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mercoledì 4 gennaio 2023

Vinicio Albanesi “Sacra potestas”, potere e sinodalità

Vinicio Albanesi
“Sacra potestas”, potere e sinodalità



Nel recente discorso alla Curia romana, del 22 dicembre di quest’anno, per gli auguri di Natale, papa Francesco è ritornato, con insistenza, a sottolineare la necessità della conversione: «Contrario della conversione è il fissismo, cioè la convinzione nascosta di non avere bisogno di nessuna comprensione ulteriore del Vangelo. È l’errore di voler cristallizzare il messaggio di Gesù in un’unica forma valida sempre. La forma invece deve poter sempre cambiare affinché la sostanza rimanga sempre la stessa.

L’eresia vera non consiste solo nel predicare un altro Vangelo (cf. Gal 1,9), come ci ricorda Paolo, ma anche nello smettere di tradurlo nei linguaggi e nei modi attuali, cosa che proprio l’Apostolo delle genti ha fatto. Conservare significa mantenere vivo e non imprigionare il messaggio di Cristo».

È un richiamo forte e diretto. Gli scandali che sono esplosi nella Chiesa hanno riguardato due grandi capitoli: l’economia come è gestita all’interno della Chiesa istituzionale, gli abusi nei confronti dei minori e di donne consacrate.

Scandali che colpiscono la credibilità dell’azione pastorale, perché procurati da persone consacrate: ha coinvolto cardinali, vescovi, sacerdoti, religiosi.

Il papa ha ancora aggiunto: «Ma la grande attenzione che dobbiamo prestare in questo momento della nostra esistenza è dovuta al fatto che formalmente la nostra vita attuale è in casa, tra le mura dell’istituzione, a servizio della Santa Sede, nel cuore stesso del corpo ecclesiale; e proprio per questo potremmo cadere nella tentazione di pensare di essere al sicuro, di essere migliori, di non doverci più convertire».

Di fronte a tali scandali, il papa ha agito per correggere istituzionalmente i meccanismi di funzionamento della Curia romana, arrivando persino a rivedere, aggravandolo, il VI libro del Codice dell’azione penale per frenare la vastità degli abusi sui minori e sulle donne consacrate e non solo, a difesa di persone ingiustamente vulnerate.

Alla radice del problema

È lecito chiedersi il perché di una tale situazione degradata. Appellare alla responsabilità personale per comportamenti scorretti non è – a mio modesto parere – sufficiente.

È indispensabile ritornare al nodo della potestas, diventata potere. Le invocazioni allo Spirito che sorregge i cuori e alla capacità del discernimento traggono in inganno. Il nodo è teologico e giuridico.

Una prima questione sembra essere risolta: l’episcopato è sacramento; il sacramento dell’ordine ha tre gradi. Al vescovo, con la consacrazione e la missione canonica, è affidata la potestà ordinaria, propria e immediata, necessaria a santificare, insegnare, governare, come dichiara il can. 381 §1 del Codice.

Tale sintesi induce a utilizzare lo schema sacramentale dell’ex opere operato per qualsiasi funzione: la grazia sarebbe comunque distribuita, a prescindere dal comportamento personale. Se questo principio è valido per la celebrazione dei sacramenti, in quanto il celebrante è intermediario e non distributore di grazia, non così avviene per le funzioni di insegnamento e di governo, nelle quali la partecipazione umana è indispensabile.

Non può verificarsi la scissione tra la dimensione umana e quella soprannaturale, tradendo la natura stessa della Chiesa. Ricorda la Lumen gentium (n. 8): «Ma la società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, l’assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino».

L’esaltazione del sacramento dell’ordine che affida pieni poteri al vescovo e ai suoi collaboratori (tutti comunque chierici) procura una gerarchia che non può dichiararsi estranea alla propria partecipazione. Non è possibile abusare e celebrare; violentare e predicare; essere ingiusto e amministrare.

Avviene di fatto perché le funzioni gerarchiche sono vissute a prescindere dalla propria e altrui condotta, come se fosse altro da se stesso.[1]

Sacerdozio ministeriale e sacerdozio comune

Inutilmente il Concilio ha dedicato il secondo capitolo della Lumen gentium (LG) al sacerdozio comune dei fedeli: «Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo» (n. 9).

La distinzione tra sacerdozio ministeriale e sacerdozio comune è stata a tal punto accentuata da trasformare i fedeli cristiani in “sudditi”, con la gerarchia che produce tensione tra autorità pietrina e Sinodo dei vescovi, episcopato e presbiterato, presbiterato e popolo di Dio.

La gravità consiste nell’aver legato tali distinzioni alla volontà di Cristo, perdendo la misura della comunione del popolo che, con tutti i suoi componenti, è chiamato all’annuncio del Vangelo

Le discussioni sul conferimento delle potestà nella Chiesa in teologia e in diritto sono infinite. L’antica distinzione tra potestà di ordine e potestà di giurisdizione che sembrava superata, secondo alcuni, dai testi del Concilio, in realtà è ancora vigente secondo il Codice. Lo stesso linguaggio del Concilio, non è così dirimente, perché il tema si differenzia a seconda delle prospettive dei vari documenti che si occupano della stessa materia.[2]

La prospettiva del popolo di Dio

Occorre recuperare, per la Chiesa, la prospettiva del popolo di Dio. In questa dimensione, la potestà assume un valore comunitario, con diversi ministeri o uffici (munera in latino).

