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venerdì 27 giugno 2025

Leone XIV: la fatica nel vivere è la malattia del nostro tempo. Affrontiamo la realtà con Gesù - Udienza Generale - Catechesi del 25.06.2025 (Testo e video)

Leone XIV
La fatica nel vivere è la malattia del nostro tempo.
Affrontiamo la realtà con Gesù -
Udienza Generale - Catechesi del 25.06.2025
(Testo e video)

Andiamo da Gesù: Lui può guarirci, può farci rinascere. 
Gesù è la nostra speranza!




Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza.
II. La vita di Gesù. 
Le guarigioni. 
11. La donna emorroissa e la figlia di Giairo. «Non temere, soltanto abbi fede!» (Mc 5,36)

Cari fratelli e sorelle,
anche oggi meditiamo sulle guarigioni di Gesù come segno di speranza. In Lui c’è una forza che anche noi possiamo sperimentare quando entriamo in relazione con la sua Persona.

Una malattia molto diffusa nel nostro tempo è la fatica di vivere: la realtà ci sembra troppo complessa, pesante, difficile da affrontare. E allora ci spegniamo, ci addormentiamo, nell’illusione che al risveglio le cose saranno diverse. Ma la realtà va affrontata, e insieme con Gesù possiamo farlo bene. A volte poi ci sentiamo bloccati dal giudizio di coloro che pretendono di mettere etichette sugli altri.

Mi sembra che queste situazioni possano trovare riscontro in un passo del Vangelo di Marco, dove si intrecciano due storie: quella di una ragazza di dodici anni, che è a letto malata e sta per morire; e quella di una donna, che, proprio da dodici anni, ha perdite di sangue e cerca Gesù per poter guarire (cfr Mc 5,21-43).

Tra queste due figure femminili, l’Evangelista colloca il personaggio del padre della ragazza: egli non rimane in casa a lamentarsi per la malattia della figlia, ma esce e chiede aiuto. Benché sia il capo della sinagoga, non avanza pretese in ragione della sua posizione sociale. Quando c’è da attendere non perde la pazienza e aspetta. E quando vengono a dirgli che sua figlia è morta ed è inutile disturbare il Maestro, lui continua ad avere fede e a sperare.

Il colloquio di questo padre con Gesù è interrotto dalla donna emorroissa, che riesce ad avvicinarsi a Gesù e a toccare il suo mantello (v. 27). Questa donna con grande coraggio ha preso la decisione che cambia la sua vita: tutti continuavano a dirle di rimanere a distanza, di non farsi vedere. L’avevano condannata a rimanere nascosta e isolata. A volte anche noi possiamo essere vittime del giudizio degli altri, che pretendono di metterci addosso un abito che non è il nostro. E allora stiamo male e non riusciamo a venirne fuori.

Quella donna imbocca la via della salvezza quando germoglia in lei la fede che Gesù può guarirla: allora trova la forza di uscire e di andare a cercarlo. Vuole arrivare a toccare almeno la sua veste.

Intorno a Gesù c’era tanta folla, e dunque tante persone lo toccavano, eppure a loro non succede niente. Quando invece questa donna tocca Gesù, viene guarita. Dove sta la differenza? Commentando questo punto del testo, Sant’Agostino dice – a nome di Gesù –: «La folla mi si accalca intorno, ma la fede mi tocca» (Discorso 243, 2, 2). È così: ogni volta che facciamo un atto di fede indirizzato a Gesù, si stabilisce un contatto con Lui e immediatamente esce da Lui la sua grazia. A volte noi non ce ne accorgiamo, ma in modo segreto e reale la grazia ci raggiunge e da dentro pian piano trasforma la vita.

Forse anche oggi tante persone si accostano a Gesù in modo superficiale, senza credere veramente nella sua potenza. Calpestiamo la superficie delle nostre chiese, ma forse il cuore è altrove! Questa donna, silenziosa e anonima, vince le sue paure, toccando il cuore di Gesù con le sue mani considerate impure a causa della malattia. Ed ecco che subito si sente guarita. Gesù le dice: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace» (Mc 5,34).

Nel frattempo, portano a quel padre la notizia che sua figlia è morta. Gesù gli dice: «Non temere, soltanto abbi fede!» (v. 36). Poi va a casa sua e, vedendo che tutti piangono e gridano, dice: «La bambina non è morta, ma dorme» (v. 39). Quindi entra nella camera dove giaceva la bambina, la prende per mano e le dice : «Talità kum», “Fanciulla, alzati!”. La ragazza si alza in piedi e si mette a camminare (cfr vv. 41-42). Quel gesto di Gesù ci mostra che Lui non solo guarisce da ogni malattia, ma risveglia anche dalla morte. Per Dio, che è Vita eterna, la morte del corpo è come un sonno. 
La morte vera è quella dell’anima: di questa dobbiamo avere paura!

Un ultimo particolare: Gesù, dopo aver risuscitato la bambina, dice ai genitori di darle da mangiare (cfr v. 43). Ecco un altro segno molto concreto della vicinanza di Gesù alla nostra umanità. Ma possiamo intenderlo anche in senso più profondo e domandarci: quando i nostri ragazzi sono in crisi e hanno bisogno di un nutrimento spirituale, sappiamo darglielo? E come possiamo se noi stessi non ci nutriamo del Vangelo?

Cari fratelli e sorelle, nella vita ci sono momenti di delusione e di scoraggiamento, e c’è anche l’esperienza della morte. Impariamo da quella donna, da quel padre: andiamo da Gesù: Lui può guarirci, può farci rinascere. Gesù è la nostra speranza!

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Saluti

Je salue cordialement les pèlerins de langue française, en particulier ceux venus du Canada, de la Côte d’ivoire, de la Belgique et de la France.
Frères et sœurs, par l’intercession des saints Pierre et Paul, les colonnes de l’Église, puissions-nous, au milieu de nos fatigues et difficultés humaines, aller vers Jésus notre espérance et notre vie.
Que Dieu vous bénisse !

[Saluto cordialmente i pellegrini di lingua francese, in particolare quelli provenienti dal Canada, dalla Costa d’Avorio, dal Belgio e dalla Francia.
Fratelli e sorelle, per intercessione dei santi Pietro e Paolo, colonne della Chiesa, possiamo noi, in mezzo alle fatiche e alle difficoltà umane, andare verso Gesù, nostra speranza e nostra vita.
Dio vi benedica!]

I am happy to welcome this morning the English-speaking pilgrims and visitors taking part in today’s Audience, especially those coming from Malta, Eswatini, Ghana, Kenya, South Africa, Australia, China, India, Indonesia, the Philippines, South Korea and the United States of America. I offer special greetings to the members of Citizens UK catholic movement. As the month of June draws to a close, we ask the Sacred Heart of Jesus to increase our faith as we turn to him in trust. God bless you all!

Liebe Brüder und Schwestern deutscher Sprache, in diesen Tagen begehen die Bischöfe, die Priester und die Seminaristen ihre Heilig-Jahr-Feier. Unterstützen wir sie in ihrer Berufung und beten wir für sie, dass sie Hirten nach dem Heiligsten Herzen Jesu sein können.

[Cari fratelli e sorelle di lingua tedesca, in questi giorni i Vescovi, i Sacerdoti e i seminaristi celebrano il loro Giubileo. Sosteniamoli nella loro vocazione e preghiamo per loro perché possano essere pastori secondo il Sacro Cuore di Gesù.]

Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española, en modo particular a los sacerdotes y seminaristas provenientes de España, México, Puerto Rico, Ecuador, Colombia, El Salvador, Venezuela. En la vida hay momentos de desilusión, de desaliento e incluso de muerte. Aprendamos de aquella mujer y de aquel padre: vayamos a Jesús. Él puede sanarnos, puede devolvernos la vida. ¡Él es nuestra esperanza! Muchas gracias.

我向讲中文的人们致以亲切的问候。亲爱的弟兄姐妹们,我保证必会为你们所有美好的意向祈祷。
我降福大家!

[Rivolgo il mio cordiale saluto alle persone di lingua cinese. Cari fratelli e sorelle, assicuro la mia preghiera per tutte le vostre intenzioni di bene. A tutti la mia benedizione!]

Queridos fiéis de língua portuguesa, bem-vindos! Saúdo especialmente os sacerdotes vindos de Braga e Viana do Castelo em Portugal, e de Teresina, Castanhal, Nazaré e Santo Amaro no Brasil. Ao aproximarmo-nos do final do mês de junho, voltemos mais intensamente o nosso olhar para o Coração de Jesus. A partir d’Ele, demos de novo a este nosso mundo um coração que sabe amar, perdoar e cuidar dos outros. Deus vos abençoe!

