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giovedì 21 novembre 2024

“Gli adulti non ci capiscono”. Lo pensa quasi il 60% degli adolescenti

“Gli adulti non ci capiscono”.
Lo pensa quasi il 60% degli adolescenti

Indagine demoscopica promossa da Con i bambini e condotta dall’Istituto Demopolis in occasione della Giornata mondiale infanzia. Secondo i ragazzi, solo un quarto dei genitori è informato sul loro eventuale consumo di alcol fuori casa


Gli adulti continuano a non capire i ragazzi. È la sintesi dell’indagine demoscopica “Adolescenti in Italia: che cosa pensano gli under 18 e cosa dicono gli adulti”, promossa da Con i bambini e condotta dall’Istituto Demopolis. Lo scorso anno il 54% dei ragazzi riteneva che gli adulti non comprendono i giovani, quest’anno la percentuale è cresciuta: ne è convinto infatti il 58% degli adolescenti tra i 14 e i 17 anni. Una tendenza che emerge anche dagli altri temi indagati dallo studio: scuola, violenza, dipendenza da internet, rapporti personali e che viene confermata anche dai riscontri emersi nel percorso di “Non Sono Emergenza”, campagna di sensibilizzazione sul tema del disagio degli adolescenti promossa da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. L’obiettivo della campagna è favorire una conoscenza più approfondita sul fenomeno ascoltando direttamente i ragazzi e contestualmente promuovendo il loro protagonismo. Ed è proprio l’ascolto degli adolescenti che ha caratterizzato anche l’indagine demoscopica e la sua divulgazione. Lo studio è stato presentato oggi a Roma presso la Biblioteca nazionale centrale nell’incontro finale dell’iniziativa “Con i bambini cresce l’Italia”, condotto da un gruppo di ragazzi e ragazze tra i 16 e i 18 anni di età, davanti a una platea di coetanei delle scuole e di componenti della “comunità educante”: educatori, docenti, operatori, amministratori locali, rappresentanti delle fondazioni e del terzo settore, di istituzioni pubbliche e private, dei media e della società civile. L’iniziativa è stata promossa dal Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile e organizzata da Con i Bambini per celebrare il 20 novembre, Giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.

L’indagine “a specchio” promossa da Con i Bambini e condotta da Demopolis, mettendo a confronto adolescenti con adulti e genitori, fa emergere un’Italia a due velocità. Il rapporto intergenerazionale è complicato da sempre, ma nell’ascolto di genitori ed adolescenti di oggi si scopre qualcosa di diverso rispetto ai divari che caratterizzavano le passate generazioni. Sono tanti gli aspetti non compresi dagli adulti secondo i ragazzi. In particolare, non capiscono che vivono in un periodo diverso dal loro (49%), non capiscono quello che pensano e le loro idee (46%), le loro priorità (43%), il rapporto con la rete (41%). Di certo, la variabile “Internet e Social” è misteriosa per i non “nativi digitali” e dilata le distanze di pensiero fra le generazioni: per l’84% dei genitori, quella da “web, smartphone e tablet” è una pericolosa dipendenza. Di segno contrario il giudizio degli adolescenti: solo il 22% dei ragazzi ravvede un rischio. La maggioranza assoluta dei genitori sostiene di sapere che cosa facciano i figli online, ma vengono smentiti dal 70% degli adolescenti, secondo i quali – inoltre – appena un quarto dei genitori è informato sul loro eventuale consumo di alcol fuori casa. Tre adolescenti su 10 trascorrono online più di 10 ore al giorno (mentre secondo i genitori il tempo trascorso on line sarebbe meno della metà, quasi il 40% dichiara fra 5 e 10 ore) ma il 62% degli adolescenti prediligerebbe le relazioni in presenza nei rapporti con i coetanei. A patto, però, di poterle praticare. Infatti, oggi l’eventualità che i 14-17enni facciano attività extrascolastiche, che sono anche il motore fondamentale delle relazioni con i pari, non è scontata e risulta talora residuale: 4 su 10 non praticano affatto attività fisiche o sportive; addirittura meno di un quinto svolge attività musicali (19%), artistiche o teatrali (16%).
(fonte: Gestore Sociale 20/11/2024)


mercoledì 20 novembre 2024

Le parole provocatorie del messaggio di Valditara alla presentazione alla Camera della Fondazione Giulia Cecchettin

Le parole provocatorie del messaggio di Valditara alla presentazione alla Camera della Fondazione Giulia Cecchettin
In sintesi per il ministro il patriacato non c'è più 
e la vera causa dell'aumento dei femminicidi è l'immigrazione illegale...


Fanno molto discutere le parole del ministro Valditara, pronunciate in occasione dell’inaugurazione della Fondazione Giulia Cecchettin. Attraverso un videomessaggio, il capo del dicastero ha spiegato che il patriarcato «come fenomeno giuridico, è finito con la riforma del diritto di famiglia del 1975, che ha sostituito alla famiglia fondata sulla gerarchia la famiglia fondata sulla eguaglianza» ed ha anche aggiunto che «occorre non far finta di non vedere che l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale».

La replica di Gino Cecchettin (padre di Giulia) ...

In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera: “Vorrei dire al ministro che chi ha portato via mia figlia è italiano. La violenza è violenza, indipendentemente da dove essa arrivi. Non ne farei un tema di colore, ma di azione. Di concetto”.
Gino Cecchettin non ha potuto fare a meno di commentare anche le parole di Valditara, secondo cui il patriarcato sarebbe finito: “Ma lui l’ha descritto benissimo. Non è che se neghi una cosa questa non esiste. Il ministro ha parlato di soprusi, di violenze, di prevaricazione. È esattamente quello il patriarcato ed è tutto ciò che viene descritto nei manuali. Mi sembra solo una questione di nomenclatura. È la parola, oggi, che mette paura: “patriarcato” spaventa più di “guerra””.

e di Elena Cecchettin (sorella di Giulia)

Sull’argomento è intervenuta sui social anche la sorella di Giulia, Elena: “Dico solo che forse, se invece di fare propaganda alla presentazione della fondazione che porta il nome di una ragazza uccisa da un ragazzo bianco, italiano e ‘per bene’, si ascoltasse non continuerebbero a morire centinaia di donne nel nostro Paese ogni anno”. E ancora: “Mio padre ha raccolto i pezzi di due anni di dolore e ha messo insieme una cosa enorme. Per aiutare le famiglie, le donne a prevenire la violenza di genere e ad aiutare chi è già in situazioni di abuso. Oltre al depliant proposto (che già qua non commentiamo) cos’ha fatto in quest’anno il governo? Perché devono essere sempre le famiglie delle vittime a raccogliere le forze e a creare qualcosa di buono per il futuro?”

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Valditara, la predica sul patriarcato e la lezione di Gino Cecchettin

Le sue parole rivelano quanto sia radicato in quella cultura che ha cercato di ridimensionare


Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara evidentemente non lo sa, ma le sue parole rivelano quanto, forse a sua insaputa, sia profondamente radicato in quella cultura del patriarcato che ha cercato di ridimensionare, riducendola a una banale questione ideologica. Le sue dichiarazioni stupiscono non solo per i toni polemici, ma anche e soprattutto per il contesto in cui sono state pronunciate, ovvero la presentazione della Fondazione intitolata a Giulia Cecchettin, vittima della violenza di un uomo, il suo ex fidanzato Filippo Turetta, che l’ha massacrata perché odiava vederla libera. Oggetto e non soggetto. La precisazione che Valditara ha diffuso dopo essere stato travolto dalle polemiche, aggiustando il tiro, non migliora affatto la sua posizione. Il patriarcato, inteso come fattispecie giuridica, ha spiegato, non esiste più da 1975, mentre continua a esistere “il maschilismo contro cui bisogna lottare, mettendo al centro il valore di ogni persona”.

Il ministro dunque sovrappone questione giuridica e questione culturale, evidentemente ignorando che non basta una legge, per quanto giusta, a smantellare un sistema di dis-valori che ha rappresentato per secoli l’ecosistema in cui il patriarcato ha imposto la prevalenza del maschile sul femminile utilizzando le leve della forza e del potere. Poiché il ministro, sentendosi nel mirino, ha replicato senza ammettere errori e ha parlato di “strumentalizzazione”, ecco come lo spiega con parole semplici la sua collega di governo Eugenia Roccella che, per fortuna di tutti, ha idee diverse dalle sue: “C'è qualcosa di radicato che non riusciamo a combattere. Le leggi sono uno strumento essenziale ma non sono sufficienti a difendere le donne, è necessario intervenire su diversi fronti, e per questo serve un confronto serio, che parte da idee condivise”. Ecco, le idee condivise a quanto pare sono quello che manca. O forse un comune sentire.

