L'aiuto come reato
Un'Europa immobile davanti a un mondo che spera in lei
di Camillo Ripamonti,
Sacerdote, presidente Centro Astalli – Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati in Italia
Lettera inviata al giornale
"Avvenire"
e pubblicata
il 21 marzo 2018
Sono giorni in cui il calendario ci ricorda che la Siria è sopraffatta da una guerra che dura da 7 anni. Ce lo ricorda un’immagine che fa il giro del mondo: un bimbo nella valigia portata da un padre
Caro direttore, sono giorni in cui l’Unione Europea rinnova per 3 miliardi di euro l’accordo con la Turchia e costringe così decine di migliaia di profughi in fuga dalla Siria a rimanere in un limbo senza diritti e prospettive. Rifugiati costretti a non poter ricominciare una vita, non possono fare altro che aspettare. In Turchia non si muore sotto le bombe, ma si rimane imprigionati in un tempo di attesa, un tempo ingiusto, senza lavoro, senza casa, senza cure mediche, senza scuola per i bambini, senza futuro. Ennesima dimostrazione che assenza di guerra non è pace. Sono giorni in cui almeno 15 migranti tra cui 4 bambini muoiono nell’Egeo nel tentativo di arrivare in Grecia. Si muore ogni giorno nel gesto disperato di salire su una barca, pagare un trafficante, sfidare il mare pur di raggiungere un’Europa mai come ora cieca, divisa e spaventata: sempre più miraggio di diritti e possibilità. La Commissione europea fa sapere che l’Agenda europea sulle migrazioni viene realizzata a passo sostenuto e prova della sua efficacia sarebbe data dalla drastica riduzione degli arrivi dei migranti nel Mediterraneo. Rimane il dubbio che i morti in mare vadano considerati trascurabili effetti collaterali.
I migranti detenuti in Libia, sottoposti a torture e privazioni, come testimoniano i pochi fortunati che arrivano vivi in Europa e il terribile Rapporto pubblicato in queste ore dal Segretario generale delle Nazioni Unite, sarebbero da intendere come accettabili dazi da pagare pur di riuscire a gestire l’emergenza. Sono giorni in cui aiutare chi è in difficoltà è reato. È reato aiutare una donna a partorire mentre cammina tra le montagne per superare confini e orrore e mettere in salvo chi nascerà. È reato salvare migranti in mare mentre pare lecito non rispondere alla richiesta di approdo per uomini e donne stremati e sfruttati da trafficanti che continuano senza troppa fatica a detenere il monopolio del Mediterraneo, senza curarsi delle affannose manovre europee per bloccare le partenze. Sono giorni in cui 218 migranti, tra cui donne e bambini, in balìa delle onde nel Mediterraneo, soccorse e tratte in salvo da una Ong spagnola, sono divenute in mare oggetto di disputa con una motovedetta libica che minacciava di aprire il fuoco se non le fossero state riconsegnate le persone soccorse.
La Libia non può essere considerata in alcun modo un Paese sicuro. È concreto il rischio che le persone, sistematicamente soggette a detenzione, subiscano trattamenti inumani e degradanti.
Sono giorni in cui il calendario ci ricorda che la Siria è sopraffatta da una guerra che dura da 7 anni.
Sono giorni in cui il calendario ci ricorda che la Siria è sopraffatta da una guerra che dura da 7 anni.
Ce lo ricorda un’immagine che fa il giro del mondo: un bimbo nella valigia portata da un padre in fuga. Icona di una guerra di marzo, di una paternità ferita, oltraggiata, di una popolazione stremata, uccisa e dimenticata da una comunità internazionale che si commuove ma non si muove, e rimane indifferente davanti a un orizzonte troppo vicino per ignorarlo.
Un’Europa ferma, oltraggiosamente immobile davanti a un mondo che la guarda con speranza e desiderio.
Il mondo ci guarda e ci riguarda, non può che essere così.
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