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martedì 23 settembre 2025

Dopo la morte di Paolo Mendico - Alberto Pellai: “Paolo viveva in trincea, la scuola non deve voltarsi dall’altra parte” - Mons. Luigi Vari: “I ragazzi sono soli ma insieme possiamo riaccendere la speranza”


Quattordicenne suicida a Latina. 

Alberto Pellai: 
“Paolo viveva in trincea, 
la scuola non deve voltarsi dall’altra parte”

Paolo Mendico, 14 anni, vittima di bullismo, si è tolto la vita alla vigilia del rientro in classe. Mentre la magistratura indaga, lo psicoterapeuta Alberto Pellai invita scuole e adulti a diventare comunità educanti: “Ogni ragazzo ha diritto a sentirsi protetto, ascoltato e accompagnato”

(Foto ANSA/SIR)

Un ragazzo sensibile, appassionato di musica e di pesca, benvoluto da chi lo conosceva davvero, ma da anni vittima di bullismo. Una storia di dolore e solitudine quella di Paolo Mendico, 14 anni, che in provincia di Latina l’11 settembre si è tolto la vita poche ore prima del ritorno in classe. Mentre la Procura di Cassino indaga per istigazione al suicidio, il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha disposto ispezioni nelle scuole frequentate dal giovane. “Serve una comunità educante che non volti lo sguardo dall’altra parte”, avverte in questa intervista al Sir Alberto Pellai, medico, psicoterapeuta dell’età evolutiva e autore di numerosi libri sulla genitorialità, l’adolescenza e la prevenzione del disagio giovanile. Proprio ieri l’uscita dell’ultimo, “Esci da quella stanza”, firmato insieme alla moglie e collega Barbara Tamborini (ed. Mondadori).

Dottor Pellai, la tragedia di Paolo ha scosso l’Italia. Che cosa ci dice questo episodio sulle difficoltà e fragilità dei nostri adolescenti

Alberto Pellai – foto da FB
Oggi l’adolescenza affronta le stesse sfide di 20 o 30 anni fa, ma in un contesto molto più complesso e pieno di trappole.

Paolo viveva come in trincea, nel mondo reale e in quello virtuale, con una fortissima percezione di impotenza.

Non riusciva a tutelarsi né a mantenersi integro. Il gesto estremo compiuto il giorno prima del ritorno in classe ci dice che anche la scuola era per lui un campo di battaglia, non quel luogo sicuro che dovrebbe essere.

I suoi genitori affermano di avere più volte segnalato le vessazioni alla scuola, ma di non aver ricevuto risposte…

Se le indagini e le ispezioni confermeranno che la scuola, ambiente deputato all’educazione, non ha saputo cogliere il problema, significa che il luogo educativo per eccellenza ha fallito. Cambiare scuola, come spesso suggerisce il terapeuta in casi simili, non dovrebbe essere una fuga, ma una scelta. Non vedere il dolore di un ragazzo che chiede aiuto e non essere in grado di proteggerlo è una sconfitta dell’intero sistema.

Che cosa scatta nella mente di un ragazzo bullizzato per portarlo a un gesto senza ritorno?

Il suicidio nasce da una disperazione profonda, dalla totale perdita di speranza che le cose possano cambiare. Quando un adolescente si sente invisibile, non ascoltato, impotente, la vita perde senso. Se non c’è una via d’uscita, si chiede:

“Che cosa sto a fare qui ?”.

È una condizione devastante, soprattutto se nessuno interviene.

Perché è tanto difficile per un ragazzo così giovane elaborare strategie di resilienza?

A 14-15 anni non si ha ancora la capacità di autonarrazione evoluta. Un adulto può dire: “Fra tre anni sarai tu, con la tua sensibilità e le tue competenze, a guardare dall’alto in basso chi ti ha fatto soffrire”. Ma per un adolescente, che vive nel presente assoluto, è molto difficile avere questo livello di elaborazione.

E se quel presente è insopportabile, non vede alternative.

Lei parla spesso di educazione emotiva. In che modo può aiutare a prevenire il bullismo?