E’ sembrato invece che al ministro servisse piuttosto un pulpito dal quale fare la predica a tutte le donne, e a una in particolare, a Elena Cecchettin, sorella di Giulia, che per prima dopo la morte della sorella aveva chiesto di unirsi nella lotta contro la cultura patriarcale che permea ancora la nostra società. Dunque il ministro, invitato in quanto temporaneamente incaricato dell’Istruzione di questo Paese, e per questo titolare di una grande responsabilità nella creazione di una cultura più aperta e inclusiva, ha ritenuto di fare la ramanzina alla famiglia della vittima. Aggiungendo a questo, nel suo discorso, un passaggio che alimenta ulteriore incredulità: “Occorre non far finta di non vedere che l'incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale" ha detto ricorrendo a quell’apparato ideologico (tipico del partito a cui appartiene, la Lega) che poco prima aveva contestato. Una frase non solo del tutto estranea al contesto in cui è stata pronunciata, dal momento che a togliere la vita a Giulia è stato un giovane italiano, ma anche smentita dai dati, che certificano come gli autori di violenza sessuale nel nostro Paese siano italiani nell’80 per cento dei casi.

A quale scopo dunque il ministro ha deciso di utilizzare la nascita della Fondazione Cecchettin per diffondere messaggi che appaiono incoerenti e ingiustificati? Poiché Valditara, come appare evidente, ha deciso di insistere con le sue argomentazioni, non resta che affidarsi alle parole di Gino Cecchettin, padre di Giulia, che ha fortemente voluto la nascita della Fondazione intitolata a sua figlia per contrastare la violenza di genere: “Le parole del ministro Valditara? Diciamo che ci sono dei valori condivisi e altri sui quali dovremo confrontarci”. Ascoltare, ministro, potrebbe essere un buon punto di partenza. A partire da chi ha perso, in questa battaglia per niente ideologica, le persone che amava di più.
(fonte: La Stampa, articolo di Maria Rosa Tomasello 18/11/2024)

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Valditara alla fondazione Cecchettin: 
«Più migranti, più femminicidi». 
La replica: «Giulia uccisa da un italiano»

Valditara alla presentazione alla Camera dFondazione Cecchettin dà la colpa dei femminicidi all'immigrazione



Per il ministro dell’Istruzione la lotta contro il patriarcato è «frutto di una visione ideologica». Le opposizioni. «Parole inaccettabili». Elena Cecchettin: «Giulia uccisa da un bianco per bene»

«Deve essere chiara a ogni nuovo venuto, a tutti coloro che vogliono vivere con noi, la portata della nostra Costituzione, che non ammette discriminazioni fondate sul sesso. Occorre non far finta di non vedere che l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale».

A dirlo il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara durante la presentazione alla Camera dei deputati della fondazione Giulia Cecchettin, la studentessa uccisa dall’ex partner Filippo Turetta l’11 novembre 2023, un ente che si dedicherà ad aiutare le famiglie, le donne a prevenire la violenza di genere e ad aiutare chi è già in situazioni di abuso.

Per Valditara, il femminicidio «oggi sembra più il frutto di una grave immaturità narcisista del maschio che non sa sopportare in no», mentre «una volta era frutto di una concezione proprietaria della donna». Il ministro ha definito la lotta contro il patriarcato una «visione ideologica», sostenendo che «i percorsi ideologici non mirano mai a risolvere i problemi, ma a affermare una personale visione del mondo».

Frasi con doppie negazioni un po’ contorte, il cui senso però è chiaro ed evidenzia una narrazione comune alla destra di governo, e non solo, che mira a spostare il problema a un mondo esterno, a qualcosa di lontano ed estraneo alla società e cultura in cui viviamo.

Alle parole di Valditara aveva però già risposto un anno fa, in una lettera al Corriere della Sera, Elena Cecchettin, la sorella di Giulia: «Il femminicidio è un omicidio di Stato. Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere», riconoscendo la natura strutturale della violenza maschile sulle donne perché il femminicida non è «una persona esterna alla società». Ma quelli che vengono definiti “mostri” «non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro».

La sua lettera ha rappresentato una svolta importante per la narrazione dei femminicidi e della violenza di genere. Ma alle istituzioni non è bastato. È quindi tornata a rispondere il 18 novembre sul suo profilo Instagram: «Se invece di fare propaganda alla presentazione della fondazione che porta il nome di una ragazza uccisa da un ragazzo bianco, italiano e “per bene”, si ascoltasse, non continuerebbero a morire centinaia di donne nel nostro paese ogni anno».

Radicato e trasversale

La violenza maschile contro le donne, il cui apice è appunto il femminicidio, è – come afferma Elena Cecchettin – un fenomeno culturale, radicato e trasversale, che non dipende dalla classe sociale o dalla provenienza di una persona. E nella maggior parte dei casi «l’assassino ha le chiavi di casa», gridano i movimenti femministi in piazza. Lo dicono i dati e lo raccontano le storie delle «120 donne» che sono state uccise «soltanto in Italia» da «quando è mancata Giulia. Migliaia e migliaia nel mondo», di fronte alle quali – ha detto Gino Cecchettin – «non possiamo permetterci di essere indifferenti o voltare lo sguardo altrove».

Da un recente rapporto di Action Aid e dell’Osservatorio di Pavia, “Oltre le parole”, emerge che più di un messaggio su dieci di esponenti di governo, parlamento o enti locali «è fuorviante»: ne è un esempio un post Facebook di Matteo Salvini «che esternalizza la violenza contro le donne», contrapponendo «la cultura occidentale, e le sue radici giudaico-cristiane, alla cultura islamica».

Così come i post dei politici, anche i giornali hanno per lungo tempo sovrarappresentato il femminicidio compiuto da un uomo di origine straniera, aveva raccontato a Domani Elisa Giomi, commissaria dell’Agcom, poi «nel tempo la copertura si è riallineata al dato fattuale».

«Parole inaccettabili»

Quelle di Valditara sono «parole inaccettabili», dicono le opposizioni. «Si tratta solo di razzismo e si chiama propaganda», afferma Chiara Braga, capogruppo del Partito democratico alla Camera, mentre Riccardo Magi di Più Europa parla di «una spudorata strumentalizzazione razzista» del ministro. Frasi «incredibili e gravissime», per la senatrice Pd Sandra Zampa.

«Accusare i migranti irregolari in relazione allo spaventoso numero di femminicidi in Italia copre di vergogna un esponente delle istituzioni smentito tra l’altro nelle sue insultanti parole dai dati raccolti dalla Commissione parlamentare femminicidi», ha aggiunto Zampa. Ciò che spiace, dicono in molti, è l’occasione importante come la presentazione della Fondazione Cecchettin, usata – conclude Braga – «per fare propaganda su queste e altre improbabili teorie».

La fondazione è stata creata da Gino Cecchettin, raccogliendo «i pezzi di due anni di dolore» e riuscendo a mettere insieme «una cosa enorme», racconta la figlia Elena su Instagram. «Cos’ha fatto invece il governo?», chiede la ragazza, «Perché devono essere sempre le famiglie delle vittime a raccogliere le forze e creare qualcosa di buono?».

La violenza di genere è frutto di un «fallimento collettivo» ha ricordato il padre, «non è solo una questione privata. Dobbiamo educare le nuove generazioni». Ma dell’educazione sessuo-affettiva strutturale nelle scuole e del progetto di Valditara “Educare alle relazioni”, dopo un anno, non c’è traccia.
(fonte: Domani, articolo di Marika Ikonomu 18/11/2024)

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20 Novembre Giornata Mondiale dell'Infanzia e dell'adolescenza - “Ascolta il Futuro”


20 Novembre 
Giornata Mondiale dell'Infanzia e dell'adolescenza
 “Ascolta il Futuro”


Il 20 novembre di ogni anno l'UNICEF celebra il World Children's Day, una giornata di azione globale, fatta dai bambini per i bambini, per diffondere consapevolezza sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza. Questa data non è casuale: il 20 novembre 1989, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, il trattato sui diritti umani più ratificato al mondo, con ben 196 Paesi firmatari.

Quest’anno, il messaggio dell’UNICEF è chiaro: “Ascolta il Futuro”. Chiediamo ai Governi, al settore privato, alle famiglie e a tutti gli adulti di ascoltare la voce dei bambini e delle bambine, delle ragazze e dei ragazzi di tutto il mondo. Solo sostenendo un dialogo significativo tra generazioni possiamo, infatti, realizzare i diritti di tutti i bambini, ovunque.

Cari adulti...

Per ascoltare meglio le loro voci, abbiamo chiesto ai bambini di tutto il mondo di scrivere una lettera agli adulti per riflettere sui loro diritti, condividere i loro obiettivi e cosa sognano per il futuro.

Attraverso paesi e lingue diverse, le richieste dei bambini sono sempre le stesse: vivere in pace, in un ambiente sano e protetto, circondati dall'amore della famiglia e degli amici.

