Cosa significa vivere da stranieri
di Enzo Bianchi
Da sempre l’essere umano vive un profondo legame con la porzione di terra sulla quale viene al mondo e in cui abita: per questo la definisce patria, terra dei padri, e la sente come sua propria. Di fronte a questa realtà, dello stesso ordine dei legami di sangue, vi è però un’altra possibilità di considerare il mondo: vivere da stranieri, da pellegrini, fino a manifestare nella compagnia degli uomini una “differenza” rispetto agli altri.
Solo un esempio, al riguardo: si è dimenticato ben presto che i cristiani, all’inizio della loro vicenda storica e sociale, si chiamavano “quelli della via” (Atti degli apostoli 9,2) e amavano definirsi “stranieri e pellegrini” (Prima lettera di Pietro 2,11), ossia “quelli che abitano presso”, che costantemente montano e smontano la tenda, consapevoli di non avere una patria. E come dimenticare ciò che l’A Diogneto, mirabile testo del II secolo d.C., dice a proposito dei cristiani? “Abitano una loro patria, ma come stranieri (pároikoi). Ogni terra straniera (xéne) è patria per loro e ogni patria è terra straniera (xéne)”.
Ma questa dinamica attiene in modo più generale all’humanitas, alla vita umana sulla terra. Ovvero, vivere una “stranierità” antropologica di fondo consente di misurarsi quotidianamente con l’irriducibile dialettica tra appartenenza e differenza, tra convivenza civile e alterità. Scrive la grande pensatrice francese Julia Kristeva: “Lo straniero ci abita: è la faccia nascosta della nostra identità. Lo straniero è in noi stessi. Se fuggiamo lo straniero e lo combattiamo, combattiamo contro il nostro inconscio. Lo straniero vive in me, dunque noi tutti siamo stranieri”. Ed Edmond Jabès faceva eco: “Lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero. La distanza che ci separa dallo straniero è quella stessa che ci separa da noi”.
Se dunque “ognuno di noi è straniero a se stesso”, la stranierità è una dimensione costitutiva dell’umano. Vivere da stranieri in questo mondo non equivale a evadere dalla storia né a mancare di assunzione di responsabilità verso gli altri, ma è un modo altro di discernere il mondo e le relazioni: significa non lasciare posto a logiche nazionalistiche o – con un linguaggio oggi più in voga – localistiche; non lasciare che il legame con la propria terra produca rifiuto degli altri, delle loro culture, fedi, etiche… Significa percepirsi come ospiti in ogni porzione di terra, chiamati a renderla insieme, nel dialogo difficile ma imprescindibile, più bella e abitabile.
Stranierità vuol dire rinuncia a essere “padroni di casa”, abbandono dell’autosufficienza che genera l’esclusione dell’altro. In positivo, si manifesta come solidarietà e soprattutto condivisione (vero nome della carità intelligente), praticata da chi ha rinunciato a possedere la terra per sé. Da chi, sentendosi sempre straniero, pellegrino e viandante, può ricominciare ogni giorno animato da una convinzione: “Mai senza l’altro”. Sempre in cammino, sempre in ricerca, semplice amante della bellezza e della gioia condivise.