L’educazione emotiva dà ai ragazzi la competenza, ossia la capacità, di sentire le proprie emozioni e quelle degli altri. Il bullo, viceversa, emotivamente incompetente, vede il dolore che provoca, ma ne è indifferente e anzi prosegue nei suoi comportamenti vessatori. All’interno di un gruppo educato all’empatia, invece, anche lo spettatore di atti di bullismo è portato ad empatizzare con la vittima diventando protettore, non complice.

Ritornando alla scuola: quale dovrebbe essere il suo ruolo?

La scuola deve essere un luogo emotivamente competente. Serve un referente interno, riconosciuto da tutti, al quale vittime e testimoni possano rivolgersi con fiducia e in totale riservatezza. Questa figura deve ascoltare, verificare, coinvolgere la vittima ed il bullo in un processo di riparazione, e monitorare il percorso. Deve, in altri termini, accendersi una “videocamera adulta” sul disagio, per impedire che si ripeta.

Il ministro Valditara ha parlato di una stretta sulla legge 70/2024. Può bastare o serve un cambiamento culturale più profondo?

La legge è importante, ma non basta. Il problema non è solo punire, ma chiedersi:

perché ragazzi così giovani producono danni così grandi? Che cosa è mancato nel loro percorso di crescita?

Quello che serve è piuttosto un ambiente educativo che alleni all’empatia, al rispetto, alla cooperazione.

Dobbiamo insegnare ad essere squadra, non branco.

Il mondo digitale ha un ruolo in tutto questo?

Sì. I ragazzi oggi “si allenano” alla vita nel mondo virtuale, che non ha cura né tutela dei principi educativi. Non è il web il nemico, ma l’assenza di una guida adulta e competente.

Il digitale contribuisce alla disumanizzazione della crescita;

nel tempo dell’età evolutiva dobbiamo invece coltivare intensamente l’umanità.

Che cosa direbbe a un adolescente che le confessasse di sentirsi solo e bullizzato?

Gli direi: “Hai fatto bene a dirmelo. Da oggi non sei più solo, ci sono io con te”. Lo accompagnerei nel percorso di cambiamento, facendogli capire che insieme possiamo trovare il modo per modificare le condizioni che lo fanno soffrire. In quanto psicoterapeuta ho specifici strumenti di lavoro;

tuttavia esserci, ascoltare e agire è compito di ogni adulto, nessuno escluso.

(fonte: Sir, intervista di Giovanna Pasqualin Traversa 18/09/2025)

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Dopo la morte di Paolo Mendico. 
Mons. Luigi Vari (Arcivescovo di Gaeta): 
“I ragazzi sono soli ma insieme possiamo riaccendere la speranza”

La morte del giovane Paolo interpella tutti: famiglie, scuola, Chiesa. L’arcivescovo di Gaeta, mons. Luigi Vari, parla di solitudine, fragilità e responsabilità educativa. “I ragazzi sono irraggiungibili, ma non possiamo arrenderci”. Serve una rete di adulti capaci di ascolto, vicinanza e presenza. “Insieme possiamo asciugare lacrime e riaccendere la speranza”, l’invito del presule

(Foto archivio)

La morte di Paolo Mendico, quattordicenne di Santi Cosma e Damiano, ha sconvolto non solo la comunità locale ma l’intero Paese, sollevando interrogativi profondi sulla responsabilità educativa degli adulti. Alla fiaccolata in suo ricordo ha partecipato anche l’arcivescovo di Gaeta, mons. Luigi Vari, che abbiamo raggiunto per riflettere sul senso di questa tragedia, sulla solitudine dei ragazzi e sul compito che attende la Chiesa, la scuola e le famiglie: “Da soli non ce la possiamo fare. Ma insieme possiamo asciugare lacrime e riaccendere speranza”.

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)
Eccellenza, Lei ha partecipato alla fiaccolata in memoria di Paolo. Come ha visto reagire la comunità di Santi Cosma e Damiano?

