Il Festino nell'anno del coronavirus, Lorefice:
"Mi rivolgo a Rosalia, guarisci Palermo"
discorso alla città di Palermo
(Testo e video)
14.07.2020 - Dal sagrato della Cattedrale, l’Arcivescovo, mons. Corrado Lorefice, in occasione del Festino ha pronunciato il suo discorso alla Città. Si rivolge a tutti i palermitani che seguono a distanza il Festino di quest’anno a cui invia una “benedizione”, per trasmettere un messaggio di liberazione e speranza
Care Palermitane, Cari Palermitani, Care Amiche e Cari Amici che state seguendo il nostro Festino da ogni parte d’Italia, da tutto il mondo, vi giunga stasera intanto il mio saluto più caldo e affettuoso. Voglio dirvi ‘benvenuti!’. Da questo sagrato della nostra Cattedrale giungano a chi è qui, e ai tanti che non hanno potuto esserci, il mio abbraccio e la mia benedizione. Non come un atto di superiorità, ma come una benedizione nel suo senso più originario: benedire significa infatti “dire bene, dire il bene”, ed è questo bene che voglio comunicarvi stasera con le mie parole, perché possiamo annunciarci reciprocamente non sventura e disperazione, ma liberazione e speranza! È stata questa la lezione che all’inizio del Concilio Vaticano II – a cui abbiamo dedicato a gennaio due giorni intensi ed importanti – [che all’inizio del Concilio Vaticano II] diede alla Chiesa e al mondo un Papa apparentemente anziano e stanco, che tutti sorprese invece con la freschezza del suo spirito, in quell’autunno del 1962. Quel Papa – Giovanni XXIII – disse con grande forza, la mattina dell’11 ottobre, che non credeva ai profeti di sventura, e quella stessa notte guardò alla luna piena nel cielo di Roma e la lesse come segno della festa del creato che gioisce per gli eventi di pace e di riconciliazione tra gli uomini: «Cari figliuoli, sento le vostre voci. La mia è una voce sola, ma riassume la voce del mondo intero; qui tutto il mondo è rappresentato. Si direbbe che persino la luna si è affrettata, stasera – osservatela in alto! – a guardare a questo spettacolo. Vi è che noi chiudiamo una grande giornata di pace; di pace: “Gloria a Dio, e pace agli uomini di buona volontà”». Ecco, è nella memoria di quell’atteggiamento e di quei discorsi che vorrei parlarvi stasera. Papa Giovanni capì infatti che quel che stava cominciando quel giorno in Vaticano era una svolta epocale per il mondo. E pure noi, qui, stasera, siamo riuniti, fisicamente o per via telematica, nella consapevolezza rinnovata che anche oggi tutta l’umanità si sta trovando a vivere una svolta decisiva, direi ‘un bivio epocale’, da cui dipende il futuro nostro, dei nostri figli, del mondo intero.
Di fronte a questo bivio ci ha messi la terribile pandemia che ha ferito e continua a ferire e a falciare donne e uomini in ogni parte del pianeta, in tutti i paesi del mondo. Come ogni catastrofe mondiale, il coronavirus ci chiama ad una riflessione e ad un cambiamento, ad una consapevolezza e a una guarigione. Noi qui, a Palermo, abbiamo su questa strada una guida sicura e secolare. La Santuzza, che stiamo solennemente festeggiando (nei modi oggi possibili, nel rispetto delle leggi e della necessaria prudenza: lo voglio dire con chiarezza!), [la Santuzza] è infatti maestra di speranza nella disperazione, di guarigione e salvezza nelle catastrofi. Lei, che fu riconosciuta come patrona dal popolo di Palermo proprio durante la peste del 1624, per il suo intervento miracoloso e risolutivo. Rosalia è la santa dell’epidemia, è colei che parla e agisce in un popolo e per un popolo colpito dalla malattia. A lei voglio rivolgermi stasera, ascoltando la sua parola, che arriva a noi attraverso la sua vita. Alla lezione che ci viene dalla sua esistenza e che ci aiuta a illuminare il nostro presente. Mi rivolgo a te, allora, nostra carissima Rosalia.
