OSCAR ROMERO , UN VESCOVO FATTO POPOLO
Omelia pronunciata da don Tonino Bello nella Basilica dei Santi Apostoli in Roma, il 23 marzo 1987, nel settimo anniversario del martirio di Oscar Romero.
Carissimi fratelli e sorelle,
ci siamo riuniti in questa stupenda basilica dei Dodici Apostoli in Roma per celebrare non l’exploit degli uomini, ma l’exploit di Dio. Ricordare un martire, infatti, significa individuare il punto in cui la Parola si gonfia così tanto, che la sua piena rompe gli argini e straripa in colate di sangue. Che è sempre il sangue di Cristo: quello del martire ne è come il sacramento. Oscar Romero, perciò, è solo lo squarcio della diga. Gli innumerevoli testimoni che hanno dato la vita per Cristo, e che stasera ricordiamo in questa liturgia pasquale, sono solo il varco da cui il Dio dell’alleanza fa sgorgare sulla terra, in cento rigagnoli, i fiotti della sua fedeltà. Al Dio dei martiri, quindi, più che ai martiri di Dio, gloria, onore e benedizione.
Se, però, il sangue dei martiri, è sacramento del sangue di Cristo, ci sarà pur lecito stasera sostare in riverente contemplazione dinanzi a questo sangue. Così come in adorante contemplazione sosteremo tra poco davanti al calice eucaristico del sangue di Cristo provocato anch’esso dalla Parola. Che diviene così densa ed efficace nella celebrazione dei sacramenti, da realizzare quello che annuncia. Ecco allora il tema generatore della nostra riflessione: il martirio di Romero come frutto della Parola. Scomporremo questo tema in tre momenti, sottolineando come la Parola di Dio ha costruito nel santo vescovo salvadoregno la spiritualità dell’esodo, la spiritualità del dito puntato, la spiritualità del servo sofferente.
Spiritualità dell’esodo
Esodo da dove? Dal nascondiglio di una fede rassicurante, intimistica, senza sussulti. Quando ho letto che la conversione spirituale di Romero è avvenuta esattamente dieci anni fa, allorché nel marzo 1977 venne ammazzato, con altri due compagni di fede, padre Rutilio Grande (un prete che aveva scelto di operare per la redenzione di un mondo gravato dalla miseria e dalla sofferenza), mi è venuto subito in mente un libro di von Balthasar: “Cordula, ovverosia il caso serio. Cordula era una giovinetta di cui si parla nella leggenda delle undicimila vergini. Sfuggita alla morte, come vide che le sue compagne erano state tutte uccise per la causa di Cristo, uscì dal nascondiglio in cui si era rintanata per paura, e sì offrì volontariamente alla spada del carnefice. Ebbene, Cordula (autentica o leggendaria la sua figura, non importa) mi sembra l’archetipo di Romero. Il quale, intendiamoci bene, non è che fosse pavido, ma certo era prudente. Era un professore della fede, non un confessore. Era uno di quelli che scorgevano nei documenti di Medellin e di Puebla un attentato all’ortodossia del Vaticano Il. Non simpatizzava certo per la teologia della liberazione. Era così sospettoso nei confronti di quei preti che si facevano carico dei problemi d’ingiustizia e di oppressione vissuti dal popolo, che la sua nomina ad arcivescovo di San Salvador nel febbraio 1977 venne salutata con entusiasmo da tutti i quadri del potere costituito. Un mese dopo, la via di Damasco.
