Educare alla pace è un atto di resistenza rivoluzionario
L’urgenza di attingere alle ragioni di una cultura di pace per rispondere alla “globalizzazione dell’impotenza” di fronte all’egemonia della guerra. Intervista a Oliviero Bettinelli sul percorso a Roma di una scuola di pace nata dal basso grazie a don Luigi Di Liegro e Massimo Paolicelli

Marcia pace Perugia Assisi. Archivio ANSA/MATTEO CROCCHIONI
«Atto di resistenza rivoluzionario». Non usa concetti astratti il presidente della Cei, cardinal Matteo Zuppi, per indicare la necessità di promuovere in ogni comunità la formazione alla pace che non è, come ha precisato Leone XIV, «un’utopia spirituale», ma la più concreta delle urgenze davanti all’egemonia della cultura della guerra basata come ha detto il papa sulla «globalizzazione dell’impotenza che è figlia di una menzogna: che la storia sia sempre andata così, che la storia sia scritta dai vincitori. Allora sembra che noi non possiamo nulla. Invece no: la storia è devastata dai prepotenti, ma è salvata dagli umili, dai giusti, dai martiri, nei quali il bene risplende e l’autentica umanità resiste e si rinnova».
Si comprendono quindi le ragioni che hanno spinto Caritas italiana e l’ufficio della pastorale sociale della Cei a promuovere dal primo al 3 settembre un seminario di approfondimento su “Educare alla pace in tempo di guerra” in cui è stata presentata, tra gli altri interventi, l’esperienza pluriennale della scuola di pace promossa a Roma per iniziativa della Caritas. Ne abbiamo parlato con Oliviero Bettinelli, a lungo referente del settore pace e mondialità della Caritas di Roma e ora vicedirettore della pastorale sociale della grande diocesi capitolina.
Come è nato il settore “Educazione alla Pace e alla Mondialità” della Caritas di Roma?
![]() |
Archivio Scuola di pace Roma |
Qual era la filosofia alla base dei corsi di formazione offerti?
![]() |
Massimo Paolicelli. Foto Archivio |
Quali sono stati i filoni principali su cui si è sviluppato il lavoro del settore?
Il lavoro del settore si è sviluppato su quattro linee orientative: informazione, animazione, formazione e una progettazione in grado di “attivare processi” come ci ha poi raccomandato papa Francesco.
- Informazione: attraverso la creazione di un centro di documentazione intitolato a don Lorenzo Milani e la pubblicazione di un bollettino mensile, “Operatori di Pace”, che fungeva da foglio di collegamento e da veicolo di idee e proposte.
- Animazione: tramite il collegamento con le esperienze all’estero, dal Nicaragua allo Sri Lanka , e il sostegno con “Natale in libreria” alle richieste che nascevano dall’incontro dai paese coinvolti nel nostro lavoro, la partecipazione a marce e manifestazioni per la pace, la creazione di esperienze come la “Summer school” itinerante che toccava luoghi significativi della città,
- Formazione: con “Orizzonti e Confini”, che prevedeva viaggi di incontro e conoscenza (in Bosnia, Turchia, Ruanda, Grecia ) e la proposta di Scuole di educazione alla pace, rivolte in particolare agli obiettori di coscienza ma aperta a tutti coloro che ne fossero intestanti.
- Progettazione/Attivazione di Processi: l’obiettivo non era solo realizzare progetti, ma avviare veri e propri processi di cambiamento e riflessione. Gli obiettori di coscienza erano considerati come persone attive del processo diocesano e non solo perché presenti nei servizi Caritas ma offrendo loro un percorso di crescita e coinvolgendoli attivamente in tutte le iniziative. Erano i destinatari privilegiati della formazione, con l’idea che potessero contaminare le attività di animazione successive. Nonostante le poche risorse economiche a disposizione contribuirono autonomamente alla creazione del centro di documentazione.

don Luigi Di Liegro – Una foto d’archivio di Mons. Luigi Di Liegro, direttore della
Caritas romana, durante una manifestazione in piazza San Pietro. ANSA/CD
Che importanza hanno avuto le figure di don Luigi Di Liegro e di Massimo Paolicelli per il settore?
Don Luigi ha fornito un supporto costante e ampio al settore, difendendo e tutelando chi vi lavorava, anche in situazioni delicate come quella dell’obiezione fiscale. La sua semplicità e chiarezza di visione (“Se le cose si fanno per i poveri vanno bene, se non si fanno per i poveri non vanno bene”) hanno guidato l’operato del gruppo. Massimo Paolicelli, amico e collaboratore, è stato una figura “ricca di umanità, intelligenza lucidità e profondità”. Era l’animatore del bollettino “Operatori di Pace” e di tutte le iniziative che tendevano a creare una dialettica costruttiva tra i mondi della pace e il mondo delle armi rimanendo sempre un punto di riferimento fondamentale per la sua tenacia nonviolenta la sua incisività. Entrambe le figure hanno contribuito a creare un ambiente di fiducia, autonomia e competenza.
Come è stata gestita la sfida di lavorare in un contesto complesso come la Bosnia?
![]() |
Oliviero Bettinelli a Mostar in Bosnia ed Erzegovina |
Il progetto “Orizzonti e Confini” in Bosnia era un’esperienza di incontro e conoscenza, non un semplice campo di lavoro, proprio per la complessità del contesto. La Bosnia era considerata un “laboratorio molto vivace” riguardo a concetti come nazionalismo, fanatismo religioso ed ecumenismo. La formazione del settore si concentrava sulla differenza tra conflitto e guerra, riconoscendo che il conflitto esiste e va gestito, non necessariamente vinto. Questo approccio era fondamentale per operare in una realtà segnata da intolleranze, dove gli accordi di pace (come quelli di Dayton) non avevano risolto le complesse problematiche esistenti.
Qual è il messaggio chiave che emerge da questo percorso?
“Non svendere” valori fondanti come la pace, il multiculturalismo e l’accoglienza, la giustizia sociale, la nonviolenza Questi valori non vanno negoziati, ma ragionati, progettati e vissuti con determinazione. C’è sempre stata la voglia coraggiosa a “esporsi”, “rischiare” e come sottolineava Gramsci, di “odiare gli indifferenti”. L’obiettivo è sempre quello di mettere in moto “teste pensanti” dotate di strumenti per leggere le situazioni attraverso l’esperienza, lo studio e la capacità di analisi, come suggerito da Chiavacci: studiare, essere consapevoli di essere pochi e non mollare mai.
In che modo iniziative come il “Natale in libreria” hanno contribuito all’educazione alla mondialità?
“Natale in libreria” era un’esperienza di animazione che coinvolgeva centinaia di ragazzi nella confezione di pacchetti regalo nelle librerie di Roma nel periodo natalizio. Non era solo un modo per raccogliere fondi per sostenere piccoli progetti all’estero, ma soprattutto un’occasione per formare i ragazzi a conoscere e a presentare i progetti internazionali. Questo permetteva di “aprire gli occhi” sull’educazione alla mondialità e sull’impegno concreto, trasformando l’atto di fare i pacchetti in un’esperienza educativa e di sensibilizzazione, che poi si estendeva anche nelle scuole.
Ricordavamo sempre il cardinale Martini quando ci invitava a non fare di fare la differenza tra credenti e non credenti, ma di valorizzare la capacità di essere “pensanti o non pensanti”.
(Fonte: Città Nuova a cura di Carlo Cefaloni 26/09/2025)