Non possiamo deluderli.

 

I diritti dei bambini sono a un bivio

I rapidi cambiamenti globali stanno mettendo in discussione le basi stesse dell’infanzia del futuro. Conflitti e gravi violazioni dei diritti minano uno dei principi fondamentali dell’umanità: il diritto alla cura e alla protezione dei bambini.

L’ultimo rapporto dell’UNICEF, “The State of the World’s Children 2024: The future of childhood in a changing world”, lancia un appello ai governi: agire ora per salvaguardare i diritti dei bambini e degli adolescenti.

È necessario implementare soluzioni per mitigare e adattarsi ai cambiamenti climatici, pianificare i cambiamenti demografici e garantire una buona governance nell’uso delle tecnologie di ultima generazione.

Le iniziative in Italia

Per tutta la settimana, rappresentanti dell’UNICEF e volontari dei comitati locali saranno coinvolti in numerose iniziative dedicate all’anniversario della Convenzione sui diritti dell’infanzia, con incontri nelle scuole, laboratori, convegni, mostre, letture animate, proiezioni di film, attività ludiche e sportive in diverse città.

Il 20 novembre a Roma, presso il Teatro Rossini, si terrà un evento celebrativo interamente dedicato ai ragazzi, ponendo al centro dell’attenzione il tema della violenza sulle donne, organizzato dal Dipartimento per le Politiche della famiglia della Presidenza del Consiglio dei ministri, congiuntamente alla Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza e con la collaborazione dell’UNICEF Italia.

Il 19 novembre, a Milano, l'UNICEF ha aderito al progetto sociale di comunicazione Parole O_Stili, firmando il Manifesto della Comunicazione non Ostile alla presenza della Presidente dell’UNICEF Italia, Carmela Pace e la Presidente e founder dell’associazione Parole O Stili, Rosy Russo.

Il 20 novembre a Milano i bambini e le bambine delle scuole marceranno da Piazza XXV Aprile, per le vie del centro, fino a giungere al Castello Sforzesco per l'usuale “Io marcio per i diritti”. Seguiranno iniziative sui temi delle emozioni, del benessere, dei diritti e del linguaggio inclusivo, grazie alla collaborazione con Pop-Up festival e da corti sul linguaggio inclusivo grazie alla collaborazione con Circonvalla Film.




I Comuni si illuminano di blu per la Giornata internazionale dell’infanzia e dell’adolescenza

In occasione del 20 novembre, Giornata internazionale dell’infanzia e dell’adolescenza, come ogni anno UNICEF Italia e ANCI -Associazione Nazionale Comuni Italiani – lanciano l’iniziativa Go Blue per ricordare l'approvazione della Convenzione sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza da parte dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, avvenuta 35 anni fa.

L’iniziativa #GoBlue è rivolta in particolare alle amministrazioni comunali che sono invitate ad illuminare di blu un monumento o un edificio significativo della propria città. Un gesto simbolico per richiamare l’attenzione dei cittadini e delle istituzioni sull’importanza di conoscere, diffondere e dare reale applicazione ai diritti sanciti dalla Convenzione ONU.

L’iniziativa rientra tra le azioni di sensibilizzazione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza rivolte ai Comuni, promosse dal Programma UNICEF Città amiche dei bambini e degli adolescenti.

Vedi la lista dei Comuni che hanno aderito
(fonte: Unicef 19/11/2024)

martedì 19 novembre 2024

Andrea Tornielli: Cercare vie percorribili per arrivare alla pace

Andrea Tornielli

Cercare vie percorribili per arrivare alla pace

Una riflessione a mille giorni dall’inizio del conflitto in Ucraina


Mille giorni. Sono passati mille giorni da quel 24 febbraio 2022, quando l’esercito della Federazione Russa ha aggredito e invaso l’Ucraina per ordine del presidente Vladimir Putin. Mille giorni e un numero imprecisato – ma altissimo – di morti, civili e militari, di vittime innocenti come i bambini rimasti uccisi per strada, nelle scuole, nelle loro case. Mille giorni e centinaia di migliaia di feriti e di traumatizzati destinati a rimanere disabili a vita, di famiglie rimaste senza casa. Mille giorni e un Paese martirizzato e devastato. Nulla può giustificare questa tragedia che poteva essere fermata prima, se tutti avessero scommesso su quelli che Papa Francesco ha chiamato gli “schemi di pace”, invece di arrendersi alla presunta ineluttabilità del conflitto. Una guerra che come ogni altra è sempre accompagnata da interessi, primo fra tutti quello dell’unico business che non conosce crisi e non l’ha conosciuta neanche durante la recente pandemia, quello globale e trasversale di chi fabbrica e vende armamenti sia in Oriente che in Occidente.

La triste scadenza dei mille giorni passati dall’inizio dell’aggressione militare all’Ucraina dovrebbe far sorgere un’unica domanda: come porre fine a questo conflitto? Come arrivare a un cessate il fuoco e poi a una pace giusta? Come dar vita a negoziati, quelle “oneste trattative” di cui ha di recente parlato il Successore di Pietro, che permettano di giungere ad “onorevoli compromessi” ponendo fine a una drammatica spirale che rischia di trascinarci verso il baratro di una guerra nucleare?

Non ci si può nascondere dietro a un dito. L’encefalogramma della diplomazia appare piatto, l’unico sussulto di speranza sembra essere quello legato alle dichiarazioni elettorali del nuovo presidente degli Stati Uniti d’America. Ma la tregua, e poi la pace negoziata, sono – o meglio dovrebbero essere – un obiettivo perseguito da tutti e non possono essere demandate alle promesse di un solo leader.

Che fare dunque? Come ritrovare, in particolare da parte dell’Europa, un ruolo degno del suo passato e di quei leader che nel dopoguerra hanno costruito una comunità di nazioni garantendo decenni di pace e di cooperazione al Vecchio Continente? Il cosiddetto Occidente, invece di puntare soltanto sulla folle corsa al riarmo e su alleanze militari che sembravano ormai desuete e retaggio della Guerra Fredda, dovrebbe forse prendere in considerazione il numero crescente di nazioni che non si riconoscono in questo schema.

Ci sono Paesi che hanno conservato e persino intensificato relazioni di alto livello con la Russia: perché non verificare in modo approfondito le possibilità di trovare soluzioni comuni di pace? Perché non sviluppare un’azione diplomatica e un dialogo costante attraverso consultazioni non sporadiche, non burocratiche ma intense, con questi Paesi? E se le Cancellerie europee faticano ad imboccare questa strada, si può ipotizzare un ruolo maggiore delle Chiese, dei leader religiosi? Ancora, al di là dei contatti ufficiali, ridotti peraltro al lumicino, dai Paesi che sostengono finanziariamente e militarmente l’Ucraina ci si aspetterebbe in parallelo una maggiore iniziativa di analisi e di proposta: c’è urgente bisogno di “think tank” internazionali in grado di osare, di indicare vie possibili e concrete di soluzione, di proporre schemi per una pace accettabile da tutti. Per far questo, come ha detto il cardinale Parolin ai media vaticani, ci sarebbe tanto bisogno «di statisti dallo sguardo lungimirante, capaci di gesti coraggiosi di umiltà, in grado di pensare al bene dei loro popoli». È c’è anche bisogno, mai come in questo giorno, che i popoli alzino la loro voce per chiedere la pace.
(fonte: Vatican News 18/11/2024)

Papa Francesco: La dignità umana sia la nostra preoccupazione

Nel libro che Papa Francesco pubblica per il Giubileo 2025 “La speranza non delude mai. Pellegrini verso un mondo migliore” a cura di Hernán Reyes Alcaide

La dignità umana
sia la nostra preoccupazione


I quotidiani «La Stampa» ed «El País» in edicola domenica 17 novembre hanno anticipato — rispettivamente in italiano e in spagnolo — alcuni brani del libro che Papa Francesco pubblica per il Giubileo 2025. Il volume “La speranza non delude mai. Pellegrini verso un mondo migliore”, a cura di Hernán Reyes Alcaide (Edizioni Piemme, 176 pagine, 17.90 euro), esce martedì 19 in Italia, Spagna e America Latina, e poi a seguire in altri Paesi. Il Pontefice riflette sulla famiglia e l’educazione, sulla situazione sociale, politica ed economica del pianeta, su geopolitica e migrazioni, sulla crisi climatica, le nuove tecnologie e la pace.

