La Pasqua politicamente scorretta della Veronica,
avventuriera dell’amore più difficile
di Antonio Sanfrancesco
La scena si svolge a Gerusalemme nella tarda mattinata di un venerdì di primavera. C’è un condannato, il Figlio del carpentiere di Nazareth, che avanza scortato da quattro soldati armati di lance sotto la guida dell’exactor mortis, il centurione romano incaricato dell’esecuzione della condanna a morte. Un corteo vociante e rumoroso si affolla dietro quell’Uomo lungo la strada gerosolimitana che porta ancora oggi il nome di Via Dolorosa. Molti sono solo curiosi – arrivati magari apposta o capitati lì per caso – che non vogliono perdersi lo spettacolo che tra poche ore avrà il suo culmine su uno sperone roccioso della periferia della Città chiamato “Golgota”, in aramaico “cranio”, ribattezzato “Calvario” dai Romani.
Tra questa folla di curiosi, Luca inserisce anche un gruppo di «donne che si battevano il petto e facevano lamenti su Gesù» le quali, loro malgrado, incorrono in un severo richiamo: «Ma Gesù, voltatosi verso di loro, disse “Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli! (…) Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: Beate le sterili e i grembi che non hanno generato e i seni che non hanno allattato! Perché, se si tratta così il legno verde, che avverrà del legno secco?”» (Lc, 23,27). Sono lamentatrici di professione, le prefiche ancora attive nell’Italia meridionale degli anni Cinquanta, che “si battevano il petto e facevano lamenti” in occasione dei riti funebri. Forse erano pie donne che assistevano per dovere d’ufficio i condannati a morte. Ecco che da questo corteo affollato e caotico, a un certo punto, si fa avanti una donna, Veronica, che la tradizione della Via Crucis colloca alla sesta stazione. I Vangeli canonici non ne fanno menzione. Veronica, sulla quale fioriranno innumerevoli leggende, compie un gesto tipicamente e profondamente femminile, un gesto di tenerezza che è immedesimazione con l’amato come solo le donne, certe donne, sanno fare.
Si fa avanti, probabilmente staccandosi dal resto del gruppo al quale forse nemmeno apparteneva, e con il suo velo avvolge il volto di Gesù piagato e sfigurato dal dolore e dalle sevizie. Lo asciuga, desiderando in qualche modo di imprimerlo nella propria carne. Veronica non prova paura o vergogna. O forse, il suo coraggio le supera entrambe e compie quel gesto di misericordia davanti a tutti, quando non era certo politicamente corretto mostrarsi compassionevole nei confronti del condannato. Non fino a quel punto, almeno. Non poteva essere, quello di Veronica, un gesto burocratico perché accanto a Gesù c’erano già tantissime donne a inscenare un compianto di routine. Né buone, né cattive, in fondo, ma solo esecutrici di un compito loro assegnato. Veronica no, vede e dopo aver visto prova compassione. Pochi istanti, un incontro fugace. S’avvicina a quel volto martoriato e asciuga «la comune polvere, la polvere di tutti, la polvere della sua faccia; incollata dal sudore» (Charles Péguy).
Non abbiamo bisogno di sapere se Veronica, storicamente, sia davvero esistita. Sarebbe acribia di quegli esegeti che non siamo.
Veronica esiste nel gesto docile e amorevole che fortunatamente non è mai venuto meno, in ogni epoca e sotto ogni cielo, compiuto da donne straordinariamente coraggiose come lei che vanno dove tutti scappano, che incontrano persone che tutti evitano e vorrebbero evitare con un coraggio che le rende sante senza che loro stesse lo sappiano e lo vogliano. Sono fiere corsare dell’amore più difficile, dell’amore che richiede spirito libero e capacità di immedesimarsi, di farsi avanti tra i risolini di scherno e le beffe di chi dice che certi posti di reietti e disperati sarebbe meglio non frequentarli e non avere nulla a che fare con questi brutti ceffi.
L’amore di Veronica è femminilmente impavido. È un amore che non ha paura del giudizio degli altri e scende in strada, si mescola alla vita più cruda e spietata, è nei lebbrosari africani, è nell’ospizio in Yemen dove le suore di Madre Teresa sono state trucidate dai terroristi mentre assistevano gli anziani, è sui marciapiedi e nei ghetti delle grandi città in cui i padri vendono figlie bambine alla violenza e alla prostituzione, è nelle carceri dove innumerevoli veroniche, ogni giorno, s’interessano ai colpevoli e ai carnefici a costo di rovinarsi la reputazione, s’impantana negli spazi fangosi dei campi rom, è nel campo di Idomeni dove vivono ammassati nella melma i rifugiati che l’Europa non vuole, è nei tavoli delle mense dove ogni giorno vengono sfamati tanti affamati, è negli orfanotrofi dei bimbi soli e abbandonati.
«Il picaresco coraggio di queste donne», ha scritto Claudio Magris, «è pervaso di una forte carnalità, di un senso concreto del vivere che talora manca agli uomini e li rende spesso più codardi; pure sul Golgota e presso il santo sepolcro sono state le donne a seguire Gesù, mentre altri sono scappati».
Nella Veronica, che probabilmente non era della cerchia dei discepoli di quel Predicatore ambulante condannato al supplizio infamante degli schiavi, si rispecchiano tutte quelle donne, ardimentose e impavide, religiose e laiche, che hanno incontrato Cristo nell’uomo e nelle ferite inferte agli uomini. Ogni giorno compiono quel gesto che fu di quella donna anonima lungo la Via Crucis: fare un passo avanti e mettersi faccia a faccia con l’abisso di dolore, assurdità e ingiustizia del mondo.
(fonte: Il Libraio)