[Cari fedeli di lingua portoghese, benvenuti! Saluto in modo speciale i Sacerdoti provenienti da Braga e Viana do Castelo, in Portogallo, e da Teresina, Castanhal, Nazaré e Santo Amaro, in Brasile. All’avvicinarsi della fine del mese di giugno, rivolgiamo più intensamente lo sguardo al Cuore di Gesù. A partire da Lui ridoniamo a questo nostro mondo un cuore che sa amare, perdonare e prendersi cura degli altri. Dio vi benedica!]

أُحيِّي المُؤمِنِينَ النَّاطِقِينَ باللُغَةِ العَرَبِيَّة. أعِزَّائي الفِتْيانَ والشَّبابَ والطُّلاب، معَ بدايَةِ العُطلَةِ الصَّيفِيَّة، أَدعُوكُم إلى أنْ تُواظِبُوا على الصَّلاةِ، وأَنْ تَقْتَدُوا بِصِفاتِ يسوعَ الشَّابِ الَّذي كان يَتَسامَى في الحِكمَةِ والقامَةِ والحُظوَةِ عِندَ اللهِ والنَّاس. بارَكَكُم الرَّبُّ جَميعًا وَحَماكُم دائِمًا مِن كلِّ شَرّ!

[Saluto i fedeli di lingua araba. Cari ragazzi, giovani e studenti, con l’inizio delle vacanze estive, vi invito a continuare la preghiera e a imitare le qualità del giovane Gesù che cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini. Il Signore vi benedica tutti e vi protegga ‎sempre da ogni male‎‎‎‏!]

Serdecznie pozdrawiam Polaków. Zachęcam was do codziennej lektury Ewangelii. Niech będzie ona dla Was duchowym pokarmem, uzdalniającym do niesienia wiary i nadziei do swoich środowisk. A zbliżająca się uroczystość świętych Piotra i Pawła niech stanie się dla was okazją do odnowienia osobistej więzi ze wspólnotą Kościoła i modlitewnej troski o jego pasterzy. Z serca Wam błogosławię!

[Saluto cordialmente i polacchi. Vi invito a lasciarvi accompagnare ogni giorno dalla lettura del Vangelo: sia per voi nutrimento spirituale, capace di rafforzarvi nel portare la fede e la speranza nei vostri ambienti. La prossima solennità dei Santi Pietro e Paolo sia per voi un’occasione per rinnovare il legame personale con la comunità della Chiesa e la premurosa preghiera per i suoi pastori. Vi benedico di cuore!]

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APPELLO

Domenica scorsa è stato compiuto un vile attentato terroristico contro la comunità greco-ortodossa nella chiesa di Mar Elias a Damasco. Affidiamo le vittime alla misericordia di Dio ed eleviamo le nostre preghiere per i feriti e i familiari. Ai cristiani del Medio Oriente dico: vi sono vicino! Tutta la Chiesa vi è vicina!

Questo tragico avvenimento richiama la profonda fragilità che ancora segna la Siria, dopo anni di conflitti e di instabilità. È quindi fondamentale che la comunità internazionale non distolga lo sguardo da questo Paese, ma continui a offrirgli sostegno attraverso gesti di solidarietà e con un rinnovato impegno per la pace e la riconciliazione.

Continuiamo a seguire con attenzione e con speranza gli sviluppi della situazione in Iran, Israele e Palestina. Le parole del profeta Isaia risuonano più che mai urgenti: «Una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra» (Is 2,4). Si ascolti questa voce, che viene dall’Altissimo! Si curino le lacerazioni provocate dalle sanguinose azioni degli ultimi giorni. Si respinga ogni logica di prepotenza e di vendetta e si scelga con determinazione la via del dialogo, della diplomazia e della pace.

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i fedeli della diocesi di Alba, accompagnati dal loro Vescovo Mons. Marco Brunetti, e li esorto ad attingete dall’Eucaristia la forza per essere testimoni del Vangelo della carità. Saluto poi le Suore Missionarie dell’Incarnazione, le Ancelle della Beata Vergine Immacolata e le Suore del Bambino Gesù, che celebrano i rispettivi Capitoli Generali, incoraggiandole a essere segni eloquenti dell’amore di Dio e missionarie della sua pace.

Accolgo con gioia i fedeli di Mola di Bari, Noepoli e Grotteria, esortandoli a perseverare nei buoni propositi di fedeltà al Vangelo e alla Chiesa. Saluto altresì la Scuola Militare Alpina di Aosta e la Brigata Paracadutisti “Folgore”: cari militari, invoco su di voi e sulle vostre famiglie copiosi doni celesti per una sempre più solida testimonianza cristiana.

Il mio pensiero va infine ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli. Siamo entrati nell’estate, per molti tempo di ferie e di riposo. Per voi, cari giovani, sia un'occasione per utili esperienze sociali e religiose; per voi, cari sposi novelli, un periodo per cementare la vostra unione e approfondire la vostra missione nella Chiesa e nella società. Auspico inoltre che a voi, cari malati, non manchi durante questi mesi estivi la vicinanza di persone care.

A tutti la mia benedizione!


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Enzo Bianchi Ai sacerdoti non si può perdonare l’ipocrisia

Enzo Bianchi

Ai sacerdoti non si può perdonare l’ipocrisia

La Stampa - Tuttolibri - 21 giugno 2025


Tutto l’Antico Testamento non solo attesta le infedeltà del popolo di Israele nei confronti dell’alleanza con il suo Signore, ma dedica pagine e pagine a descrivere e denunciare le tentazioni subite dal popolo di Dio. Perché nella lotta contro l’infedeltà e nella resistenza alle seduzioni del peccato occorre avere conoscenza della tentazione. La tentazione, opera del seduttore, del principe di questo mondo, di colui che divide ed è menzognero, Satana, è sempre presente nella vita del credente: essa è generata dalla libido che abita ogni umano e che tende a dominarlo. Conoscere il modo in cui la tentazione si fa strada nel cuore, chiede di essere accolta e quindi acconsentita, conoscere il fascino che essa porta con sé è determinante per la lotta spirituale.

Per questo, a partire dai padri del deserto (questi cardiognostici) fino ai grandi padri della spiritualità monastica è stata dedicata molta attenzione alle tentazioni inerenti alle diverse vocazioni dei cristiani. Tentazioni subite nella solitudine del deserto dall’eremita, tentazioni del cenobita che vive nella koinonía di fratelli e sorelle, tentazioni del pastore della chiesa che deve seguire il suo Signore stando nel mondo senza evasioni ma anche senza compromessi con chi ne è il principe. Fin dall’inizio del suo ministero petrino, Papa Francesco, che ebbe nel suo passato una lunga esperienza di “accompagnatore spirituale”, guida spirituale di molti credenti, ha in alcune occasioni osato una scavata lettura delle tentazioni degli ecclesiastici, in special modo degli uomini della curia romana.

In Preti umani, troppo umani. Sfide e contraddizioni del ministero ordinato, (Edizioni Dehoniane Bologna, del gruppo Il Portico) Domenico Marrone, presbitero e teologo attento alla vita presbiterale, ha esplorato le tentazioni del presbitero in un’ora nella quale più che mai si addensavano scandali e critiche su questa figura ecclesiale: da vero cardiognostico sa indicare le malattie, le cure e le medicine. Ma ciò che è straordinario in lui è che nell’avvertire dei pericoli in cui si può incorrere non ha mai un occhio da spione, né uno spirito che ama condannare; mostra invece la misericordia di chi legge l’infedeltà al Vangelo senza rigorismi, senza rigidismi, del tutto esente da una preoccupazione legalistico-morale. È in vista della libertà, dell’autenticità e dell’umanizzazione che Marrone descrive i vizi e rilegge le tentazioni del prete. Certamente egli ha ben presente le critiche di Gesù ai sacerdoti, agli uomini religiosi, agli esperti delle Scritture, ma sa anche fare attualizzazioni puntuali, mai moralizzanti e pedanti.

Io resto convinto che nella vita di un prete un esame di coscienza debba nutrirsi anche di pagine come queste di Domenico Marrone perché ognuno di noi nell’avanzare sulle strade del Regno deve poter ascoltare anche voci che lo convincono di peccato e gli mostrano la strada della conversione. Il Diritto canonico, con la sua sapienza, ha indicato in modo sintetico e prudente le virtù del presbitero e soprattutto ha sempre raccomandato una vita sobria alla gerarchia ecclesiastica, ma oggi si sente il bisogno di una maggiore radicalità evangelica in conformità anche al rinnovamento tentato dal concilio Vaticano II. Siamo però ancora molto lontani da quella semplicità evangelica rivestita da Gesù e dai Dodici: le nostre liturgie sono ancora troppo faraoniche, negli eventi ecclesiali il trionfalismo della gerarchia emerge con evidenza e il termine “porpora” evoca purtroppo chi la vestiva nella parabola del povero Lazzaro. Facilmente, poi, si trovano giustificazioni attribuendo alla gloria di Dio ciò di cui per il momento godono gli ecclesiastici.