Riaffermo qui che «è assolutamente necessario affrontare nei Paesi d’origine le cause che provocano le migrazioni» (Messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2017). È necessario che i programmi attuati a questo scopo garantiscano che, nelle aree colpite dall’instabilità e dalle ingiustizie più gravi, si dia spazio a uno sviluppo autentico che promuova il bene di tutte le popolazioni, in particolare dei bambini e delle bambine, speranza dell’umanità. Se vogliamo risolvere un problema che tocca tutti noi, dobbiamo farlo attraverso l’integrazione dei Paesi di origine, di transito, di destinazione e di ritorno dei migranti. Di fronte a questa sfida, nessun Paese può essere lasciato solo e nessuno può pensare di affrontare la questione isolatamente attraverso leggi più restrittive e repressive, talvolta approvate sotto la pressione della paura o in cerca di vantaggi elettorali. Al contrario, così come vediamo che c’è una globalizzazione dell’indifferenza, dobbiamo rispondere con la globalizzazione della carità e della cooperazione, affinché le condizioni degli emigranti siano umanizzate.

Pensiamo agli esempi recenti che abbiamo visto in Europa. La ferita ancora aperta della guerra in Ucraina ha portato migliaia di persone ad abbandonare le proprie case, soprattutto durante i primi mesi del conflitto. Ma abbiamo anche assistito all’accoglienza senza restrizioni di molti Paesi di confine, come nel caso della Polonia. Qualcosa di simile è accaduto in Medio Oriente, dove le porte aperte di nazioni come la Giordania o il Libano continuano a essere la salvezza per milioni di persone in fuga dai conflitti della zona: penso soprattutto a chi lascia Gaza nel pieno della carestia che ha colpito i fratelli palestinesi a fronte della difficoltà di far arrivare cibo e aiuti nel loro territorio. A detta di alcuni esperti, ciò che sta accadendo a Gaza ha le caratteristiche di un genocidio. Bisognerebbe indagare con attenzione per determinare se s’inquadra nella definizione tecnica formulata da giuristi e organismi internazionali. Dobbiamo coinvolgere i Paesi d’origine dei maggiori flussi migratori in un nuovo ciclo virtuoso di crescita economica e di pace che includa l’intero pianeta. Affinché la migrazione sia una decisione veramente libera, è necessario prodigarsi per garantire a tutti una partecipazione equitativa al bene comune, il rispetto dei diritti fondamentali e l’accesso allo sviluppo umano integrale. Solo se questa piattaforma basilare verrà garantita in tutte le nazioni del mondo potremo dire che chi migra lo fa liberamente e potremo pensare a una soluzione davvero globale del problema. Penso soprattutto ai giovani, che emigrando provocano spesso una doppia frattura nelle comunità di origine: una perché esse perdono gli elementi più prosperi e propositivi e un’altra perché le famiglie si disgregano.

Per raggiungere questo scenario, tuttavia, dobbiamo compiere il passo preliminare fondamentale che consiste nel porre fine alle ineguali condizioni di scambio tra i diversi Paesi del mondo. Nei legami tra molti di essi si è instaurata una certa finzione che mostra la parvenza di un presunto scambio commerciale, ma in effetti consiste solo in una transazione tra filiali che saccheggiano i territori dei Paesi poveri e inviano i loro prodotti e i loro ricavi alle società madri nei Paesi sviluppati. Mi vengono in mente, per esempio, i settori legati allo sfruttamento delle risorse naturali del sottosuolo. Sono le vene aperte di quei territori (Eduardo Galeano, Le vene aperte dell’America Latina, Sur, 2021).

Quando sentiamo questo o quel leader lamentarsi dei flussi migratori provenienti dall’Africa verso l’Europa, quanti di quegli stessi dirigenti si interrogano sul neocolonialismo che esiste ancora oggi in molte nazioni africane?

Ricordo che nel mio viaggio nella Repubblica Democratica del Congo, nel 2023, affrontai il problema del saccheggio odierno di alcune nazioni: «C’è quel motto che esce dall’inconscio di tante culture e tanta gente: “L’Africa va sfruttata”, questo è terribile! Dopo quello politico, si è scatenato infatti un “colonialismo economico”, altrettanto schiavizzante. Così questo Paese, ampiamente depredato, non riesce a beneficiare a sufficienza delle sue immense risorse: si è giunti al paradosso che i frutti della sua terra lo rendono “straniero” ai suoi abitanti. Il veleno dell’avidità ha reso i suoi diamanti insanguinati» (Incontro con le autorità a Kinshasa, 31 gennaio 2023).

Sappiamo già che la «teoria della ricaduta favorevole» (Discorso al ii i ncontro mondiale dei Movimenti popolari, 9 luglio 2015) non funziona né all’interno dell’economia di un singolo Paese né nel concerto delle nazioni. Dobbiamo sostenere i Paesi periferici, in molti casi quelli di origine delle migrazioni, per neutralizzare le pratiche neocolonizzatrici che cercano di perpetuare le asimmetrie.

Una volta che il mondo si metterà in grado di portare avanti accordi per promuovere lo sviluppo locale di coloro che altrimenti finirebbero per migrare, è importante che i governanti di quei Paesi, chiamati a esercitare la buona politica, agiscano in modo trasparente, onesto, lungimirante e al servizio di tutti, soprattutto dei più vulnerabili.

Una volta accolti e poi protetti, i migranti vanno promossi. Nel chiedere che si aprano loro le porte, esorto anche a favorire il loro sviluppo integrale, a dare loro la possibilità di realizzarsi come persone in tutte le dimensioni che compongono l’umanità voluta dal Creatore.

Penso in particolare ai significativi passi avanti che vanno compiuti per favorire l’inserimento socio-lavorativo dei migranti e dei rifugiati, alle possibilità di lavoro che bisogna garantire anche ai richiedenti delle diverse tipologie di asilo e, parallelamente, a un’offerta consistente di corsi di formazione linguistica e di cittadinanza attiva, nonché di informazioni adeguate nella propria lingua. In Italia abbiamo l’esempio di un giovane sacerdote, don Mattia Ferrari, che non solo si impegna nelle azioni di salvataggio in mare, ma inoltre con il suo gruppo assicura un’integrazione sostenibile e sopportabile nel luogo di destinazione.

D’altro canto, una migrazione ben gestita potrebbe aiutare ad affrontare la grave crisi causata dalla denatalità in molti Paesi, soprattutto europei. È un problema molto serio e le persone che arrivano da altre nazioni possono contribuire a risolverlo, se le si integra pienamente e smettono di essere considerate cittadini di “seconda categoria”.

L’integrazione del migrante in arrivo è di fondamentale importanza. Corriamo il rischio che ciò che alcuni vedono come una salvezza nel presente diventi una condanna per il futuro. Saranno le prossime generazioni a ringraziarci se avremo saputo creare le condizioni per un’imprescindibile integrazione, e invece ci biasimeranno se avremo favorito solo sterili assimilazioni. Mi riferisco a un’integrazione che per caratteristiche sia paragonabile al poliedro, dove cioè ciascuno conserva le sue caratteristiche; è tutt’altro modello dall’assimilazione, che non tiene conto delle differenze e si attiene rigidamente ai propri paradigmi.

I giovani che oggi si attivano in tutto il mondo, indicandoci la strada, domani si siederanno a trasmettere quell’amore per la Terra alla prossima generazione. Noi, che oggi abbiamo già ben più che qualche capello grigio, abbiamo fallito nella gestione del creato e per questo apprezziamo lo spirito di iniziativa delle nuove generazioni, che non vogliono ripetere i nostri errori e si sforzano di lasciare la casa comune migliore di come l’hanno ricevuta.

Ho seguito da vicino le massicce mobilitazioni degli studenti in diverse città e conosco alcune azioni con cui si battono per un mondo più giusto e attento alla salvaguardia dell’ambiente. Agiscono con preoccupazione, entusiasmo e, soprattutto, con senso di responsabilità verso l’urgente cambio di rotta che ci viene imposto dalle problematiche derivate dall’attuale crisi etica e socio-ambientale. Il tempo sta per scadere, non ce ne resta molto per salvare il pianeta e loro vanno, escono e si fanno valere. E non lo fanno solo per se stessi, lo fanno per noi e per chi verrà dopo.

Ci sono diversi esempi di come questo dialogo intergenerazionale può sfociare in un’alleanza applicata alla cura della casa comune.

Penso ad alcuni progetti che si preoccupano di trasmettere il patrimonio di conoscenze e i valori della produzione alimentare locale che possedevano i nostri nonni, allo scopo di applicarli con l’aiuto dei mezzi di cui oggi disponiamo per fare passi avanti nella difesa e promozione della biodiversità alimentare. Li anima il desiderio di ritornare alla terra e di coltivarla, senza sfruttarla, con tecniche e metodi del tutto ecologici.

In un mondo sempre più frenetico e “usa e getta”, queste iniziative aiutano le persone a non perdere il legame con il cibo e con le tradizioni locali a esso collegate. Sono in controtendenza, ma non necessariamente regressive; piuttosto, mirano a recuperare il rapporto tra alimentazione e legami sociali. In Italia Carlo Petrini e il suo movimento che invita a uno slow food hanno fatto grandi passi in questa direzione.