Quando, sotto le raffiche delle armi cadde padre Rutilio, in ultima analisi fu lui a cadere sotto l’urto della Parola di Dio e, come per Paolo, “all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo”. Forse, a determinare il suo passaggio deciso dalla solidarietà col potere all’intransigente op-posizione fu proprio la telefonata del presidente Molina che, ritenendo di fargli cosa gradita, gli annunziò per primo l’avvenuta esecuzione di pa-dre Rutilio. Gli si aprirono allora gli occhi e le orecchie, e intuì tutta la portata delle parole dell’Esodo: “Ho Osservato la miseria del mio popolo… ho udito il suo grido… e sono sceso per liberarlo”. I tre anni di lotta che seguirono, fino alla sua morte, sono legati a queste risonanze bibliche. Basta leggere le sue omelie per rendersi conto come, alla radice del suo cambiamento, ci sia solo la Parola di Dio e non la smania di chi si serve degli oppressi per emergere e trovare consensi. Da quell’istante egli cominciò a vivere non pe-ricolosamente, al punto che la morte se la sarebbe cercata con la sua caparbietà sia pure carica di tensioni morali. Ma fedelmente, scandendo cioè le sue scelte sugli stessi ritmi di Dio, fedele all’alleanza, che ha compassione dei suoi poveri. E’ ora di finirla con le ingenerose speculazioni che fanno di Romero un eroe ma non un martire; che presentano quest’uomo come travolto dall’ideologia ma non afferrato dallo Spirito; e che, delle quattro virtù cardinali, gli accreditano la giustizia ma non la prudenza, gli riconoscono la fortezza ma non la temperanza!
Spiritualità del dito puntato
Ma la Parola di Dio, oltre la spiritualità dell’esodo, ha costruito nel santo vescovo salvadoregno la spiritualità che, raccogliendo lo spunto da un apologo, potremmo chiamare del dito puntato. Fu lo stesso Romero a raccontarlo, nell’omelia del funerale di padre Navarro, un altro prete ucciso nel maggio del 1977: “Si narra che una carovana, guidata da un beduino del deserto, era di-sperata per la sete e andava cercando acqua nei miraggi del deserto. E la guida diceva loro: Non di là, di qua. E così varie volte, finché uno della Carovana, innervositosi, tirò fuori la pistola e sparò alla guida che, ormai agonizzante, tendeva ancora la mano per dire: non di là, ma di qua. E così morì, indicando la strada”. C’è in questo apologo il riverbero di una coscienza profetica che in Romero ha ormai preso corpo e che, di giorno in giorno, diventa sempre più chiara. “Così dice il Signore: grida a squarciagola, non avere riguardo. Come una tromba, alza la voce. Dichiara al mio popolo i suoi delitti, alla casa di Giacobbe i suoi peccati”. Romero percepisce che vi sono potenze antitetiche alla salvezza proposta da Cristo e vi si oppone risolutamente con quegli atteggiamenti tipici che connotano lo stile dei primi martiri cristiani: la parresia, la kàuchesis, la speranza. Parresia è lo stile di chi, in piedi, a faccia alta pur senza protervia, parla apertamente e con piena libertà di linguaggio del suo incontro con Dio, alla cui Parola si sente ormai irrevocabilmente consacrato. Kàuchesis è il vanto che uno mena della croce del Cristo. E’ il gloriarsi di lui, della sua persona, della sua unica signoria, che diventa fondamento delle proprie scelte personali. Speranza è l’atteggiamento di colui che, mentre sì addensano le tribolazioni sulle sue spalle, non lascia spegnere il canto sulla sua bocca. Basterà leggere le omelie di Romero per rendersi conto di come queste tre dimensioni innervarono la sua esistenza teologica. il parlare con coraggio e a viso aperto rivela, alle sue spalle, il “più grande io” a cui si è ormai abbandonato, anche se non mancano i fremiti della paura. “E’ normale che ci tremino le ginocchia – diceva spesso – ma almeno che ci tremino nel posto in cui dobbiamo essere”. E’ parresia anche questa.