Domenico Marrone, lo voglia o no, con questo libro è riuscito rivisitare san Bernardo e il suo scritto De consideratione indirizzato a papa Eugenio III che fu monaco, a rileggere padri come Giovanni Crisostomo, Agostino e Pier Damiani, e altri da lui citati in queste pagine di cui c’era veramente bisogno.

Ma voglio alla fine di questa breve introduzione mettere in risalto ciò che Domenico Marrone di fatto più teme, quando scrive: “Tutti i peccati dei preti sono perdonabili, ma l’ipocrisia no!”.
(fonte: blog dell'autore)


giovedì 26 giugno 2025

"Se vuole davvero la pace, signora presidente, prepari la scuola, non la guerra" - Lettera immaginaria di don Milani a Giorgia Meloni

"Se vuole davvero la pace, signora presidente, prepari la scuola, non la guerra"
Lettera immaginaria di don Milani a Giorgia Meloni


(Credit: Wikimedia Commons/Vox España/CC0 1.0 Universal)


Onorevole Giorgia Meloni, ho letto con tristezza, ma senza sorpresa, le Sue parole: “Si vis pacem, para bellum”.

Le ha dette con fermezza, come se ci fosse dentro una verità antica e saggia.

Ma vede, signora presidente, non c’è nulla di saggio in chi prepara la guerra sperando nella pace. È solo vecchia retorica di chi ha sempre mandato i figli degli altri a morire.

Lei parla di aumentare la spesa militare al 5% del PIL. Io, che ho fatto scuola ai figli dei contadini, so bene cosa vuol dire togliere pane, istruzione, sanità per comprare armi.

Ogni euro speso per i cannoni è tolto al grembiule del maestro, al libro del povero, alla cura del malato.

Quando noi preti, in tempo di guerra, benedicevamo i fucili, avevamo perso Cristo e non ce n’eravamo accorti.

Io non sono contro la patria. Ma amo la patria degli ultimi. Quella che non si difende con i carri armati, ma con la cultura, la giustizia e la pace vera.

Lei pensa che la forza faccia paura ai nemici. Io Le dico che fa più paura un popolo ignorante, armato e convinto di fare il bene. E che la vera sicurezza si ottiene con la verità, con la giustizia sociale, con l’amore per il prossimo.

Se vuole davvero la pace, signora presidente, prepari la scuola, non la guerra. Mandi i giovani a imparare le lingue, non a imbracciare il fucile.

Li accompagni a conoscere il mondo, non a bombardarlo.

Le scrivo da prete, da maestro, da uomo. E da cittadino che non ha mai voluto obbedire a un’ingiustizia, neanche quando portava l’uniforme dello stato.

L’obbedienza non è più una virtù. La pace non si costruisce con le armi.

Con rispetto e con fermezza,

don Lorenzo Milani, Barbiana, 25 giugno 2025
(fonte: Nigrizia, articolo di Fabio Tesser 25/06/2025)


Raniero La Valle Quale Dio dopo Gaza


Raniero La Valle 
Quale Dio dopo Gaza

Foto ritagliata di Jonathan Fernandes tratta da Pexels, immagine originale e licenza

Newsletter n. 22 da Prima Loro del 24 giugno 2025‌

Cari amici,

“Dio mio, Dio mio, perché ti abbiamo abbandonato?”. Questo rovesciamento del Salmo 22 sarebbe, come ci viene suggerito, la preghiera più appropriata a questo punto della storia umana: dovrebbe essere unanime, oltre ogni distinzione tra credenti e non credenti, perché dopo Francesco l’umanità non può che essere riconosciuta come una cosa sola, amata nella sua integrità, non condannata a essere divisa tra “benedizione” e “maledizione” secondo la sorte che ne ha preconizzato Netanyahu all’ONU.

Tanto più questa unità si impone, quando nel pieno del genocidio di Gaza, compare la bomba più grande del mondo, che non ha neanche bisogno di essere nucleare per soggiogare e mettere a repentaglio la terra; una bomba che eventualmente, bontà sua, può cancellare il Cremlino, la piazza della Pace celeste a Pechino o il “Berlaymont” di Bruxelles, mentre provoca l’ovvia ritorsione dell’Iran. Allusivamente si chiama B2 (Bibi) Spirit, ispirata al patto d’acciaio che unisce il Pio Torturatore (in preghiera al Muro del Pianto) e il grande Mentitore che assicura due settimane di attesa mentre i suoi bombardieri sono già in volo senza scalo. Non c’è pietà, mentre il diritto, più che trasgredito, è oltraggiato, e la volontà di morte, che papa Francesco nelle sue ultime parole del messaggio di Pasqua sperava si rovesciasse in una umanità risorta, dilaga nel mondo.

La società del Novecento è stata scossa dalla domanda “dov’era Dio?” quando Egli taceva durante l’olocausto, e su quale fosse “il concetto di Dio dopo Auschwitz”, nell’angoscia del grido: “mai più!”.

Oggi la domanda è: “Qual è il concetto di Dio dopo Gaza?”, dov’è, e perché il suo silenzio perfino dinanzi agli uccisi in ricerca del cibo? Questa volta la domanda è ancora più sgomenta, perché Dio starebbe di casa non tra le vittime, ma tra gli autori del crimine, che ne eseguirebbero il presunto mandato.

Allora la risposta ebraica fu quella richiamata da Elie Wiesel ne “La notte”: Dio era lì, appeso alla forca con il ragazzino impiccato dai nazisti nel campo di Auschwitz. Non era un Dio che abbandona.

La risposta cristiana era la stessa e fu approfondita da Giuseppe Dossetti nella Introduzione a Le querce di Monte Sole di Luciano Gherardi, sulla linea di Basilio di Cesarea e del libro di Jürgen Moltmann Il Dio crocefisso: il Dio che ad Auschwitz pendeva dalla forca era il Dio crocefisso, la divinità di Dio presente nel suo abbassamento alla misura della carne dell’uomo, fin dell’ultimo uomo.

Ma allora dov’è la salvezza da un Dio che spoglia se stesso? «Mistero della fede», dice la liturgia cattolica. Ma non senza di noi. La salvezza è che neanche noi lo abbandoniamo. Il Dio che non dobbiamo abbandonare non è l’onnipotente, onnisciente, perfettamente buono ed eterno, che inaugura «il monoteismo come problema politico» (dall’omonimo libro di Erik Peterson, ndr), ma è il Dio assetato, vilipeso, povero e crocefisso che sussiste anche nell’ultimo dei migranti e delle vittime. Se non lo abbandoniamo nella sua angoscia, se ne riconosciamo l’innocenza, se non smettiamo di parlare con lui, saremo con lui nel suo regno, comunque si voglia chiamare il paradiso. Se non abbandoniamo i martirizzati di Gaza, se salviamo i deportati di Trump, se preserviamo i candidati a essere uccisi di tutte le guerre, se mettiamo per primi i poveri, se lo Stato sociale sceglie “prima loro”, come in Italia sta scritto anche in Costituzione, ci salviamo anche noi, si salvano tutti.

Nel sito pubblichiamo il rapporto della Commissaria per la politica estera dell’Unione Europea sulla violazione dei diritti umani e dei principi democratici da parte di Israele e il discorso di Tomaso Montanari nella marcia a Monte Sole.

Con i più cordiali saluti,
Raniero La Valle
(da “Prima Loro”)


mercoledì 25 giugno 2025

Tonio Dell'Olio Si vis pacem

Tonio Dell'Olio
 
Si vis pacem



PUBBLICATO IN MOSAICO DEI GIORNI  IL 25 GIUGNO 2025

L’affermazione della premier Meloni nella sua comunicazione al Senato doveva avere il potere di mettere a tacere tutti.

Si rifaceva alla sapienza degli antichi romani, mostrava un’efficacia evidente secondo il buon senso e rispondeva a un’emergenza assoluta come il desiderio di pace. Ha detto: “La penso come i romani – dice Meloni citando la famosa locuzione latina si vis pacem para bellum –. Quando ti doti di una difesa non lo fai per attaccare, la pace è deterrenza, se si hanno dei sistemi di sicurezza e difesa solidi si possono più facilmente evitare dei conflitti”. 

Quella dottrina, però mostra solo un “piccolissimo” difetto: è stata seguita negli ultimi duemila anni e non mi pare che sia mai (dico mai) riuscita a evitare un conflitto armato. Personalmente credo che, al contrario, armarsi abbia piuttosto favorito il ricorso all’uso della forza. 

Le affermazioni della presidente del consiglio sono pertanto false e ingannevoli di fronte alla prova della storia ma rischiano persino di diventare gravemente offensive davanti alle vittime e alle loro famiglie, alla sofferenza di tanti e alla distruzione cui assistiamo su larga scala. 