La comunità è, comprensibilmente, molto disorientata. Trovarsi al centro di una tragedia così profonda è come essere travolti da una bufera. Ho visto persone davvero provate, alcuni genitori piangevano in silenzio. C’è un senso di smarrimento, di inadeguatezza perfino nel parlarne.

Ma sono rimasto colpito dalla partecipazione così numerosa alla fiaccolata: mi è sembrato un modo per dire “noi ci siamo”.

Come possiamo, con i nostri limiti, ma ci siamo. E questo ha un valore grande.

Ha sottolineato che non si tratta solo di un problema locale. In che senso?

Non è un episodio isolato. Forme di violenza, soprattutto verbale, ma non solo, sono sempre più diffuse. E spesso, purtroppo, sono tollerate o sottovalutate. Il senso della fiaccolata era anche questo: ritrovare le parole giuste, un linguaggio più umano, più costruttivo. Ma questo messaggio riguarda più noi adulti che i ragazzi. Siamo noi che dobbiamo imparare – o reimparare – a prenderci cura.

Molti hanno raccontato Paolo come un ragazzo sensibile, intelligente, ma riservato. È sempre più difficile cogliere i silenzi degli adolescenti?

Sì. Molti ragazzi oggi sono, direi, irraggiungibili. Ma spesso siamo noi adulti ad arrenderci per primi. E allora quei gesti silenziosi, quelle richieste non dette, restano invisibili. Paolo aveva i suoi interessi, le sue passioni. Ma, da quanto ho saputo, tra tutte le sue attività mancavano gli amici. Questa solitudine, purtroppo, è sempre più diffusa. Ragazzi chiusi in camera, davanti a uno schermo. Il Covid ha aggravato tutto questo. E il nostro modello sociale, oggi, rende perfino difficile socializzare.

Da dove si può ripartire?

Serve un cambio di sguardo. Noi adulti abbiamo nostalgia di quando si giocava in strada, ma i ragazzi di oggi vivono in un’altra realtà. Non va giudicata, va capita.

Dobbiamo farci girare il cuore e la testa, non rassegnarci. È questo, credo, il primo passo. Perché ogni ragazzo, per il solo fatto di esserci, è portatore di vita, di futuro

Quando li vedo impegnati, quando li ascolto, mi riempiono di speranza. Spesso sono loro i nostri maestri: integrano con naturalezza, accolgono senza giudicare.

Eppure, ci sono anche responsabilità tra i coetanei: chi deride, chi esclude, chi esercita prepotenza. Cosa dice a questi ragazzi?

I bulli ci sono sempre stati. Ma prima c’era una rete che proteggeva. Oggi, molti giovani non sanno più a chi rivolgersi. La scuola? Non sempre. La politica? Spesso assente. La Chiesa? A volte percepita distante. E allora il più forte impone la sua legge. Ma non dobbiamo fare discorsi nostalgici. Dobbiamo custodire quella rete, rafforzarla.

E qui la comunità cristiana ha una grande responsabilità. Le parrocchie fanno molto, ma da sole non bastano.

C’è bisogno di una corresponsabilità educativa che coinvolga famiglie, scuole, associazioni, oratori. È il famoso “villaggio che educa”. E oggi quel villaggio, purtroppo, non sempre c’è.

Ha incontrato i genitori di Paolo. Che cosa si è sentito di dire loro?

È stato un momento molto toccante. Ho parlato con il fratello, poi con il padre e la madre. C’è un dolore che non si può né spiegare né cancellare. Il suicidio di un figlio lascia una ferita che resta. Ma la speranza, la fede, la solidarietà possono aiutare a non restare soli dentro quel dolore. Possiamo solo accompagnare, asciugare lacrime. E farlo insieme. Alla fiaccolata, a un certo punto, tutta la piazza ha pregato un’Ave Maria per Paolo. È stato un momento di comunione profondissima. Alla madre ho detto: “Non possiamo fare molto, ma con te possiamo pregare”. E, davvero, da soli nessuno ce la può fare. Ma insieme – come comunità, come Chiesa, come uomini – possiamo aiutare a riaccendere la speranza.

(fonte: Sir, intervista di Riccardo Benotti 22/09/2025)