Nel maggio del ’79, durante la sua permanenza a Roma, venne proprio in questa chiesa dei Santi Apostoli e, nella cripta dove si venerano le tombe degli apostoli Filippo e Giacomo, chiese a Dio il coraggio di morire, se necessario, come erano morti i testimoni della fede. Un mese prima della sua morte, sul quaderno degli esercizi spirituali, annotò: “Il nunzio di Costa Rica mi ha messo in guardia da un pericolo imminente proprio in questa settimana… Le circostanze impreviste si affronteranno con la grazia di Dio. Gesù Cristo aiutò i martiri e, se ce ne sarà bisogno, lo sentirò molto vicino quando gli affiderò il mio ultimo respiro. Ma, più dell’ultimo istante di vita, conta dargli tutta la vita e vivere per lui… Accetto con fede la mia morte per quanto difficile essa sia. Né voglio darle un’intenzione, come vorrei, per la pace del mio paese e per la crescita della nostra chiesa… Perché il cuore di Cristo saprà darle il destino che vuole. Mi basta, per essere felice e fiducioso, sapere con certezza che in lui è la mia vita e la mia morte; che, nonostante i miei peccati, in lui ho riposto la mia fiducia, e non resterò confuso, e altri proseguiranno con più saggezza e santità il lavoro per la chiesa e per la patria”. Splendido! E’ la Kàuchesis. E’ il “nos autem gloriari oportet in cruce Domini nostri Jesu Christi”! E, infine, la speranza: orizzonte globale di questa spiritualità che abbiamo chiamato “del dito puntato” e che spinge il beduino morente a indi-care ancora, alla carovana smarrita, le piste da percorrere. Forse non c’è nessuna parola così frequente del vocabolario: di Romero come la parola speranza. Anzi, lo sapete, fu l’ultima parola da lui pronunciata quella domenica del 24 marzo 1980 alle ore 18,25, nella chiesa dell’ospedale della Divina Provvidenza mentre celebrava l’offertorio: “In questo calice il vino diventa sangue che è stato il prezzo della salvezza. Possa questo sacrificio darci il coraggio di offrire il nostro sangue per la giu-stizia e la pace del nostro popolo. Questo mo-mento di preghiera ci trovi saldamente uniti nella fede e nella speranza”. Un colpo di fucile lo introdusse nella cena del Signore.
Spiritualità del servo sofferente
A ispirare le scelte di Romero non furono certo la lettura dei testi marxiani e neppure le trascrizioni in chiave ideologica di qualche esponente deteriore della teologia della liberazione, e nep-pure l’ambigua suggestione di riconquistare nuovi spazi sociali da parte della chiesa, riscoprendo i bisogni dei poveri e utilizzando a scopo strumentale le sofferenze degli oppressi. Furono invece le assidue meditazioni sui carmi del servo sofferente di Jahweh. Quanto dolore e quanta tenerezza, quanta passione e quanto coraggio, quanta rabbia e quanta preghiera, quanta denuncia e quanta pazienza vibrano nelle parole di questo “vescovo fatto popolo”! “Abbiamo incontrato i contadini senza terra e senza lavoro stabile, senz’acqua, senza luce e senza scuole. Abbiamo incontrato gli operai privi di diritti sindacali, licenziati dalle fabbriche quando reclamano e completamente alla mercé dei freddi calcoli dell’economia. Abbiamo trovato gli abitanti dei tuguri, la cui miseria supera ogni immaginazione, con l’insulto permanente dei palazzi vicini. In questo mondo disumano, la chiesa della mia arcidiocesi, sacramento attuale del servo sofferente di Jahweh, ha cercato di incarnarsi”.
Si staglia così nella visione pastorale di Romero, con tutta la limpidezza dei contorni biblici e con tutta la cogenza di un impegno di “compagnia” e di “consolazione”, la categoria dei poveri, che diventano il principio architettonico di ogni rinnovamento sociale. “Il mondo dei poveri è la chiave per comprendere la fede cristiana… I poveri sono quelli che ci dicono cos’è la “polis”, la città, e che cosa significa per la Chiesa vivere realmente nel mondo… Tutto questo non solo non ci allontana dalla nostra fede, ma ci rimanda al mondo dei poveri come al nostro vero posto!…” Bisognerebbe leggere tutto intero il discorso pronunciato da Romero all’università di Lovanio, prima che venisse insignito della laurea honoris causa, per capire quanto sapore di vangelo c’è sempre nelle parole di questo santo vescovo salvadoregno: “La speranza che predichiamo ai poveri, la predichiamo per restituire loro dignità e per incoraggiarli a essere essi stessi autori del proprio destino. In una parola, la Chiesa non solo si è messa dalla parte del povero, ma fa di lui il destinatario delta sua missione, perché, come dice Puebla Dio prende le loro difese e li ama… Le maggioranze povere del nostro paese sono oppresse e represse quotidianamente dalle strutture economiche e po-litiche. Da noi continuano a essere vere le terribili parole dei profeti d’Israele. Esistono tra noi quelli che vendono il giusto per un denaro e il povero per un paio di sandali; quelli che accumulano violenza e saccheggio nei loro Palazzi; quelli che schiacciano i poveri; quelli che accumulano casa su casa e aggiungono campo a campo fino a occupare tutto il terreno… Questi testi dei profeti Amos e Isaia non sono voci lontane di molti secoli fa… Sono realtà quotidiane, la cui intensa crudeltà viviamo giorno per giorno. Le viviamo quando vengono da noi madri e spose di prigionieri e di scomparsi, quando appaiono cadaveri sfigurati in cimiteri clandestini, quando sono uccisi coloro che lottano per la giustizia e per la pace!… Noi crediamo con l’apostolo Giovanni che Gesù è la parola di vita e che, dove c’è la vita, ci si manifesta Dio. Dove il povero comincia a vivere, dove il povero comincia a liberarsi, dove gli uomini sono capaci di sedersi intorno a una tavola comune per condividere ciò che hanno, là è presente il Dio della vita”.