Giusto per citare gli ultimi avvenimenti, l’Iran, credendo nella medesima affermazione della Meloni, voleva esattamente la pace armandosi – come altre nazioni – con testate nucleari. Israele ha sempre creduto fermamente nel detto degli antichi romani ma non è riuscito a fermare il terrorismo del 7 ottobre e potremmo continuare all’infinito.


Guerra e religione. Binomio spesso storicamente tradito, ma inconciliabile di Gianfranco Ravasi

Guerra e religione. 
Binomio spesso storicamente tradito, 
ma inconciliabile 
di Gianfranco Ravasi


È necessaria una premessa: anche se in finale indicherò il rimando ai due volumi, questa non è una recensione dei loro contenuti. Ho letto con interesse – anche perché io stesso ho dedicato un saggio all’argomento, La santa violenza (Milano 2019) – queste due opere consonanti, anche se differenti per genere. Da un lato, lo studio diacronico-tematico sul rapporto del cristianesimo con la violenza e le armi elaborato dallo storico Massimo Rubboli dell’università di Genova, ricco di documentazione e aperto all’intero panorama internazionale (Massimo Rubboli, I cristiani, la violenza e le armi, GBU, pagg. 534, € 25 ). D’altro lato, il potente testo di un giornalista rigoroso, Siegmund Ginzberg, nato in una famiglia ebraica a Istanbul ma milanese di adozione (Siegmund Ginzberg, Macellerie, Feltrinelli, pagg. 188,€18). Già il titolo è come un pugno nello stomaco, Macellerie, e le sue pagine dedicate a «guerre atroci e paci ambigue» attirano il lettore come un terribile racconto insanguinato, pur conservando in filigrana l’attestazione storiografica e persino esegetica (quando è di scena la Bibbia).

       Questa coppia di scritti mi ha spinto a proporre una nota marginale su una questione imponente, il nesso tra religione e guerra. È indubbio che, sia a livello biblico sia nella storia della cristianità, emerge un dato culturale e sociale rilevante. Se si sfogliano le pagine scritturistiche e quelle dei manuali storici, si scopre che spesso sono striate di sangue. Per stare alla Bibbia, basti solo pensare alle stragi sante – il cosiddetto herem o «sterminio sacro» – che accompagnano la conquista della Terra promessa da parte del popolo ebraico, oppure alle centinaia di testi violenti presenti nelle S. Scritture e alla stessa simbolica bellica usata per rappresentare il «Dio degli eserciti» (che, però, era originariamente un rimando all’armata astrale del Creatore, anche se poi applicata alle battaglie di Israele col palladio dell’Arca santa).

      Il discorso si allarga anche alla storia della cristianità ove, però, accanto alle guerre di religione, si configura un rapporto più complesso, variegato e sfumato col tema militare. Interessante è, ad esempio, la distinzione che Tertulliano, scrittore cristiano del II secolo, introduce nel suo De idolatria tra il bellare in guerra, visto criticamente, e il militare in tempo di pace come servizio necessario di tutela. Nel 1905 un famoso studioso tedesco, Adolf von Harnack, approfondì a livello storico la questione nei primi secoli cristiani nel saggio Militia, mostrando la varietà degli approcci. Da un lato, ecco i santi soldati martiri (si pensi a san Sebastiano), la visione della vita cristiana come lotta contro il male e l’errore, la celebrazione retorica della spada e della croce intrecciate tra loro, per giungere alle Crociate (significativo, al riguardo, è il Liber ad milites Templi di san Bernardo).

      D’altro lato, però, ecco invece la posizione critica dei Padri della Chiesa africana del III secolo come Cipriano o Lattanzio e il citato Tertulliano, oppure l’emergere dell’obiezione di coscienza, come appare nella Passio della recluta Massimiliano. Il procuratore Dione lo interroga: «Non vedi quanto sei giovane? Devi fare il soldato. Che devono fare i giovani se non arruolarsi nell’esercito?». Massimiliano replica così: «Io faccio il soldato per il mio Signore. Non posso fare il soldato per il mondo… Io sono cristiano e non posso fare del male». Ora, è evidente che sorgono molteplici e delicati problemi nel cercare una sintesi di fronte a esperienze così differenti, anche per i diversi contesti storico-culturali. Indicheremo solo qualche traiettoria di indole generale per una corretta ermeneutica teologica.

     Innanzitutto è da ribadire la qualità storica della Rivelazione ebraico-cristiana che nella Bibbia si presenta non come un’astratta sequenza di tesi teologiche speculative ma appunto come una «storia di salvezza». All’interno degli eventi umani, spesso segnati dal peccato, dall’ingiustizia, dalla violenza, dal male, passa la presenza e l’opera di Dio che progressivamente e pazientemente cerca di condurre l’umanità verso un livello più puro, giusto e pacifico di vita. Il vertice è in Cristo che proclama «beati gli operatori di pace» (Matteo 5,9), nello spirito dello shalôm, la «pace» messianica anticotestamentaria. La stessa tradizione giudaica successiva con rabbì Meir di Gher dichiarerà che «Dio non ha creato nulla di più bello della pace».

     In questa luce, proprio perché la Parola di Dio si esprime in parole umane, è necessario escludere ogni forma di fondamentalismo letteralistico che assume il testo in modo cieco, senza ricorrere a una corretta interpretazione per coglierne il senso genuino. Questo atteggiamento, purtroppo praticato in certi ambiti musulmani ma anche cristiani, conferma il monito paolino secondo il quale «la lettera uccide, mentre è lo Spirito che dà vita» (2Corinzi 3,6).

    Inoltre, come attesta una lunga serie di ricerche teologiche e filosofiche condotte nei secoli successivi, si annodano attorno al tema molte altre questioni significative e persino necessarie e di non facile soluzione, tenendo conto delle varie componenti che spesso confliggono tra loro e che costituiscono oggetto di dibattito e di dialettica. Pensiamo, ad esempio, alla legittima difesa, alla tutela del debole, alla protezione della propria identità culturale e religiosa contro l’oppressione, alla ribellione contro un regime dittatoriale e liberticida, alle recenti operazioni di “peacekeeping” e così via. Il magistero papale nel secolo scorso ha prodotto un ampio spettro di documenti magisteriali al riguardo, oltre a un impegno pastorale concreto delle varie Chiese, considerando e affrontando la complessità della geopolitica attuale.

     Certo è che permane, come spina nel fianco dei credenti, la forza unica del messaggio di Cristo sull’amore per il nemico (Matteo 5,43-44) che trasfigura l’hostis in hospes. San Paolo trasformerà l’equipaggiamento militare (cinturone, corazza, calzari, scudo, frecce, elmo e spada) in una metafora antitetica di virtù morali e spirituali (si legga Efesini 6,11-17), convinto che Cristo sia «la nostra pace» (2,14). Egli invia il cristiano a proclamare e propagare «il vangelo della pace» (6,15) in un mondo di lupi, come avvertiva già Gesù (Matteo 10,16).

(Fonte:  “Il Sole 24 Ore - Domenica” -22 giugno 2025)

martedì 24 giugno 2025

Festeggiare il Battista ascoltando Bach


Festeggiare il Battista ascoltando Bach

Intervista a Chiara Bertoglio*
a cura di Giordano Cavallari



Chiara Bertoglio ci propone oggi 24 giugno – nella festa della Natività di san Giovanni Battista – una lettura e l’ascolto della Cantata BWV 30 – Freue dich, erlöste Schar (Rallegrati, popolo salvato) – di Johann Sebastian Bach.

Cara Chiara, quali motivazioni abbiamo oggi di celebrare la nascita di san Giovanni Battista, magari con la musica di Bach?

Perché è una grande festa della tradizione cristiana, che tuttora avvicina e accomuna tutte le confessioni cristiane, nonostante, naturalmente, sussistano diverse considerazioni circa il culto dei santi. Giovanni Battista è, per tutti, una grande figura: è colui che indica Cristo!

Questa festa – come tutte le feste liturgiche – assomma in sé, oltre a motivazioni teologiche, anche quelle sociali e stagionali legate al ciclo naturale: soprannatura e natura. È la festa d’inizio dell’estate: dopo il solstizio del 21 giugno, l’illuminazione solare diminuisce sino al minimo del solstizio d’inverno da cui riprende a risalire, cioè sino al Natale di Nostro Signore Gesù Cristo, il «sole che sorge» (Lc 1,78).

Risulta chiaro il parallelo istituito già dai primi cristiani con la sacra Scrittura in mano, o in mente: Giovanni è colui che diminuisce, affinché la luce di Cristo sorga. «Bisogna che egli cresca, e che io diminuisca» (Gv 3,30). Mentre Gesù dice di Giovanni: «tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista», usando la stessa simbologia – cristologica – dell’astro che sorge. Tutta la storia della salvezza si è giovata e si giova della luce “calante” di Giovanni, perché crescesse e cresca quella di Cristo.