Oltre ai benefici che il mondo può trarre da questa nuova alleanza in termini di cura del pianeta, senza dubbio un incontro più assiduo tra giovani e anziani ridurrà la possibilità che riaccadano le tragedie belliche e umanitarie che hanno segnato il secolo scorso.

Chi non conosce la propria storia è condannato a ripeterla. Nessuno meglio dei nostri anziani può darci la testimonianza viva di alcuni eventi che non vogliamo ricapitino mai più sul nostro pianeta. Quell’Europa che da quasi tre anni è l’epicentro di questa Terza guerra mondiale a pezzi che stiamo vivendo, è il continente che nel secolo scorso ha passato trent’anni immerso in guerre fratricide e poi ha conosciuto dolorose separazioni di popoli fratelli quando è caduto il Muro di Berlino. Non può essere un caso che questi nuovi venti di guerra soffino nel Vecchio mondo allorché si assottigliano sempre più le file dei testimoni diretti della barbarie del totalitarismo o, peggio ancora, quando vengono emarginati, come pezzi da museo impossibilitati a addurre le loro preziose testimonianze — che molti portano addirittura sulla propria pelle — in alcuni dei dibattiti che oggi segnano l’agenda politica esattamente come poco più di cento anni fa.

La speranza ha sempre un volto umano Questo sarà il primo Giubileo contrassegnato dall’avvento di nuove tecnologie e si svolgerà nel pieno di un’emergenza climatica come quella che stiamo attraversando. Ogni giorno vediamo come la casa comune ci chieda di dire basta al nostro stile di vita che forza il pianeta oltre i suoi limiti e provoca l’erosione del suolo, la scomparsa dei campi, l’espansione dei deserti, l’acidificazione dei mari e l’intensificazione delle tempeste e di altri intensi fenomeni climatici. È il grido della Terra che ci interpella. Nelle Scritture, durante il Giubileo il popolo di Dio fu invitato a riposarsi dal lavoro abituale, per consentire alla Terra di rigenerarsi e al mondo di riorganizzarsi, grazie al declino dei consumi abituali. Ricordiamo le parole di Dio a Mosè sul monte Sinai: «Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia. Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate. Poiché è un giubileo: esso sarà per voi santo; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi» (Levitico 25, 10-12).

Siamo chiamati a adottare stili di vita equi e sostenibili che diano alla Terra il riposo che merita, nonché mezzi di sussistenza sufficienti per tutti che non distruggano gli ecosistemi che ci sostengono.

Già prima della pandemia ritenevamo necessario «riflettere sui nostri stili di vita e su come le nostre scelte quotidiane in fatto di cibo, consumi, spostamenti, utilizzo dell’acqua, dell’energia e di tanti beni materiali siano spesso sconsiderate e dannose» (Messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato, 1 settembre 2019). Ora aggiungiamo la necessità di una riflessione che comprenda anche il futuro delle nuove tecnologie e quali decisioni prenderemo, come umanità, affinché esse non siano incompatibili con un mondo di fraternità e di speranza.

Siamo chiamati a uscire dalla nostra comodità e a proporre soluzioni e alternative creative, affinché il pianeta rimanga abitabile e la nostra esistenza sulla Terra non corra pericolo.

Nuovi problemi richiedono nuove soluzioni. Dobbiamo meditare sui dilemmi etici posti dall’uso onnipresente della tecnologia, facendo appello alla conoscenza integrata per evitare che continui a regnare il paradigma tecnocratico.

La dignità di ogni uomo e di ogni donna sia la nostra preoccupazione centrale al momento di costruire un futuro da cui nessuno resti escluso.

Non si tratta più solo di garantire la continuità della specie umana su un pianeta sempre più minacciato, ma di fare in modo che quella vita sia rispettata in ogni momento. E se davanti alla questione ambientale non abbiamo saputo reagire in tempo, invece possiamo farlo di fronte a quella che viene percepita come una delle trasformazioni più profonde della storia recente dell’umanità, la penetrazione dell’IA (intelligenza artificiale), in tutti gli ambiti della nostra vita quotidiana.

Da qui la chiamata a essere pellegrini di speranza.

Mi piace l’immagine del pellegrino, «colui che si decentra e così può trascendere. Esce da sé, si apre a un nuovo orizzonte, e quando torna a casa non è più lo stesso, e nemmeno casa sua sarà più la stessa» (Ritorniamo a sognare, Piemme, 2020).

Il cammino del pellegrino, inoltre, non è un evento individuale, ma comunitario, marca l’impronta di un dinamismo crescente che tende sempre più verso la croce, che sempre ci offre la certezza della presenza e la sicurezza della speranza. Mettersi in cammino «è tipico di chi va alla ricerca del senso della vita» (Bolla del Giubileo 2025).

Ricordate quello che vi ho detto all’inizio: la speranza è la nostra àncora e la nostra vela. Facciamoci portare da lei per uscire in pellegrinaggio verso la costruzione di quel mondo più fraterno che sogniamo, in cui la dignità dell’essere umano prevale su ogni divisione ed è in armonia con la madre Terra.

Pubblicato per Piemme da Mondadori Libri S.p.A. © 2024 Mondadori Libri S.p.A., Milano
(fonte: L'Osservatore Romano 18/11/2024)


GIANFRANCO RAVASI - “L’Occidente vive un declino culturale. La politica impari da Mattarella”

GIANFRANCO RAVASI 
“L’Occidente vive un declino culturale. 
La politica impari da Mattarella” 

Intervista a cura di Domenico Agasso

pubblicata su "La Stampa" il 18.11.2024



Le forze politiche italiane puntano a identità e forza, senza più dare sostanza al concetto di bene comune». Trump? «Mi preoccupa la semplificazione dannosa che applica su ogni tema». Il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente emerito del Pontificio Consiglio della Cultura, parla a La Stampa nel Duomo di Torino, prima di tenere una lectio magistralis per celebrare il centenario dell’Opera diocesana Pellegrinaggi.

Lei, fondatore del “Cortile dei Gentili”, è considerato un simbolo del dialogo, in particolare tra credenti e non credenti. Questa distinzione ha ancora senso oggi, o viviamo in un’epoca in cui tutto è più sfumato, individualista?
«È la domanda fondamentale. Ed è paradossale per me, che ho dedicato gran parte della mia vita pubblica al tema del dialogo, inteso nel senso rigoroso del termine: un incrocio tra due logoi, due discorsi seri e qualificati. Nel passato – indicativamente prima della caduta del muro di Berlino – era più semplice e meno aggressivo: due visioni con valori propri si incontravano e, pur mantenendo le differenze e affrontandosi talvolta duramente, riuscivano ad ascoltarsi. Era l’essenza stessa della parola “incontro”: da una parte l’avvicinamento (in-), dall’altra la marcatura delle identità (contro). Oggi la situazione è diversa».

Come la descrive?
«Citando la sottolineatura di Paul Ricoeur: siamo in un’epoca in cui alla “bulimia dei mezzi” corrisponde un'”anoressia dei fini”. Abbiamo tecnologie potenti, ma ci mancano le grandi tensioni ideali. La superficialità e l’omogeneità dominano, avvolgendo tutto in una sorta di nebbia culturale. Questo fenomeno rende il dialogo vero sempre più difficile, specialmente nei contesti comuni, dove manca la profondità necessaria per affrontare temi complessi».

Lei parla di un «grigiore» che sembra permeare ogni ambito. E le chiese?
«Charles Taylor evidenzia un aspetto cruciale della secolarizzazione: Cristo stesso, se apparisse oggi proclamando le beatitudini, non scuoterebbe le coscienze come un tempo. Al massimo, un poliziotto gli chiederebbe i documenti. Questo è il livello di appiattimento che viviamo: una società incapace di accogliere messaggi forti, proprio perché priva di valori radicati. Tutta la cultura sembra spingerci verso questo grigiore, una sorta di abbassamento generale degli standard. Anche alcune chiese, in particolare alcune protestanti, hanno tentato di abbassare il livello delle loro idee, esigenze etiche e morali per attrarre più persone. Ma il risultato non è stato il ripopolamento dei luoghi di culto».

Qual è una via d’uscita?
«Essere una spina nel fianco di questa tendenza, come fa papa Francesco. La soluzione è tornare a proporre il Vangelo nella sua forma forte. È questo che può ancora scuotere le coscienze e suscitare una reazione autentica. E in generale, per il futuro delle società è essenziale proporre grandi valori culturali».