C’è in queste parole non solo la consapevolezza che il vangelo non è una metodica di emancipazione, ma anche il convincimento che la povertà e la sofferenza non sono soltanto un oggetto da eliminare, bensì una realtà di cui farsi carico come il servo sofferente di Jahweh. Ecco le coordinate che hanno strutturato il martirio di Oscar Arnulfo Romero, alla cui origine, come a tutte te origini sacramentali, c’è la Parola. E ora permettete che davanti al segno sacramentale del sangue di questo martire esprima una preghiera che dia significato al silenzio ado-rante che riserveremo tra poco al segno sacramentale del sangue di Cristo.
Noi t’invochiamo
Noi t’invochiamo, vescovo dei poveri, intrepido assertore della giustizia, martire della pace: ottienici dal Signore il dono di mettere la sua Parola al primo posto e aiutaci a intuirne la radicalità e a sostenerne la potenza, anche quando essa ci trascende. Liberaci dalla tentazione di decurtarla per paura dei potenti, di addomesticarla per riguardo di chi comanda, di svilirla per timore che ci coinvolga. Non permettere che sulle nostre labbra la Parola di Dio si inquini con i detriti delle ideologie. Ma dacci una mano perché possiamo coraggiosamente incarnarla nella cronaca, nella piccola cronaca personale e comunitaria, e produca così storia di salvezza. Aiutaci a comprendere che i poveri sono il luogo teologico dove Dio si manifesta e il roveto ardente e inconsumabile da cui egli ci parla. Prega, vescovo Romero, perché la Chiesa di Cristo, per amore loro, non taccia. Implora lo Spirito perché le rovesci addosso tanta parresia da farle deporre, finalmente, le sottigliezze del linguaggio misurato e farle dire a viso aperto che la corsa alle armi è immorale, che la produzione e il commercio degli strumenti di morte sono un crimine, che gli scudi spaziali sono oltraggio alla miseria dei popoli sterminati dalla fame, che la crescente militarizzazione del territorio è il distorcimento più barbaro della voca-zione naturale dell’ambiente. Prega, vescovo Romero, perché Pietro che ti ha voluto bene e che due mesi prima della tua morte ti ha incoraggiato ad andare avanti, passi per tutti i luoghi della terra pellegrino di pace e continui audacemente a confermare i fratelli nella fede, nella speranza, nella carità e nella difesa dei diritti umani là dove essi vengono calpestati. Prega, vescovo Romero, perché tutti i vescovi della terra si facciano banditori della giustizia e operatori di pace, e assumano la nonviolenza come criterio ermeneutico del loro impegno pastorale, ben sapendo che la sicurezza carnale e la prudenza dello spirito non sono grandezze commensurabili tra loro. Prega, vescovo Romero, per tutti i popoli del terzo e del quarto mondo oppressi dal debito. Facilita, con la tua implorazione presso Dio, la remissione di questi disumani fardelli di schiavitù. Intenerisci il cuore dei faraoni. Accelera i tempi in cui un nuovo ordine economico internazionale liberi il mondo da tutti gli aspiranti al ruolo di Dio. E infine, vescovo Romero, prega per noi qui presenti, perché il Signore ci dia il privilegio di farci prossimo, come te, per tutti coloro che faticano a vivere. E se la sofferenza per il Regno ci lacererà le carni, fa’ che le stigmate, lasciate dai chiodi nelle nostre mani crocifisse, siano feritoie attraverso le quali possiamo scorgere fin d’ora cieli nuovi e terre nuove.