Bach ha composto e curato ben quattro Cantate per questa festa. Noti un suo particolare affetto per il Battista?

Il suo nome di battesimo era Johann. I membri dell’intera famiglia portavano come primo nome Johann. Penso a Giovanni Battista – più che all’Evangelista – perché la figura del Battista ha forti implicazioni col canto e con la musica. Il Battista è, tuttora, il patrono dei cantori. Ricordiamo che il Battista è «voce di uno che grida nel deserto» (Mc 1,3 e par.). Giovanni è la «voce», Cristo la «Parola».

La vita stessa di Giovanni il Battista, secondo i vangeli, è segnata da “eventi musicali”: nella prima menzione che abbiamo di lui nel vangelo di Luca, proprio Giovanni fa una capriola di danza e di gioia nel grembo della madre Elisabetta (Lc 1,41). Anche la vicenda del suo martirio è toccata dalla musica e dalla danza, laddove la sua testa, decapitata, è portata in premio per la danza di Salomè (Mc 6,17-29).

Interessante notare, poi, che, quando Gesù usa metafore musicali, sia citato il Battista: «vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto. È venuto Giovanni… e hanno detto: ha un demonio» (Mt 11,16-19).

La figura di san Giovanni Battista presenta altri, forse insospettati, intrecci con la storia della musica. Basti pensare che le sillabe iniziali con cui sono state indicate le note musicali dalla tradizione latina, provengono dai versi dell’inno Ut queant laxis che recitiamo oggi nell’ufficio delle letture:

Ut queant laxis/ Resonare fibris/ Mira gestorum/ Famuli tuorum/ Solve polluti/ Labii reatum/ Sancte Iohannes. Le note sono state associate alle sillabe con cui è stata attribuita loro una prima denominazione. La settima nota – “si” – è stata aggiunta utilizzando le iniziali di Sancte Iohannes. L’Ut della prima nota è stato sostituito dalla sillaba “do” in epoca rinascimentale, semplicemente per ragioni di praticità di pronuncia (perché è più facile pronunciare sillabe che iniziano con una consonante).

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Qual è la storia della Cantata BWV 30 per la festa della Natività del Battista?

La Cantata BWV 30 è stata eseguita per la prima volta, in ambito liturgico, nella Nikolaikirche di Lipsia, il 24 giugno del 1738. Appartiene, quindi, ad un periodo avanzato della vita di Bach e della sua produzione, ormai distanziato dal tempo, persino frenetico, delle sue composizioni per i grandi cicli liturgici realizzati nei primi anni ’20.

Nella Cantata sacra BWV 30, Bach si consente di riprendere la musica di una sua Cantata profana – oggi BWV 30 A – per trasformarla in Cantata sacra, con testo sacro, utilizzando la tecnica della parafrasi o della parodia.

Come ho già avuto modo di dire qui a proposito di altre e famose composizioni bachiane, la parodia, con passaggio dal profano al sacro – ovvero dal sacro al profano (meno frequentemente) – non è affatto un’operazione che si possa connotare in maniera sconveniente, di scarsa originalità e pregio, anzi l’imitatio dei modelli meglio riusciti era e resta una facoltà propria del genio artistico.

Consideriamo, poi, che stiamo parlando di musica ancora lontana dall’era della “riproducibilità tecnica”: eseguire musica già prodotta in altre circostanze era l’unico modo per perpetuarla nel tempo.

Benché, dunque la BWV 30 possa essere considerata una parodia della BWV 30 A – ossia con la stessa musica ma con un altro testo – non manca di profonda aderenza tra musica e testo, specie in alcuni brani, oltre che recare l’impronta, sempre geniale, di Bach.

Cosa dire del testo?

Probabilmente, l’autore del testo è da individuare, al solito, in Christian Friedrich Henrici, conosciuto come Picander, il librettista – lui stesso musicista – di cui Bach nutriva grande stima. Ma, come sempre, dobbiamo ipotizzare un materiale testuale composito e preesistente, rielaborato già da più menti, cuori e mani.

Il Corale centrale (n. 6) – che giustifica, col suo testo, l’attribuzione alla festività di Giovanni il Battista – appartiene alla tradizione della Chiesa luterana, anche se non è molto noto ed eseguito a tutt’oggi. Inizia con le parole «Eine Stimme lässt sich hören…», Una voce si ode alta e forte nel deserto: la dimensione “vocale” del Battista appare lì molto evidente.

Il testo del Coro iniziale (n. 1) – «Freue dich, erlöste Schar», Rallegrati popolo salvato – invita i fedeli, indubitabilmente, a gioire, quale che sia la condizione di vita.

Nei Recitativi e nelle Arie successive non si coglie, per la verità, sempre una grande attinenza con la festività liturgica in atto, quindi con la figura del Battista: i temi di fondo sono sempre i grandi temi della salvezza in Cristo.

Tuttavia, nel testo dell’Aria del Basso (n. 3) si parla del fedele servitore che prepara le vie del Signore. Nel recitativo del Contralto (n. 4) si manifesta l’araldo che annuncia il Re e che esorta il cammino verso di Lui. Nel testo dell’aria del Contralto (n. 5) riecheggia l’imperativo della conversione, tipico del Battista: venite peccatori. Nelle parole del Recitativo del Basso, che apre la seconda parte (n. 7), si allude a Giovanni – quale ultimo dei profeti anticotestamentari e primo del Nuovo Testamento – attraverso il patto con i padri, con richiami, quindi, al Benedictus e al Magnificat. Nel contenuto nell’Aria del Soprano (al n. 10) si fa più pressante, verso la fine, l’appello ad affrettarsi alle dimore di Kedar presso il Signore, nell’unione tanto desiderata: dalla morte alla vita; il riferimento alla vita di Giovanni è implicito.

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Come Bach mette in musica – che si tratti di una parodia o meno – questo testo?

Ascoltiamo il primo coro (qui). Ci trasmette energia, vitalità, gioia, è un’esplosione di gioia. L’effetto viene dal ritmo sincopato che, di per sé, porta un moto istintivo, uno slancio verso qualcosa o verso Qualcuno. Poi assume, per certi versi, la forma di una danza da festa campestre – tipo Rondò – rivelando così, forse, l’origine profana della Cantata, ovvero quella profonda compenetrazione che c’è sempre tra il sacro e il profano, tra la natura e la soprannatura.

La prima aria del Basso (n. 3) è notevole per la sua facoltà musicale di sottolineare le parole chiave del testo: «Gelobet sein Name», Sia lodato il suo nome; o del «Weg», la via del Signore. Queste parole ricevono un trattamento musicale molto importante (qui), straordinario per un brano di cui si ipotizza che sia stata pensata prima la musica e poi il testo.

L’Aria del Contralto (n. 5) è una creazione unica: una sorta di illusione acustica per l’ascoltatore, che non può che rimanere stupefatto di fronte ad armonie inattese, per certi versi rivoluzionarie, di una bellezza sempre attuale (qui).

Bach ci coinvolge in una dolce danza alla gavotta: così come, in altri brani, vuole esprimere la dolce aspirazione dell’anima a Dio. L’effetto timbrico degli strumenti che anticipano, accompagnano e seguono la voce di Contralto è notevole.

L’Aria del Basso della seconda parte (n. 8) presenta un altro ritmo di danza, tipico delle danze scozzesi: non sappiamo se Bach conoscesse il folklore scozzese, sta di fatto che è una musica in grado di conferire al brano un effetto di trasporto, di determinazione “credente” sull’ascoltatore (qui).

L’Aria del Soprano (n. 10, qui) pone davvero il dubbio se sia vero che la Cantata profana ha preceduto quella sacra, tanta è l’aderenza della musica al testo e tanto esalta il desiderio di “unione mistica” che ritroviamo anche in tanti altri pezzi-capolavoro di Bach.

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Chiara, perché suggerire ai lettori di ascoltare, per intero, questa Cantata, oggi, nella Natività di San Giovanni Battista, anche nella Chiesa cattolica?

Perché è in grado di darci il senso della solennità e della festa, anche se siamo in giorno feriale come tanti altri. È una festa molto importante per i cristiani quella dedicata al Battista: è una figura della fede.

24 giugno 2025: come ascoltare la divina musica di Bach – con le parole iniziali e finali: Rallegrati popolo salvato… il tempo della tua felicità non avrà mai fine – mentre scorrono davanti ai nostri occhi, a profusione, parole e immagini di distruzione e di morte?

San Giovanni Battista è il primo ad annunciare il Vangelo, ossia la buona notizia: «Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29). Questa è la buona notizia per eccellenza, quella che consente di vivere tutte le notizie del mondo – comprese quelle brutte e molto brutte – con un sentimento intimo e profondo di consolazione, di gioia, di speranza.

