ma spesso trovano solo promesse fasulle e pochi che si interessano davvero a loro.

Non è cristiano aspettare che i fratelli in ricerca bussino alle nostre porte; dovremo andare da loro, non portando noi stessi, ma Gesù. Egli ci manda, come quei discepoli, a incoraggiare e rialzare nel suo nome. Ci manda a dire ad ognuno: “Dio ti chiede di lasciarti amare da Lui”. Quante volte, invece di questo liberante messaggio di salvezza, abbiamo portato noi stessi, le nostre “ricette”, le nostre “etichette” nella Chiesa! Quante volte, anziché fare nostre le parole del Signore, abbiamo spacciato per parola sua le nostre idee! Quante volte la gente sente più il peso delle nostre istituzioni che la presenza amica di Gesù! Allora passiamo per una ONG, per una organizzazione parastatale, non per la comunità dei salvati che vivono la gioia del Signore.

Ascoltare, farsi prossimi, testimoniare. Il cammino di fede nel Vangelo termina in modo bello e sorprendente, con Gesù che dice: «Va’, la tua fede ti ha salvato» (v. 52). Eppure Bartimeo non ha fatto professioni di fede, non ha compiuto alcuna opera; ha solo chiesto pietà. Sentirsi bisognosi di salvezza è l’inizio della fede. È la via diretta per incontrare Gesù. La fede che ha salvato Bartimeo non stava nelle sue idee chiare su Dio, ma nel cercarlo, nel volerlo incontrare. La fede è questione di incontro, non di teoria. Nell’incontro Gesù passa, nell’incontro palpita il cuore della Chiesa. Allora non le nostre prediche, ma la testimonianza della nostra vita sarà efficace.

E a tutti voi che avete partecipato a questo “camminare insieme”, dico grazie per la vostra testimonianza. Abbiamo lavorato in comunione e con franchezza, col desiderio di servire Dio e il suo popolo. Il Signore benedica i nostri passi, perché possiamo ascoltare i giovani, farci prossimi e testimoniare loro la gioia della nostra vita: Gesù.

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