La politica italiana sembra più interessata al consenso che ai problemi reali. È d’accordo?
«Purtroppo sì. Manca quella autorevolezza rappresentata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Le forze politiche puntano solo a identità e forza, senza più dare sostanza al concetto di bene comune. Certo, il consenso è sempre stato necessario, ma non dovrebbe essere l’unico obiettivo. In passato i leader politici si impegnavano anche a proporre visioni a lungo termine, a costruire. Oggi, invece, l’azione dei partiti si riduce spesso alla ricerca immediata del potere, sostenuta da mezzi di comunicazione che privilegiano la retorica e gli slogan, hanno sostituito i vecchi comizi e i dibattiti di spessore, riducendo la possibilità di approfondire questioni importanti».

Quali prospettive intravede negli Stati Uniti dopo la vittoria di Donald Trump?

«Gli Usa, e non la Cina, rappresentano ancora il modello culturale e politico fondamentale per l’Occidente. Tuttavia, mi preoccupa la semplificazione che Trump applica su ogni argomento: questo modo di agire esclude la complessità della realtà per ottenere risposte emotive. È un approccio che tende a emarginare questioni rilevanti, generando polarizzazioni dannose. Anche nel panorama culturale americano si nota un declino. In passato, scrittori come Philip Roth o Saul Bellow rappresentavano una cultura capace di guidare e ispirare. Oggi, pur con qualche eccezione, manca una classe intellettuale di pari statura. Questo impoverimento culturale riflette un problema più ampio: la società americana, come molte altre, sembra avere perso la capacità di elaborare visioni profonde e condivise».

Lei fuggirà da X, il social network di Elon Musk, l’uomo forte della prossima amministrazione Usa a firma Tycoon?
«Anche se la tentazione di abbandonare c’è, preferisco fare come Cristo: stare in cattiva compagnia (sorride, ndr.)»

In un contesto internazionale segnato da guerre e tensioni, ha senso avere speranza in un futuro migliore?
«Oggi rischiamo di cadere in due estremi: l’utopia illusoria, che promette senza fondamento, o il realismo cinico, che rinuncia a sperare. Per affrontare le sfide del nostro tempo dobbiamo ritrovare un equilibrio, riscoprendo la speranza come forza capace di alimentare scelte e mosse concrete e ideali più alti. E concilianti».

(Fonte:  Cortile dei Gentili)


lunedì 18 novembre 2024

La Fondazione Giulia Cecchettin e i suoi programmi sono stati presentati ufficialmente oggi alla Camera dei deputati

La Fondazione Giulia Cecchettin e i suoi programmi 
sono stati presentati ufficialmente oggi alla Camera dei deputati 


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Presentata la Fondazione Giulia Cecchettin:
“Vogliamo portare alla luce la violenza contro le donne”

Obiettivo lavorare per la parità di genere, contrastare la violenza sulle donne e tenere viva la memoria di Giulia e i suoi valori. Si parte con i proventi del libro “Cara Giulia” del padre Gino Cecchettin


Contrastare la violenza sulle donne ed operare per la parità di genere in una società equa e inclusiva, capace di prevenire e contrastare ogni forma di violenza di genere, nella quale ogni persona possa realizzare se stessa in consapevolezza, libertà e pienezza mantenendo viva la memoria di Giulia Cecchettin, diffondendo il suo messaggio di amore, gioia e speranza, ricordandone la determinazione, il coraggio, lo spirito altruista e la passione per la vita. Sono questi gli obiettivi della “Fondazione Giulia Cecchettin ETS”, la cui nascita è stata sancita il 29 ottobre scorso a Padova con la firma dell’atto costitutivo da parte dei fondatori: il padre di Giulia, Gino Cecchettin, la sorella Elena e il fratello Davide. Nel Consiglio di Amministrazione, che rispetta la parità di genere e garantirà la presenza di una rappresentante delle vittime di violenza di genere, sono presenti, oltre a Gino Cecchettin (Presidente), Anna Maria Tarantola (vicepresidente), Anna Fasano (tesoriere), Federica Pellegrini, Gaia Tortora, Daniela Mapelli e Maria Luisa Pellizzari, donne che si sono sempre prodigate nei loro rispettivi ruoli nella promozione e difesa della parità di genere e contro la violenza di genere.

“Giulia era una giovane donna piena di vita, speranza e amore – sono le parole di Gino Cecchettin –. Il suo tragico destino non può essere vanificato. Fondazione Giulia si propone di mantenere viva la sua memoria e di diffondere il suo messaggio. La violenza di genere è un nemico insidioso e spesso invisibile che colpisce milioni di persone in tutto il mondo. Con Fondazione Giulia ci impegniamo a portare questa violenza alla luce, a sensibilizzare l’opinione pubblica e a fornire sostegno a coloro che ne sono vittime”.

La presentazione

La Fondazione e i suoi programmi sono stati presentati ufficialmente oggi a Roma, nella Sala della Regina della Camera dei deputati - Palazzo Montecitorio. L’evento, che è stato anche l’occasione per introdurre il primo dei molti progetti che la Fondazione attiverà nel 2025, si è aperto con l’indirizzo di saluto di Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera dei deputati, e la lettura del messaggio del cardinale Matteo Maria Zuppi. A seguire il contributo video di Giuseppe Valditara, ministro dell’Istruzione e del Merito, e l’intervento di Eugenia Roccella, ministra per la Famiglia, la natalità e le pari opportunità. Ha chiuso gli interventi istituzionali Martina Semenzato, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio.

Per la Fondazione, insieme al Presidente Gino Cecchettin, sono intervenute: la vicepresidente Anna Maria Tarantola (in collegamento), la tesoriera Anna Fasano, presidente di Banca Etica; le consigliere Maria Luisa Pellizzari, Prefetto in quiescenza, Federica Pellegrini, atleta; Gaia Tortora, giornalista e moderatrice dell'incontro. Gli interventi dei componenti del Comitato scientifico della Fondazione Giulia Cecchettin – Irene Biemmi, docente in Pedagogia di genere dell’Università di Firenze, Stefano Ciccone, Università di Roma Tor Vergata, fondatore di Maschile Plurale e Barbara Poggio, prorettrice alle Politiche di equità e diversità, Università di Trento – si sono focalizzati in particolare sui temi del linguaggio, del maschilismo e dell’educazione all’affettività.

Secondo Barbara Poggio, la violenza di genere è un fenomeno complesso e articolato, radicato nei profondi squilibri di genere che attraversano la società, ma capace di assumere nuove connotazioni nel presente. La complessità del fenomeno, ha spiegato nel suo intervento, richiede una pluralità di azioni in grado di incidere su pratiche e modelli culturali, tra cui soprattutto gli interventi educativi. Stefano Ciccone ha proposto una riflessione sulla rappresentazione della violenza nella società e sulla natura contraddittoria dell'allarme sociale che spesso ne deriva, mentre Irene Biemmi ha sottolineato come sia necessario adottare pratiche educative che possano scardinare gli stereotipi di genere, favorendo una cultura di rispetto e uguaglianza fin dall’infanzia.

Gli obiettivi generali della Fondazione

Gli obiettivi della fondazione sono: sviluppo di programmi educativi e di sensibilizzazione sulla violenza di genere per scuole e famiglie; percorsi formativi per il mondo del lavoro, volti a promuovere pratiche di diversity management e a contrastare le molestie; istituzione di borse di studio per studentesse in corsi STEM e premi di merito per progetti di ricerca e creativi in ricordo di Giulia; attività di studio e ricerca per comprendere le cause e le conseguenze della violenza di genere e sviluppare interventi efficaci; collaborazione con il mondo dell’informazione per migliorare la narrazione della violenza di genere e ridurre il fenomeno della vittimizzazione secondaria.

Il “Progetto Educativo: Prevenzione e Sensibilizzazione alla Violenza di Genere”

Il primo progetto cui sta lavorando la Fondazione, che prenderà avvio già nei prossimi mesi, si propone di promuovere un cambiamento delle dimensioni strutturali e culturali alla base della violenza di genere attraverso la prevenzione, la formazione e l’empowerment. Azioni concrete coinvolgeranno scuole, famiglie, comunità e i professionisti che operano a contatto con le vittime di violenza, e saranno condotte in rete con altri soggetti. In particolare, saranno attivati programmi educativi e sensibilizzazione nelle scuole e nella comunità per la prevenzione della violenza di genere; formazione per operatori socio-sanitari, forze dell’ordine, e personale giudiziario; progetti di educazione socio-affettiva nelle scuole e nei luoghi di aggregazione. Per le donne e le ragazze, azioni di empowerment economico, sociale e politico e percorsi di consapevolezza e autonomia; per donne in situazioni di rischio, counselling e accompagnamento, consulenza psicologica, assistenza legale e orientamento sociale.

Un percorso condiviso

Il programma delle attività, così come tutto lo statuto, è il frutto di un lungo processo collaborativo che ha coinvolto numerosi stakeholders del sociale, dell’Università, della cultura e dell’attivismo. Proprio per questo si prefigge un largo spettro di azioni, che verranno sistematizzate in un piano strategico che definirà le priorità per i primi tre anni. Ogni ambito della società sarà potenzialmente interessato con programmi e iniziative di formazione e sensibilizzazione della comunità sulla violenza di genere e di prevenzione, lavorando in rete con soggetti già attivi in Italia che operano per contrastare la violenza sulle donne.