Proprio nel momento in cui stiamo in questa disdetta – come perdenti –, ci sentiamo accarezzati dalla misericordia di Dio, assolti e liberati dal peccato del mondo – fatto di egoismo e di aggressività – che alberga anche dentro di noi; proiettati, quindi, in una prospettiva escatologica nella quale le cose del mondo e della storia, senza allontanarci dalle stesse, sono altrimenti illuminate.


Per l’ascolto integrale della Cantata qui; il testo qui.
(fonte: Settimana News  24 giugno 2025)

*Chiara Bertoglio (Torino, 1983), è concertista e docente di pianoforte, musicologa e teologa. Diplomata in pianoforte al Conservatorio di Torino, laureata in musicologia a Venezia e in teologia a Nottingham, ha un PhD in Music Performance Practice dell’Università di Birmingham.
Autrice di numerose monografie specialistiche, di cui alcune vincitrici di premi internazionali, in italiano e in inglese (fra cui Reforming Music: De Gruyter, 2017; ed. it. Claudiana 2020), incide CD per Da Vinci Classics, in particolare legati al progetto “Bach e l’Italia”.
È cofondatrice della Società Bachiana Italiana (JSBach.it) e membro del gruppo “Inkiostri”.
È titolare della cattedra di Pianoforte Principale presso il Conservatorio di Cuneo e docente di teologia della musica presso le facoltà teologiche di Torino, Bologna e Firenze.
È giornalista pubblicista e scrive per quotidiani e riviste italiani e per riviste online in lingua inglese.

Don Mimmo Battaglia, arcivescovo di Napoli "Corpus Domini: pane che ha il sapore della pace, e l’odore primaverile della resurrezione! Tutti abbiamo bisogno di nutrirci di questo pane... Corpus Domini, corpus hominis."

Don Mimmo Battaglia, arcivescovo di Napoli
"Corpus Domini: pane che ha il sapore della pace,
e l’odore primaverile della resurrezione!
Tutti abbiamo bisogno di nutrirci di questo pane... 
Corpus Domini, corpus hominis"


SOLENNITÀ DEL SS. CORPO E SANGUE DI CRISTO 
Piazza Mercato, 22 giugno 2025

Sorelle e fratelli, oggi, nella solennità del Corpus Domini, ci ritroviamo a fare memoria del Corpo del Signore, a camminare con Lui, proprio mentre anche il corpo dell’umanità è attraversato dal deserto della guerra e della violenza. 
Le notizie di queste ore non ci lasciano indifferenti. Viviamo un tempo dilaniato dall’escalation in Medio Oriente, lacerato da quella “guerra mondiale a pezzi” di cui per anni ci ha parlato Papa Francesco. E in questo tempo, che sembra incapace di trovare vie di pace, ci raccogliamo attorno all’Eucaristia anche per implorare quel dono della pace disarmata e disarmante, che Papa Leone ci ha indicato come il primo vero dono del Risorto. Dono che in questo tempo la Chiesa, anche la nostra Chiesa di Napoli, deve custodire, invocare, donare, senza riserve, senza timore. 

In questo tempo così difficile anche noi, come i discepoli, sperimentiamo la solitudine, lo smarrimento, la fame. E mentre siamo ancora nel deserto, arriva anche la sera. La sera della stanchezza. Come quella dei Dodici. Per loro, come per noi, stare dietro a Gesù è impegnativo. Vorrebbero probabilmente non solo riposarsi e mangiare, ma anche vivere finalmente un tempo di intimità con il Maestro. È comprensibile che pensino alla loro stanchezza, ma colpisce che non sentano la compassione per la stanchezza degli altri. Vedono la stanchezza della folla, ma non la sentono come un loro problema. Non ritengono che sia un loro compito. Comprendono che la gente ha bisogno di cercare da mangiare e per questo chiedono a Gesù di mettere le persone in condizione di andare a trovare “altrove” una risposta alla loro fame. Non vedono una relazione tra l’insegnamento di Gesù e il problema concreto della fame della gente. Che non è solo fame di pane, è fame di senso, è fame di amore. Le parole di Gesù sono forse per loro solo consolatorie, un incoraggiamento, un sostegno, ma poi effettivamente la vita va vissuta altrove con i suoi problemi. Ma Gesù non manda via nessuno. E condividendo la fame dell’uomo, condivide il volto del Padre. I Dodici sono ancora all’interno di una logica mondana, quella del comprare. Forse non si accorgono del verbo differente usato da Gesù, il quale li invita a dare. I Dodici hanno tutto quello che serve, ma non se ne accorgono: cinque pani e due pesci, cioè sette elementi! La pienezza, eppure pensano che la gente debba andare a cercare altrove quello di cui ha bisogno. Non hanno compreso, o non credono ancora, che Gesù è la risposta alla fame della gente. 

«Fateli sedere a gruppi», create mense comuni, comunità dove ognuno possa ascoltare la fame dell’altro, e faccia circolare il pane e il tempo che avrà fra le mani. Metteteli in relazione, che facciano casa. La condivisione dei pani e dei pesci inizia con una richiesta illogica di Gesù ai suoi: date loro voi stessi da mangiare. La sorpresa di quella sera è che la fine della fame non sta nel mangiare a sazietà, da solo, il tuo pane, ma nel dividere con gli altri il poco che hai, il bicchiere d’acqua fresca, un po’ di tempo e un po’ di cuore. Gesù avanza questa pretesa irragionevole e profetica per dire a noi, alla Chiesa, di seguire la voce della profezia e non quella della ragione. Tutti mangiarono a sazietà. Quel «tutti» è importante. Sono bambini, donne, uomini. Sono santi e peccatori, sinceri o bugiardi, nessuno è escluso. È volontà di Dio che anche la sua Chiesa sia così: capace di guarire, dare, saziare, accogliere, capace come gli apostoli di mettere in comune quello che ha, fosse anche la sua povertà. Perché è solo nella condivisione che il pane diventa benedizione, sempre (alzò gli occhi al cielo, lo benedisse, e lo spezzò). I pani e i pesci non sono moltiplicati (come di solito si usa dire), ma vengono distribuiti. Condivisi. Il miracolo vero sta nella condivisione. 

Da questa condivisione, da questa logica nuova, nasce il popolo nuovo di Dio: un popolo che si riconosce attorno a un pane spezzato, non solo da adorare, ma da accogliere, da condividere, da vivere. Oggi questo Vangelo risuona come un appello forte alla Chiesa, a ciascuna delle nostre comunità, a ciascuno di noi: come stiamo condividendo il pane che Gesù mette nelle nostre mani? E ancora: quali fame ci abitano davvero? Non solo quella del corpo, ma anche la fame esistenziale, quella che risuona come una perenne insoddisfazione, quella dello spirito assetato di senso, quella del cuore affamato di amore e di cura. 

Sorelle e fratelli, la festa del Corpus Domini è anche un appello personale e profondo a interrogarci sui luoghi in cui andiamo a cercare risposta alla nostra fame, soprattutto quando attraversiamo i deserti della vita, quando il buio ci sorprende prima ancora di aver trovato una via. Ed è lì, proprio lì, che siamo chiamati ad avere fiducia nel nutrimento di Dio, a lasciarci raggiungere dal suo pane, che non solo sazia, ma salva. Un pane che consola senza anestetizzare, che sostiene senza illudere, che accompagna mentre insegna a camminare. Un pane che ha il sapore della pace, e l’odore primaverile della resurrezione! 

Tutti abbiamo bisogno di nutrirci di questo pane, di questa mensa che ci accoglie anche quando ci sentiamo scomodi. E poi, nutriti, ciascuno può diventare sosta che ospita lacrime e sorrisi, che allarga e allenta il respiro, che rinfranca passi di speranza. 

Il «pane vivo, disceso dal cielo» è il sacramento della memoria che ci ricorda, in modo reale e tangibile, la storia d’amore di Dio per noi. Non è una memoria astratta, ma la memoria vivente e consolante della Sua tenerezza. Nell’Eucaristia c’è tutto il gusto delle parole e dei gesti di Gesù, il sapore della sua Pasqua, la fragranza del suo Spirito. Ricevendola, si imprime nel nostro cuore la certezza di essere amati da Lui. Non possiamo fare a meno dell’Eucarestia, perché è “il memoriale di Dio” che guarisce la nostra vita. Penso alla vita di tanti segnata “da mancanze di affetto e da delusioni cocenti, ricevute da chi avrebbe dovuto dare amore e invece ha reso orfano il cuore”, e Gesù guarisce “immettendo nel nostro cuore un amore più grande: il suo”. E se davvero lo accogliamo, l’amore di Gesù “che ha trasformato un sepolcro da punto di arrivo a punto di partenza, allo stesso modo può ribaltare le nostre vite”. 