Lo scopo dei ministeri è «pascere e sempre più accrescere il popolo di Dio». Cristo ha voluto che i vescovi, successori degli apostoli «fossero nella sua Chiesa pastori fino alla fine dei secoli».

Coloro che, tra i battezzati, sono insigniti dell’Ordine sacro, sono posti in nome di Cristo, a pascere la Chiesa con la parola e la grazia di Dio. Il loro compito consiste nel «presiedere in luogo di Dio al gregge di cui sono pastori, quali maestri di dottrina, sacerdoti del sacro culto, ministri del governo della Chiesa» (LG 20,3).

La prospettiva dell’essere pastore ha una dimensione sacra, comprensiva delle varie funzioni necessarie a guidare tutto il popolo nel percorso di fede.

Nella diffusione del vangelo sono coinvolti tutti i fedeli cristiani che partecipano, anch’essi, all’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo (LG n. 31,1). L’insegnare, il santificare, il governare sono semplici funzioni dell’unica potestà della Chiesa, che possono essere aumentate o anche diminuite a seconda della scelta del principio di suddivisione.

Ciò spiega la funzione partecipativa dei fedeli cristiani nel santificare, insegnare, governare:[3] 
  • nelle azioni liturgiche (cann. 230; 910 § 2; 911 § 2; 943, ecc.)
  • nel ministero della Parola (cann. 759 e 766)
  • nell’assistenza canonica ai matrimoni (can. 1112)
  • nella cura pastorale delle parrocchie (can. 517 § 2)
  • nell’azione missionaria propriamente detta (can. 783)
  • in uffici e incarichi ecclesiastici vari (can. 228 §§ 1-2)
  • nell’amministrazione dei beni ecclesiastici (can. 1282)
  • nella celebrazione del Sinodo diocesano (cann. 460 e 463 § 2)
  • nell’esercizio della potestà di governo (can. 129 § 2)
  • nell’attività giudiziaria dei tribunali ecclesiastici: in qualità di giudici (can. 1421 § 2), come assessori-consulenti (can. 1424), come uditori (can. 1428 § 2), come promotori di giustizia e difensori del vincolo (can. 1435).
Ai fedeli laici è inoltre affidato il compito dell’animazione dell’ordine temporale, con il diritto-dovere di adempiere mansioni secolari (can. 225 § 2), ivi compresa la facoltà di istituire associazioni di fedeli (cann. 298-329), secondo le finalità proprie di associazioni cattoliche (culto, pastorale, carità).

Paura di perdere il potere?

Non esistono, dunque, obiezioni teologiche e giuridiche alla partecipazione più ampia alle funzioni di santificare, insegnare, governare nella Chiesa da parte dei fedeli laici. Addirittura, in alcune parti del mondo, l’applicazione concreta di tali funzioni è già in atto (si pensi alle missioni).

La domanda forte che rimane è: perché questa enorme prudenza nell’immissione dei laici nell’ambito della vita della comunità cristiana? Sono stati fatti molti sforzi per giustificare teologicamente e giuridicamente la prevalenza – impropria – della gerarchia. Spesso la giustificazione apportata è addirittura teologica («così ha voluto Cristo»), manipolando la stessa teologia. Che tale ingerenza/prevaricazione possa essere figlia di potere/gelosia è un sospetto lecito.

Rimane valido l’appello alla conversione di cui si è fatto carico papa Francesco. Il successivo passo rimane la revisione della legislazione, ancora contradditoria perché richiama lo schema della societas perfecta, dottrina a cui si è ispirato il vecchio Codice del 1917, le cui tracce sono ancora presenti nella nuova versione del 1983.

Nel frattempo, il sommo pontefice ha provveduto, in forma di motu proprio e di lettere apostoliche, per alcune modifiche, che debbono essere inserite in una nuova visione giuridica che ricollochi gerarchia e fedeli laici nella visione dell’unico popolo di Dio.

Gli ambiti sono noti: la collocazione della Santa Sede nella gestione universale della Chiesa, le funzioni all’interno delle diocesi e delle parrocchie, passando ad una vera collaborazione e non la semplice consultazione: si farebbe giustizia della comunione ecclesiale, senza scomodare principi teologici, recuperando l’unità del popolo di Dio.

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[1] Molto significativo il passaggio della Regola di san Benedetto sull’Abate: «Perciò l’abate non deve insegnare, né stabilire o ordinare nulla di contrario alle leggi del Signore, anzi il suo comando e il suo insegnamento devono infondere nelle anime dei discepoli il fermento della santità. Si ricordi sempre che nel tremendo giudizio di Dio dovrà rendere conto tanto del suo insegnamento, quanto dell’obbedienza dei discepoli e sappia che il pastore sarà considerato responsabile di tutte le manchevolezze che il padre di famiglia avrà potuto riscontrare nel gregge».
[2] Cf. A.M. Sticlker – J.B. Beyer, Sacra Potestas, Roma, PUG, 1982; Aa.Vv., Potere di ordine e di giurisdizione, Edizioni Paoline, Roma, 1971,
[3] Cf. V. Albanesi, Il sogno di una Chiesa diversa – Un canonista di periferia scrive al Papa, Àncora, Milano 2014, pp. 49-56.
(fonte: SettimanaNews 3 gennaio 2023)