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martedì 20 marzo 2018

I POVERI. UNA PRIORITÀ ETICA E POLITICA di Luigi Ciotti

I POVERI. 
UNA PRIORITÀ ETICA E POLITICA 
di Luigi Ciotti








Non è semplice isolare gli aspetti più significativi di questi cinque anni di pontificato di papa Francesco. Anni in cui è venuto alla luce un progetto di rinnovamento che, su un piano di forte concretezza, è al tempo stesso spirituale, dottrinale e, in senso lato, politico. C’è chi ha parlato di “rivoluzione”. Ma la parola si presta a facili equivoci e banalizzazioni di vario genere, meglio dunque parlare di “riconversione”: il senso profondo delle parole, dei segni e dei gesti di Francesco è quello di un ritorno al Vangelo, inteso e soprattutto vissuto in tutta la sua radicalità. E se c’è un tratto saliente, un “perno” di questo ritorno alla parola di Dio nella sua nuda e impegnativa essenza, credo sia l’attenzione e la cura dei poveri.
È un’attenzione che emerge già nella Evangelii gaudium: «Per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica […] Per questo desidero una Chiesa povera e per i poveri […] Essi hanno molto da insegnarci […] siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare a essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche a essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci tramite loro» (198). Il Papa sottolinea che i poveri sono i nostri maestri, che attraverso di loro parla la misteriosa sapienza di Dio. Ma, con altrettanta forza, afferma che l’attenzione della Chiesa nei loro riguardi è una categoria teologica, cioè non un’opzione tra le altre ma la radice, l’essenza, la sostanza stessa della fede cristiana: una Chiesa che non si occupi dei poveri, che non li abbia a cuore e non s’impegni per la loro liberazione, è una Chiesa di nome e non di fatto.
Da ciò deriva una duplice, spinosa, conseguenza. La prima: per parlare credibilmente dei poveri, la Chiesa deve essere essa stessa povera. «Non si può parlare di povertà e vivere come dei faraoni», ha detto il Papa, amareggiato da certe esibizioni di lusso e facendo intendere che la sobrietà, il distacco dal possesso materiale e la preoccupazione di condividere i beni tenendo per sé lo stretto necessario non è una questione di forma o di galateo, ma di sostanza.
La seconda: l’attenzione ai poveri deve procedere di pari passo con la denuncia delle cause politiche ed economiche della povertà, nonché con l’impegno per rimuoverle. Questo è il punto nevralgico, l’aspetto davvero scomodo, “urticante” (come avrebbe detto don Milani) di questo papato, la ragione per cui incontra non poche resistenze fuori ma anche dentro la Chiesa. 
Un papato amato dai poveri, e dai tanti che vi percepiscono un cristianesimo forte nella sua capacità di accogliere, di riconoscere lo specifico di ogni essere umano al di là delle religioni, delle tendenze delle culture. Ma, al tempo stesso, un papato inviso o tollerato dai potenti e da tutti coloro che hanno i mezzi per cambiare le cose ma non lo fanno, lo fanno poco o solo per quel tanto che gli torna comodo.
È a quest’impegno per la giustizia che richiamano gli appelli e le denunce del Papa, il suo ostinato tornare su una serie di questioni. Si pensi a quante volte ci ha invitato a riflettere sulla corruzione in quanto brodo di coltura delle mafie, «processo di morte che alimenta la cultura della morte».
 O a quante volte è tornato sul tema del lavoro come espressione di libertà e di dignità umana; oggi squalificato, privato di tutele e adeguati salari, reso strumento anonimo, impersonale di un’economia del profitto e, non di rado, di rapina.
Si pensi alla sua attenzione per le periferie urbane ed esistenziali, luoghi di bisogni dimenticati e di speranze negate. E alla veemenza con cui ha difeso diritti delle minoranze oppresse e dei popoli sfruttati. O, ancora, alla puntualità con cui ci ha ricordato che la grande sfida del nostro tempo, la partita su cui si decidono le sorti dell’Occidente, è rappresentata dai migranti, sfida che il Papa sente molto «perché sono pastore», ha detto, «di una Chiesa senza frontiere che si sente madre di tutti». Il peccato principale, allora, è l’indifferenza, che è corruzione delle coscienze. E per smuoverle è stata scritta l’enciclica Laudato si’, per un rinnovamento fondato sulla tutela della madre Terra e del bene comune, nella consapevolezza che non c’è forma di vita che non sia legata alle altre, in una reciprocità che chiede rispetto, riconoscimento, giustizia e amore. 
«Una fede autentica implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo».
Sono parole che scavano nella coscienza del cristiano, richiamandolo alla responsabilità di saldare il cielo e la terra, di essere cristiano ma anche cittadino, di vivere il Vangelo senza dimenticare la Costituzione, che parlando di «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» non fa che tradurre in modo laico l’etica evangelica. Senza quest’assunzione di responsabilità, la fede rischia di trasformarsi in salvacondotto, scelta intimistica che stride con la passione di Gesù, con la sua fame e sete di giustizia.
È ancora tempo di speranza e, dunque, d’impegno. Il Papa ci chiede sovente di pregare per lui, e bisogna farlo con slancio e sincerità, ma senza dimenticare di fare prima e dopo la nostra parte. Il risveglio delle coscienze a cui ci richiama si chiama responsabilità. E la prima forma di preghiera è il mettersi in gioco tutti per costruire un po’ più di giustizia in questo mondo.
(Pubblicato su "Vita Pastorale" . marzo 2018)