Questo pane è forza, è coraggio, è vita. È amore. E solo l’amore guarisce alla radice la paura e libera dalle chiusure che imprigionano”. Nell’Eucaristia si afferra il “qui e ora” per farne già l’aldilà. L’Eucarestia è la forza che trasforma la notte in giorno, il tradimento in dono d’amore, Giuda in Giovanni. L’Eucarestia non è dolciastra, ma è vera quanto più è drammatica: non è quella celebrata con il pane degli angeli ed astrattamente incensata, ma l’Eucarestia più vera è quella che coinvolge le tue lacrime, le tue fatiche, i tuoi dolori, i tuoi drammi. Spezzare il pane e riceverne un pezzo, riempire il calice e berne un sorso, è spezzare la solitudine, è bere la solidarietà, è accrescere la fraternità, una fraternità universale. Che nasce dal cuore di Dio, nostra vita, nostro amore! 

L’Eucaristia infatti ci ricorda anche che non siamo individui, ma un corpo. L’Eucaristia non è un sacramento “per me”, è il sacramento di molti che formano un solo corpo. L’Eucaristia è il sacramento dell’unità. Chi la accoglie non può che essere artefice di unità. Unità interiore, unità con gli altri. Uno con il Corpo del Signore, unito alle mie sorelle e ai miei fratelli con cui formo un solo corpo: 

Corpus Domini, corpus hominis. 
Corpo del Signore, corpo dell’uomo. 
Non posso inginocchiarmi davanti all’uno 
senza inchinarmi davanti all’altro. 

Corpus Domini, corpus hominis. 
Corpo spezzato sull’altare, 
corpo spezzato nei campi di battaglia, 
nelle case dove il silenzio urla, 
nelle strade dove la povertà veste volti dimenticati. 
Tu Signore ci hai dato il tuo Corpo 
perché imparassimo a riconoscere e riparare il nostro corpo, 
il nostro cuore e quello di chi ci cammina accanto. 

Corpus Domini, corpus hominis. 
Corpo offerto per amore, 
che nutre la speranza e disseta la sete di senso. 
Corpo di donne violate, 
di bambini dimenticati, 
di uomini abbandonati, 
di anziani lasciati soli. 
Ogni corpo che geme è un tabernacolo ferito. 

Corpus Domini, corpus hominis. 
Nel tuo Corpo c’è la mia salvezza. 
Nel corpo dell’altro, la mia conversione. 
Nel pane che spezzo, l’invito a servire. 
Nel fratello e nella sorella che soffrono, l’invito ad amare. 
Nel mistero dell’Eucaristia, la forza di tornare sulla strada. 

Corpus Domini, corpus hominis. 
Facci degni, Signore, 
di adorare Te e di abbracciare l’altro. 
Facci degni di inginocchiarci dinanzi al tuo amore,
e di alzarci per portarlo dove il dolore ha fatto casa 
e dove la Pace chiede di essere seminata a piene mani 
e costruita con coraggio, con pazienza. 

Corpus Domini, corpus hominis. 
Perché senza l’uomo, l’Eucaristia resta incompiuta. 
Perché senza la tua Carne, 
non so più chi sono 
e non so più essere carne per il mondo. 

Corpus Domini, corpus hominis. 
Fino a quando sarai tutto in tutti. 
E tutti saremo in te un Corpo solo. 
Una sola Pace, un solo Amore. 
Per sempre. 
Amen.

Difesa o suicidio della democrazia? Il conflitto di Israele a Gaza e in Iran di Giuseppe Savagnone

Difesa o suicidio della democrazia? 
Il conflitto di Israele a Gaza e in Iran 
di Giuseppe Savagnone


L’attacco di Israele nei confronti dell’Iran è stato considerato da tutti i Governi occidentali e dalla grande maggioranza dell’opinione pubblica e della stampa un prezzo necessario per la difesa – non solo dello Stato ebraico, ma delle nostre democrazie – dall’imminente minaccia atomica di un regime autoritario e terrorista.

Da qui reazioni che vanno dai toni più estremi della nostra stampa di destra – «Finalmente! L’Iran delle belve sta per cadere» (Libero), – a quelli crudamente realistici del cancelliere tedesco Mertz, che ha definito l’operazione militare «il lavoro sporco che Israele fa per tutti noi».

Il duplice obiettivo della guerra di Israele

In realtà, fin dall’inizio, all’obiettivo di fermare il programma nucleare dell’Iran Netanyahu ne ha collegato un altro, quello della caduta del Governo degli ayatollah e del cambio di regime (regime change), rivolgendo un appello in questo senso al popolo iraniano.

Si spiegano così, oltre il bombardamento dei siti nucleari, la strategia di sistematica decapitazione dei vertici politici e militari di Teheran e le parole minacciose e sprezzanti del ministro della Difesa israeliano Israel Katz nei confronti del presidente iraniano Khamenei: «Avverto il dittatore iraniano: chiunque segua le orme di Saddam Hussein finirà come Saddam Hussein». Un riferimento all’impiccagione del capo dello Stato iracheno, dopo la sua sconfitta nella guerra del Golfo del 2003, che va certo molto al di là dell’obiettivo limitato della pura e semplice neutralizzazione dell’arma atomica, aprendo piuttosto gli scenari di una guerra totale.

Su questa linea, anche il presidente Trump ha rivolto a Teheran la sua richiesta, che non è stata di trattare sul nucleare ma, come ha scritto il capo della Casa Bianca a lettere cubitali sul suo sito, la «resa incondizionata». E suonano altrettanto violente di quelle di Katz le sue parole riguardo a Khamenei: «Sappiamo esattamente dove si nasconde il cosiddetto “Leader Supremo”» – ha scritto sui social –. «È un bersaglio facile, ma lì è al sicuro. Non lo elimineremo, almeno non per ora. Ma (…) la nostra pazienza sta finendo».

Diversa la posizione dell’Unione Europea che, pur aderendo senza riserve alla guerra di Israele, ha espressamente preso le distanze dal progetto del regime change, sottolineando piuttosto la necessità di una de-escalation che porti di nuovo l’attuale Governo iraniano al tavolo dei negoziati con gli USA. «Qualsiasi tentativo di cambiare il regime porterebbe al caos», ha avvertito il presidente francese Macron.

Agli antipodi delle democrazie occidentali

Non che il regime iraniano sia visto, in Occidente, di buon occhio. Su di esso gravano le fondate accuse di dissidenti interni e osservatori esterni, che da tempo ormai denunziano la sistematica repressione delle libertà civili e politiche, con particolare riferimento alle limitazioni imposte alle donne, sulla base di una applicazione rigida della legge islamica.

Siamo davanti a un fanatismo religioso che mescola senza distinzione le prescrizioni del Corano e le regole della convivenza civile e che sta all’origine stessa dell’assetto attuale dell’Iran, nato da una rivolta, nel 1979, contro il Governo laico dello Scià, culminata con l’ascesa al potere dell’ayatollah Ruhollah Khomeini, di cui l’attuale presidente è il successore.

Siamo lontanissimi dalla distinzione tra Stato e Chiesa a cui, pur senza rispettarla sempre di fatto, si è comunque ispirata, in linea di principio, la civiltà occidentale, alle cui radici spirituali non c’è un fondatore al tempo stesso religioso e politico, guida spirituale e condottiero di eserciti, come Mohamad, ma la figura di quel profeta disarmato che è stato Gesù.

Da qui la difficoltà di reciproca comprensione tra i paesi più fortemente legati alla loro matrice religiosa islamica – in realtà non solo l’Iran, ma anche un fedele alleato dell’Occidente come l’Arabia Saudita – e quelli eredi della tradizione cristiana, peraltro ormai, a sua volta, largamente secolarizzata. Da qui anche la critica a quella che, nella prospettiva occidentale, appare una chiara violazione dei diritti umani.

Si aggiunga a questa divergenza di fondo il fatto che l’Iran è l’ispiratore e il finanziatore di gruppi islamici estremisti come Hezbollah e Hamas e sta dietro ad atti terroristici contro Israele e contro l’Occidente. A questo titolo rientra nella lista degli «Stati-canaglia» stilato dal Governo americano. Quanto basta a spiegare la soddisfazione con cui molti Governi hanno accolto l’attacco di Tel Aviv, pur senza aderire, come gli Stati Uniti, all’idea della guerra totale e del regime change.

L’Occidente e le sue contraddizioni

Eppure, già a questo livello minimale, il conflitto esploso in questi giorni li ha spiazzati e costretti a significative modifiche del loro linguaggio e del loro atteggiamento.