“Le azioni che ci proponiamo con il passaggio dal Comitato alla Fondazione si pongono in continuità con quanto fatto finora - puntualizza Gino Cecchettin -. Sono azioni molto concrete che partono dal convincimento che sia necessario promuovere un cambiamento radicale delle dimensioni strutturali e culturali da cui si origina e si riproduce ogni tipo di violenza di genere. Lavoreremo per costruire reti, mettendo in relazione e valorizzando le tante iniziative esistenti sui territori, fianco a fianco con i diversi soggetti per crescere insieme e ottenere dei risultati sistemici attraverso la collaborazione e il potenziamento reciproco. Invitiamo dunque tutte le associazioni che condividono la nostra missione a proporre progetti e collaborazioni con la Fondazione. Accogliamo con entusiasmo anche la disponibilità di professionisti che desiderano mettere le proprie competenze al servizio delle nostre iniziative”.

Le risorse

Le attività avranno inizio già con l’avvio del 2025 e la sfida principale sin d’ora riguarda il reperimento delle risorse per rendere concreti questi propositi. La prima fonte di risorse è costituita dai proventi netti di Gino Cecchettin derivanti dai diritti d’autore del libro “Cara Giulia" (Rizzoli). Al momento il libro ha superato le 100mila copie, in 10 edizioni e, secondo i dati comunicati a ottobre dall'AIE (Associazione Italia Editori), “Cara Giulia” è tra i 10 titoli più venduti in Italia nel 2024. Gino Cecchettin sta presentando il volume in ogni regione d’Italia, in particolare negli istituti scolastici, trovando un riscontro incredibile, segno di una sensibilità molto presente e concreta. Ulteriori risorse verranno da chi si vorrà associare e dalle donazioni che è possibile effettuare su dona.fondazionegiulia.org/a-giulia
(fonte: Redattore Sociale 18/11/2024)

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Di seguito il messaggio del cardinal Zuppi all’ evento di presentazione della Fondazione Cecchettin:

Carissimo Gino,
oggi presenti la Fondazione che porta il nome della tua amata Giulia, che è diventata carissima anche per ognuno di noi.
Desidero far sentire la mia personale vicinanza a te, ai tuoi figli e a tutti i familiari e gli amici.
Voglio esprimere il mio ringraziamento più sincero per come hai saputo affrontare con tanta umanità una tempesta che ha strappato il fiore bellissimo della vita di Giulia.
Incoraggio anche la Fondazione Giulia Cecchettin che oggi presenti per l’impegno che si assume nel contribuire affinché non vi siano altre vittime del sopruso e per capire e combattere la violenza e le sue cause. In questo modo ci aiuterà a comprendere che l’amore non è mai possesso, ma sempre dono e rispetto.
Per quello che mi sarà possibile, cercherò di aiutarvi.
Buon cammino con tanta amicizia e vicinanza,
Tuo,
Matteo Zuppi

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Per approfondire vedi anche:


VIII Giornata Mondiale dei Poveri - Papa Francesco: «Le parole di Gesù rimangono in eterno. ... Non dimentichiamo che Dio prepara per noi un futuro di vita e di gioia. ... Fratelli e sorelle, non dimentichiamoci che i poveri non possono aspettare!» Angelus 17/11/2024 (testo e video)

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 17 novembre 2024



Cari fratelli e sorelle, buona domenica!

Nel Vangelo della Liturgia odierna Gesù descrive una grande tribolazione: «il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce» (Mc 13,24). Di fronte a questa sofferenza, molti potrebbero pensare alla fine del mondo, ma il Signore coglie l’occasione per offrirci una diversa chiave di lettura, dicendo: «il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» (Mc 13,31).

Possiamo soffermarci su questa espressione: ciò che passa e ciò che resta.

Anzitutto ciò che passa. In alcune circostanze della nostra vita, quando attraversiamo una crisi o sperimentiamo qualche fallimento, così pure quando vediamo attorno a noi il dolore causato dalle guerre, dalle violenze, dalle calamità naturali, abbiamo la sensazione che tutto vada verso la fine, e avvertiamo che anche le cose più belle passano. Le crisi e i fallimenti, però, anche se dolorosi, sono importanti, perché ci insegnano a dare a ogni cosa il giusto peso, a non attaccare il cuore alle realtà di questo mondo, perché esse passeranno: sono destinate a tramontare.

Allo stesso tempo Gesù parla di ciò che resta. Tutto passa, ma le sue parole non passeranno: le parole di Gesù rimangono in eterno. Ci invita così a fidarci del Vangelo, che contiene una promessa di salvezza e di eternità, e a non vivere più sotto l’angoscia della morte. Infatti, mentre tutto passa, Cristo resta. In Lui, in Cristo, un giorno ritroveremo le cose e le persone che sono passate e che ci hanno accompagnato nell’esistenza terrena. Alla luce di questa promessa di risurrezione, ogni realtà acquista un significato nuovo: tutto muore e anche noi un giorno moriremo, ma non perderemo nulla di quanto abbiamo costruito e amato, perché la morte sarà l’inizio di una nuova vita.

Fratelli e sorelle, anche nelle tribolazioni, nelle crisi, nei fallimenti il Vangelo ci invita a guardare alla vita e alla storia senza timore di perdere ciò che finisce, ma con gioia per ciò che resta. Non dimentichiamo che Dio prepara per noi un futuro di vita e di gioia.

E allora chiediamoci: siamo attaccati alle cose della terra, che passano, che passano in fretta, o alle parole del Signore che restano e ci guidano verso l’eternità? Facciamoci questa domanda, per favore. Ci aiuterà.

E preghiamo la Vergine Santa, che si è affidata totalmente alla Parola di Dio, affinché Lei interceda per noi.
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Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle,

ieri a Scutari sono stati beatificati due martiri: Luigi Palić, sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori, e Gjon Gazulli, sacerdote diocesano, vittime della persecuzione religiosa del XX secolo. E oggi a Friburgo in Brisgovia è stato beatificato un altro martire, il sacerdote Max Josef Metzger, fondatore dell’Istituto secolare di Cristo Re, avversato dal nazismo per il suo impegno religioso in favore della pace. L’esempio di questi martiri conforti tanti cristiani che nel nostro tempo sono discriminati per la fede. Un applauso ai nuovi Beati!

Oggi celebriamo la Giornata Mondiale dei Poveri, che ha per tema «La preghiera del povero sale fino a Dio» (Sir 21,5). Ringrazio quanti, nelle diocesi e parrocchie, hanno promosso iniziative di solidarietà con i più disagiati. E in questo giorno ricordiamo anche tutte le vittime della strada: preghiamo per loro, per i familiari, e impegniamoci a prevenire gli incidenti.

Faccio una domanda, ognuno può fare questa domanda a se stesso: io mi privo di qualcosa per darla ai poveri? Quando faccio l’elemosina, tocco la mano del povero e lo guardo negli occhi? Fratelli e sorelle, non dimentichiamoci che i poveri non possono aspettare!

Mi unisco alla Chiesa in Italia che domani ripropone la Giornata di preghiera per le vittime e i sopravvissuti agli abusi. Ogni abuso è un tradimento di fiducia, è un tradimento alla vita! La preghiera è indispensabile per “ritessere fiducia”.

Desidero ricordare anche tutti i pescatori, in occasione della Giornata Mondiale della Pesca, che ricorrerà giovedì prossimo: Maria, Stella del mare, protegga i pescatori e le loro famiglie.

E saluto con affetto tutti voi, romani e pellegrini. In particolare, i fedeli provenienti da Ponta Delgada e da Zagabria; la Escolanía del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial e la comunità ecuadoriana di Roma, che celebra la Virgen del Quinche. Saluto i gruppi di Chioggia e Caorle; i Vigili del fuoco di Romeno (Trento) e la corale parrocchiale di Nesso (Como).

Fratelli e sorelle, preghiamo per la pace: nella martoriata Ucraina, in Palestina, Israele, Libano, in Myanmar, in Sudan. La guerra rende disumani, induce a tollerare crimini inaccettabili. I Governanti ascoltino il grido dei popoli che chiedono pace.

