DON TONINO BELLO E LA TEOLOGIA DI COMUNIONE
Chiesa tra “Segni del potere e potere dei segni”
di Nunzio Galantino,
Segretario CEI
(Testo e video)
Settimana Teologica Diocesana
organizzata dalla
Diocesi di Molfetta – Ruvo – Giovinazzo – Terlizzi
"Don Tonino Bello,
Vescovo che profuma di Chiesa"
(mercoledì 28 febbraio 2018 - Parrocchia Madonna della Pace in Molfetta).
«Guardando questa cupola siamo attratti verso l’alto […]. Un angelo gli porta la spada, ma Gesù non assume i simboli del giudizio, anzi solleva la mano destra mostrando i segni della passione […]» (Papa Francesco, Discorso ai delegati al V Convegno ecclesiale nazionale, Firenze 10 Novembre 2015)
Il titolo affidatomi (“Chiesa tra segni del potere e potere dei segni”) è stato collocato, nel programma di questa Settimana teologica, all’interno di un più ampio riferimento: la “Teologia di comunione”. Suppongo che tale collocazione trovi giustificazione nella condivisibile convinzione che l’abbandono – vera e propria conversione – dei segni del potere è un importante passo verso un’ autentica esperienza di comunione. Non solo nella Chiesa. Ed è in questa cornice che va collocato questo mio contributo.
1. Il potere dei segni: “venne tra i suoi e i suoi non lo hanno accolto”
... Il primo deleterio effetto di un Vangelo passato attraverso i filtri della retorica facile, delle frasi fatte e del politicamente corretto (il primo deleterio effetto) è l’incolmabile distanza che si pone tra parole e fatti, tra dichiarazioni e decisioni, tra vita e proclami di vita, tra parole di Vangelo e mentalità evangelica. Don Tonino tutto questo lo aveva capito. E la sua azione pastorale mi è sempre parsa orientata a sanare queste fratture, a ridurre, fino ad eliminarle, queste distanze. Le pagine che ci ha lasciato e i gesti compiuti mi sembrano tutti orientati a questo obiettivo: saldare le parole con i fatti, far diventare il Vangelo mentalità evangelica. Sempre. È ovvio che spendersi per questo porta dritto al martirio della fedeltà quotidiana. Sia quello personale sia il martirio non meno doloroso della fedeltà quotidiana domandato alla comunità. Al martirio delle fedeltà quotidiana va aggiunta la fatica di farsi capire ed accettare. A cominciare da “quelli di casa”. Non devo ricordare io le difficoltà che don Tonino ha incontrato tra quelli di casa. Con le dovute e belle eccezioni, mi pare si possa ripetere e parafrasare, soprattutto in riferimento ad alcuni ambienti, quel «venne tra i suoi e i suoi non lo hanno accolto” (Gv 1,11). Un esempio per tutti. Per il Natale, don Tonino era solito indirizzare una lettera augurale ai politici per invitarli a un incontro in episcopio. Le posizioni interventiste delle forze governative di allora nella Guerra del Golfo si scontrarono con il rifiuto della guerra di Giovanni Paolo II, condiviso in maniera chiara e pubblica da don Tonino. A causa delle posizioni pacifiste di don Tonino, quell’anno i politici non si presentarono all’incontro e disertarono perfino la festa del patrono S. Corrado. Lo sappiamo e non scandalizza il fatto che non tutti amassero le posizioni di don Tonino. Anche all’interno del coetus clericalis, soprattutto quando le sue parole e le sue scelte turbavano la tranquillità e mettevano in discussione l’ingombrante presenza di segni del potere che possono entrare a far parte dell’arredo ma anche della mentalità clericale.
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Una Chiesa che prende sul serio queste sfide, pur riconoscendo che non potrà certo risolvere ogni tipo di problematica, accetta però di farsi “ala di riserva” e compagna di cammino dell’umanità. Non giudice di essa. Solo quando faremo così potremo pregare in verità, con don Tonino: «Non farmi più passare indifferente [,Signore,] vicino al fratello che è rimasto con l’ala, l’unica ala, inesorabilmente impigliata nella rete della miseria e della solitudine e si è ormai persuaso di non essere più degno di volare con Te». Certo, una Chiesa che accetta di abbracciare il fratello, qualsiasi fratello, e aiutarlo a volare (per conservare la fortunata immagine di don Tonino) rischierà di commettere sbagli e di scegliere soluzioni sbagliate, oppure di parlare con un linguaggio esigente per la sensibilità prevalente. Sarà Chiesa a tratti scomoda, che rifiuta la logica del potere, di qualunque potere si tratti, per abbracciare la logica del servizio.
Facendo eco a un’espressione della Gaudium et spes, disse un giorno don Tonino con
sintesi fulminante: «La Chiesa è per il mondo, non per se stessa». Sulla stessa
lunghezza d’onda, papa Francesco ha più volte affermato: «Quando la chiesa diventa
chiusa, si ammala… Una chiesa chiusa è ammalata, la chiesa deve uscire verso le
periferie esistenziali, qualsiasi esse siano. Preferisco mille volte una Chiesa incidentata,
piuttosto che chiusa e malata»
L’importante è, quindi e in ogni caso, continuare a cercare, a impegnarsi, a uscire. Ciò
che ferma il Signore non è il nostro limite umano e i nostri tradimenti, che egli già mette
in conto, ma la chiusura in noi stessi. Se invece noi con cuore pieno e determinato
facciamo della missione il nostro obiettivo, in ogni momento della vita, allora il modo
più efficace per annunciare emergerà, e il Signore non mancherà di agire attraverso di
noi. È meglio una Chiesa che osa, e a volte sbaglia, perché ha amato e ha cercato di
salvare a ogni costo qualcuno, che una Chiesa che per comodità, o per timore, o per
abitudine rimane statica e passiva, crogiolandosi pericolosamente, talvolta in maniera
civettuola, con i segni del potere.
L’azione pastorale di una Chiesa che vuole liberarsi dei segni del potere mette al centro
della sua vita la misericordia, che proviene da Dio e che trasforma tutte le nostre
relazioni umane e sociali. È un’azione pastorale che mantiene la Chiesa in uno spirito di
continua conversione, perché porta a rivedere ogni giorno noi stessi, le nostre azioni e le
nostre iniziative, le strutture e i modi di comunicazione, in vista del bene delle persone
concrete, che bisogna a qualsiasi costo raggiungere e sollevare, perché in loro abita il
Signore, che ci attende.
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