Si pensi al principio, solennemente enunciato e ripetuto ad ogni occasione – prima per la guerra in Ucraina, poi per quella di Gaza –, secondo cui «non possibile mettere sullo stesso piano l’aggressore e l’aggredito». È stato in forza di questo mantra indiscutibile che l’Occidente ha sostenuto compatto (fino all’avvento di Trump) l’impostazione data da Zelensky alla guerra con la Russia, escludente a priori ogni negoziato fin quando l’aggressore non si fosse ritirato. Ed è stato ancora più nettamente questo il principio che ha giustificato il pieno appoggio a Israele, per un anno e mezzo, chiudendo gli occhi sui metodi dell’esercito di Tel Aviv, in nome dello slogan «Israele ha il diritto di difendersi» e della giustificazione: «Non sono stati loro a cominciare».

Ogni tentativo, anche da parte di autorevoli personalità, come il segretario generale dell’ONU, Guterres, di far notare che nella complessità del corso degli eventi il confine tra l’aggressore e l’aggredito non è così netto, e che bisogna tenere conto anche del contesto, ha suscitato fino ad ora reazioni indignate da parte di politici e opinionisti infervorati nella difesa «a priori» dell’aggredito.

L’attacco di Israele all’Iran ha costretto, su questo punto, a cambiare precipitosamente linea. In questo caso, è diventato essenziale, per giustificare l’appoggio a questa aggressione, il richiamo al contesto e guardare a ciò che è accaduto prima del 13 giugno e che ne chiarisce il significato. Solo che, se si adotta questo criterio, bisogna retroattivamente dar ragione a Guterres, quando, nel suo discorso all’ONU del 24 ottobre 2023, dopo aver deprecato la ferocia del massacro del 7 ottobre, aveva fatto presente che «gli attacchi di Hamas non sono avvenuti nel vuoto. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione».

E avrebbe anche potuto ricordare il dramma della Nakba, l’espulsione di almeno 300.000 palestinesi (secondo la stima moderata dello storico ebreo israeliano Ben Morris) dalle loro terre. Ma già è bastato questo accenno al contesto per far infuriare il rappresentante israeliano e indignare gli opinionisti di tutto l’Occidente («Un’enormità», aveva definito le sue parole il nostro Paolo Mieli). E il 7 ottobre è diventato l’inizio di tutto, mentre il 13 giugno va considerato “nel suo contesto”.
Anche la condanna unanime e indiscussa del terrorismo, come azione violenta contro singoli, anche civili, senza alcuna legittimazione giuridica, entra in crisi.

Nell’attacco all’Iran il Mossad ha ucciso, oltre a capi militari e politici, anche 14 scienziati – fisici e ingegneri – con attentati che li hanno fatti saltare in aria insieme alle loro famiglie. Cosa penseremmo se dei servizi segreti stranieri facessero questo nei confronti degli scienziati – ma anche dei politici e dei capi militari – responsabili solo di lavorare al servizio del nostro Paese? Uccidendo anche le loro mogli e i loro figli innocenti? Probabilmente è anche a questo che si riferisce il cancelliere tedesco quando parla di un «lavoro sporco che Israele fa per tutti noi». Ma saremo ancora noi stessi avallando il terrorismo che giustamente condanniamo quando ne sono responsabili gli altri?

Ma c’era davvero la minaccia?

Il fatto è – si è risposto finora – che la minaccia atomica iraniana è un pericolo così grave, per Israele e per tutti, da giustificare anche questi compromessi. Ma esiste davvero questa minaccia? La domanda potrebbe sembrare provocatoria, se non fosse posta, in questi giorni, dal New York Times e dalla CNN che, a proposito della possibile entrata in guerra degli Stati Uniti, hanno evocato lo spettro della guerra del Golfo del 2003, scatenata da George Bush jr sulla base di false prove che l’Iraq disponeva di «armi di distruzione di massa».

Richiamando quella bufala, i giornalisti americani riferiscono che nel mese di marzo la direttrice dell’Intelligence nazionale nominata dallo stesso Trump, Tulsi Gabbard, ha testimoniato davanti al Congresso che, secondo la comunità di intelligence statunitense, l’Iran non sta affatto costruendo un’arma nucleare.

Gabbard ha a questo proposito sottolineato che, secondo le informazioni raccolte dagli 007 americani, «la Guida Suprema Khamenei non ha autorizzato la ripresa di un programma di armi nucleari, sospeso nel 2003».

Da parte sua, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA), che aveva pubblicato il 12 giugno un rapporto nel quale dichiarava che l’Iran «ha violato i propri obblighi di fornire all’AIEA una cooperazione completa e tempestiva in merito al materiale nucleare non dichiarato e alle attività in più siti non dichiarati in Iran», ha precisato ora, per bocca del suo direttore Rafael Grossi, che questo non implicava un riferimento alla costruzione di una bomba: «Non avevamo alcuna prova di uno sforzo sistematico (dell’Iran) per arrivare a dotarsi di un’arma nucleare».

Chiamati a una scelta

E allora? In base a che cosa tutto questo sta accadendo, con i suoi immensi costi umani, morali, politici, economici? La risposta è semplice: in base alla parola di Netanyahu, il solo rimasto a garantire che l’Iran è sul punto di dotarsi di un’arma nucleare.

Solo che, se si crede a Netanyahu, in questi diciotto mesi l’esercito israeliano ha rigorosamente rispettato i diritti umani dei palestinesi, sia a Gaza che in Cisgiordania, e le denunzie rivolte non solo dalla Corte Penale Internazionale, ma ormai anche da Governi che pure sono alleati di Israele, sono il frutto di una indegna «crociata antisemita».

È difficile, a questo punto, scacciare il sospetto che l’improvviso attacco di Israele all’Iran, più che alla minaccia nucleare, sia stato deciso per stornare l’attenzione internazionale dalle violenze quotidiane sempre più gratuite e inaccettabili contro l’innocente popolazione palestinese, ricompattando in difesa dello Stato ebraico i Governi che, come quello inglese, stavano ormai cominciando a varare sanzioni nei confronti dei ministri ultra-ortodossi di Tel Aviv.

Disegno, peraltro, coronato da successo, se è vero che i massacri a Gaza sono sempre più sanguinosi, ma l’opinione pubblica mondiale è polarizzata sulle «belve iraniane».

Quali che siano le colpe del regime di Teheran, in questo momento in gioco sono le nostre democrazie che le hanno sempre giustamente denunziate. Siamo noi, l’opinione pubblica e i Governi occidentali, a dover decidere se seguire Israele in questa corsa verso il suicidio della democrazia – sempre più sganciata dai valori di verità e di giustizia che la rendono tale –, oppure avere il coraggio di prenderne le distanze e dire, con forza, il nostro «basta!».

(Fonte: Rubrica TUTTAVIA - 20 giugno 2025)

lunedì 23 giugno 2025

Dal 19 al 22 luglio in presenza e in diretta online - LECTIO DIVINA PRIMO E SECONDO LIBRO DEI RE p. Pino Stancari sj

Dal 19 al 22 luglio
in presenza e in diretta online
LECTIO DIVINA PRIMO
E SECONDO LIBRO DEI RE
p. Pino Stancari sj


promossa dalla
FRATERNITÀ CARMELITANA
DI BARCELLONA POZZO DI GOTTO (ME)


Carissime/mi.
Quest’anno la Settimana Biblica con l’amico p. Pino Stancari ritorna nel mese di Luglio. 
Come ormai è stile della nostra fraternità, l’ospitalità è gratuita. 

La partecipazione agli incontri prevede:
 - la modalità in presenza, per gli ospiti che risiedono nel convento e per quelli del luogo; 
- la modalità in diretta online, per coloro – sia dei fuori-sede sia del luogo – che non possono essere presenti. 

Gli incontri si tengono nella sala del convento. 

Agli ospiti che risiedono nel convento, ricordiamo di portare la Bibbia, le lenzuola, gli asciugamani e gli effetti personali. 

Per seguire la diretta online, ecco il link della piattaforma “ZOOM” cui collegarsi: https://us02web.zoom.us/j/82795163653?pwd=37XK54dKjPPGnvrXIs3CT6i4CtFape.1 
oppure: 

Per seguire la diretta su YOUTUBE cliccare su questo link: 
https://m.youtube.com/user/QdV100/live 
Queste due possibilità sono date anche per poter seguire la diretta nel caso vi siano problemi di bassa connessione: se vedete che su zoom non appare nulla, passate su youtube, e viceversa. 
Per collegarsi alla diretta, tenere presente che gli incontri delle lectio con p. Pino saranno nei giorni dal 19 al 22 luglio: 
- al mattino: h. 9.00 (h. 10.00 solo per domenica 20 luglio) - 11.30 (prevista la pausa); 
- al pomeriggio: h. 16.00-18.30 (prevista la pausa). 

Per ulteriori informazioni: tel 090 9762800.


FRATERNITÀ CARMELITANA DI BARCELLONA POZZO DI GOTTO