Un saluto ai ragazzi dell’Immacolata. A tutti auguro buona domenica. E per favore non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

Guarda il video

VIII Giornata Mondiale dei Poveri - Papa Francesco: «E lo dico alla Chiesa, lo dico ai Governi, lo dico alle Organizzazioni internazionali, lo dico a ciascuno e a tutti: per favore, non dimentichiamoci dei poveri.» Omelia 17/11/2024 (foto, testo e video)

VIII GIORNATA MONDIALE DEI POVERI

SANTA MESSA

Basilica di San Pietro
XXXIII Domenica del Tempo Ordinario, 17 novembre 2024



Papa Francesco, in una basilica vaticana gremita da clochard e persone bisognose, ha celebrato la Santa Messa in occasione della Giornata Mondiale del Poveri, giornata istituita dallo stesso Pontefice otto anni fa.
L'omelia è stata dedicata ai deboli e agli esclusi. Nell'incontro con loro il rischio "non accorgerci della presenza di Dio". La fede non sia "devozione innocua". Commentando il brano letto nel Vangelo, il Papa ha sottolineato come Gesù ci inviti “ad avere uno sguardo più acuto, ad avere occhi capaci di ‘leggere dentro’ gli avvenimenti della storia, per scoprire che, anche nelle angosce del nostro cuore e del nostro tempo, c’è un’incrollabile speranza che brilla”. E proprio su queste due parole, angoscia e speranza, “che sempre si sfidano a duello nel campo del nostro cuore”, ha intessuto la sua omelia odierna. Richiamate nella conclusione le parole del card. Martini: "Chiesa è tale nella misura in cui serve i poveri".












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OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Le parole che abbiamo appena ascoltato potrebbero suscitare in noi sentimenti di angoscia; in realtà, sono un grande annuncio di speranza. Infatti, se da una parte Gesù sembra descrivere lo stato d’animo di chi ha visto la distruzione di Gerusalemme e pensa che ormai sia arrivata la fine, allo stesso tempo Egli annuncia qualcosa di straordinario: proprio nell’ora dell’oscurità e della desolazione, proprio quando tutto sembra crollare, Dio viene, Dio si fa vicino, Dio ci raduna per salvarci.

Gesù ci invita ad avere uno sguardo più acuto, ad avere occhi capaci di “leggere dentro” gli avvenimenti della storia, per scoprire che, anche nelle angosce del nostro cuore e del nostro tempo, c’è un’incrollabile speranza che brilla. In questa Giornata Mondiale dei Poveri, allora, soffermiamoci proprio su queste due realtà: angoscia e speranza, che sempre si sfidano a duello nel campo del nostro cuore.

Anzitutto l’angoscia. È un sentimento diffuso nella nostra epoca, dove la comunicazione sociale amplifica problemi e ferite rendendo il mondo più insicuro e il futuro più incerto. Anche il Vangelo oggi si apre con un quadro che proietta nel cosmo la tribolazione del popolo, e lo fa utilizzando il linguaggio apocalittico: «Il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno…» e così via (Mc 13,24-25).

Se il nostro sguardo si ferma soltanto alla cronaca dei fatti, dentro di noi l’angoscia ha il sopravvento. Anche oggi, infatti, vediamo il sole oscurarsi e la luna spegnersi, vediamo la fame e la carestia che opprimono tanti fratelli e sorelle che non hanno da mangiare, vediamo gli orrori della guerra, vediamo le morti innocenti. Davanti a questo scenario, corriamo il rischio di sprofondare nello scoraggiamento e di non accorgerci della presenza di Dio dentro il dramma della storia. Così ci condanniamo all’impotenza; vediamo crescere attorno a noi l’ingiustizia che provoca il dolore dei poveri, ma ci accodiamo alla corrente rassegnata di coloro che, per comodità o per pigrizia, pensano che “il mondo va così” e “io non posso farci niente”. Allora anche la stessa fede cristiana si riduce a una devozione innocua, che non disturba le potenze di questo mondo e non genera un impegno concreto nella carità. E mentre una parte del mondo è condannata a vivere nei bassifondi della storia, mentre le disuguaglianze crescono e l’economia penalizza i più deboli, mentre la società si consacra all’idolatria del denaro e del consumo, succede che i poveri, gli esclusi non possono fare altro che continuare ad aspettare (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 54).

Ma ecco che Gesù, in mezzo a quel quadro apocalittico, accende la speranza. Spalanca l’orizzonte, allarga il nostro sguardo perché impariamo a cogliere, anche nella precarietà e nel dolore del mondo, la presenza dell’amore di Dio che si fa vicino, che non ci abbandona, che agisce per la nostra salvezza. Infatti, proprio mentre il sole si oscura e la luna smette di brillare e le stelle cadono dal cielo, dice il Vangelo, «vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria»; ed Egli «radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo» (vv. 26-27).

Con queste parole, Gesù sta indicando anzitutto la sua morte, che avverrà di lì a poco. Sul Calvario, infatti, il sole si oscurerà, le tenebre scenderanno sul mondo; ma proprio in quel momento il Figlio dell’uomo verrà sulle nubi, perché la potenza della sua risurrezione spezzerà le catene della morte, la vita eterna di Dio sorgerà dal buio e un mondo nuovo nascerà dalle macerie di una storia ferita dal male.

Fratelli e sorelle, questa è la speranza che Gesù ci vuole consegnare. E lo fa anche attraverso una bella immagine: guardate alla pianta del fico – dice –, perché «quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, significa che l’estate è vicina» (v. 28). Allo stesso modo, anche noi siamo chiamati a leggere le situazioni della nostra vita terrena: laddove sembra esserci soltanto ingiustizia, dolore e povertà, proprio in quel momento drammatico, il Signore si fa vicino per liberarci dalla schiavitù e far risplendere la vita (cfr v. 29). E si fa vicino con la nostra vicinanza cristiana, con la nostra fratellanza cristiana. Non si tratta di buttare una moneta nelle mani di quello che ha bisogno. A quello che dà l’elemosina io domando due cose: “Tu tocchi le mani della gente o butti la moneta senza toccarle? Tu guardi negli occhi la persona che aiuti o guardi da un’altra parte?”.

Siamo noi i suoi discepoli, che grazie allo Spirito Santo possiamo seminare questa speranza nel mondo. Siamo noi che possiamo e dobbiamo accendere luci di giustizia e di solidarietà mentre si addensano le ombre di un mondo chiuso (cfr Enc. Fratelli tutti, 9-55). Siamo noi che la sua Grazia fa brillare, è la nostra vita impastata di compassione e di carità a diventare segno della presenza del Signore, sempre vicino alle sofferenze dei poveri, per lenire le loro ferite e cambiare la loro sorte.

Fratelli e sorelle, non dimentichiamolo: la speranza cristiana, che si è compiuta in Gesù e si realizza nel suo Regno, ha bisogno di noi, ha bisogno del nostro impegno, ha bisogno di una fede operosa nella carità, ha bisogno di cristiani che non si girano da un’altra parte. Io guardavo una fotografia che ha fatto un fotografo romano: uscivano da un ristorante, una coppia adulta, quasi anziani, in inverno; la signora ben coperta con la pelliccia e l’uomo pure. Alla porta, c’era una signora povera, sdraiata sul pavimento, che chiedeva l’elemosina e ambedue guardavano dall’altra parte… Questo succede ogni giorno. Domandiamoci noi: io guardo da un’altra parte quando vedo la povertà, le necessità, il dolore degli altri? Un teologo del Novecento diceva che la fede cristiana deve generare in noi “una mistica dagli occhi aperti”, non una spiritualità che fugge dal mondo ma – al contrario – una fede che apre gli occhi sulle sofferenze del mondo e sulle infelicità dei poveri per esercitare la stessa compassione di Cristo. Io sento la stessa compassione del Signore davanti ai poveri, davanti a coloro che non hanno lavoro, che non hanno da mangiare, che sono emarginati dalla società? E non dobbiamo guardare solo ai grandi problemi della povertà mondiale, ma al poco che tutti possiamo fare ogni giorno con i nostri stili di vita, con l’attenzione e la cura per l’ambiente in cui viviamo, con la ricerca tenace della giustizia, con la condivisione dei nostri beni con chi è più povero, con l’impegno sociale e politico per migliorare la realtà che ci circonda. Potrà sembraci poco cosa, ma il nostro poco sarà come le prime foglie che spuntano sull’albero di fico, il nostro poco sarà un anticipo dell’estate ormai vicina.

Carissimi, in questa Giornata Mondiale dei Poveri mi piace ricordare un monito del Cardinale Martini. Egli disse che dobbiamo stare attenti a pensare che c’è prima la Chiesa, già solida in se stessa, e poi i poveri di cui scegliamo di occuparci. In realtà, si diventa Chiesa di Gesù nella misura in cui serviamo i poveri, perché solo così «la Chiesa “diventa” se stessa, cioè la Chiesa diventa casa aperta a tutti, luogo della compassione di Dio per la vita di ogni uomo» (C.M. Martini, Città senza mura. Lettere e discorsi alla diocesi 1984, Bologna 1985, 350).

E lo dico alla Chiesa, lo dico ai Governi, lo dico alle Organizzazioni internazionali, lo dico a ciascuno e a tutti: per favore, non dimentichiamoci dei poveri.