La ricerca di Dio. Tu eri una giovane donna, destinata ad essere una nobile sposa, ma hai avuto il coraggio di sottrarti al tuo destino e di scegliere un’esistenza povera, umile, quotidiana, fatta di solitudine e di ricerca di Dio. Nell’iscrizione rinvenuta nella grotta della Quisquina ci hai detto il motivo di tutto questo. Ci hai rivelato che lo hai fatto per amore, per l’amore che provavi verso il tuo Signore («Amore D.ni Mei Iesu Christi»). Sai, Rosalia, già questo è un grande insegnamento per noi. Tu ci insegni così che la tua santità, la santità dei santi, è diversa dal protagonismo degli eroi. Nelle storie antiche, l’eroe era colui che si distingueva per il suo valore e che voleva brillare per il suo coraggio e la sua forza. Perché l’eroe vuole essere al centro, vuole essere riconosciuto. Tu ci ricordi stasera, con la tua vita nascosta, che il santo non pensa a mettersi in mostra. La sua vita è consegnata a qualcun altro ed è per l’altro che vive e fa quello che fa. Ci ricordi che la santità non cerca l’impresa eclatante, la lode collettiva. Che i santi come te sono donne, uomini al pari degli altri, che scelgono di consegnare quotidianamente, oscuramente, la loro vita a Dio e ai fratelli. Rosalia carissima, noi questi santi «“della porta accanto”» (Francesco, Gaudete et exsultate, 7), li abbiamo conosciuti, e ne abbiamo conosciuti tanti nei giorni difficili che abbiamo attraversato. Sono stati un fiume fresco e abbondante di santità autentica: tanti medici, tanti infermieri, tanti volontari che giorno per giorno hanno fatto con cura, passione e compassione il loro lavoro in favore degli ammalati, dei sofferenti, dei morenti e della sicurezza di tutti. Voglio dirlo con forza accanto a te stasera, nostra santa patrona: dinanzi a questa santità non ci sono barriere! Questa è la verità della vita, dinanzi alla quale ci ritroviamo tutti. Senza distinzione tra credenti e non credenti, tra credenti di una confessione o di una religione e credenti di un’altra. Lo dico al cospetto dei Servitori delle Istituzioni civili e militari, che saluto con cordialità e ringrazio per la loro presenza, e soprattutto dinnanzi a voi, carissimi Fratelli e Sorelle delle altre Chiese cristiane e delle altre Confessioni religiose. Quest’anno, cara Rosalia, non abbiamo potuto fare il nostro tradizionale incontro per il Festino, ma siamo lo stesso riuniti nella condivisione di una verità che tu ci consegni e che siamo chiamati a portare nel mondo: è l’amore [è l’amore] il segreto, il segno e il messaggio di ogni vera religione! Ed è l’amore il vaccino che ci libererà dalla pandemia che attenta ai nostri cuori!
‘Imparare a lasciare’. Continuo a guardare a te, Rosalia, al tuo esempio per noi in questa svolta epocale. E capisco subito che da te dobbiamo ‘imparare a lasciare’. Tu, infatti, hai lasciato la ricchezza per farti povera. Hai rinunziato a possessi e sicurezze per servire. Come sai bene, la pandemia, in una maniera bruciante, ci ha messi di fronte alla grande questione della divisione tra ricchi e poveri, tra Sud e Nord, tra pochi privilegiati e miliardi di sventurati. Il virus ci ha detto che non si può continuare così. Che un mondo così drammaticamente diviso è un mondo destinato a distruggersi. Quanta gente è morta o sta morendo, in tante parti del pianeta, perché non ha assistenza sanitaria, perché non ha i servizi essenziali, perché non può essere curata. Lo sapevamo già da prima, ma ora la pandemia ce lo ha gridato in faccia, che la disuguaglianza è la rovina della nostra storia, che l’ingiustizia non è sopportabile e che tutto questo è il frutto di scelte politiche, è frutto del modo sciagurato in cui abbiamo organizzato il mondo. Rosalia, insegnaci a lasciare! Perché dobbiamo lasciare! Il nostro Occidente deve lasciare! Lasciare i privilegi di un ordinamento ingiusto, portatore di morte. Lasciare una ricchezza e un’economia che puntano solo al profitto e non hanno riguardi per la vita; che creano solo conflitto, dolore; che ora mostrano tutta la loro follia. Tu Rosalia, stasera, ci gridi di svegliarci prima che sia troppo tardi! Lo gridi a me, ai cristiani, alle donne e agli uomini di Palermo, a quanti hanno responsabilità politiche, amministrative ed economiche. Lo gridi, Rosalia, da umile e grande testimone del Vangelo di Gesù di Nazareth, che ha gridato dal monte «Beati i poveri» e «Guai ai ricchi» (Lc 6, 20.24), con la franchezza di un Dio schierato dalla parte degli oppressi e dei curvati della storia. Lo dici volgendo lo sguardo alla nostra Palermo, dove la crisi della pandemia ha aggravato i problemi economici, provocando la perdita di posti di lavoro, acuendo la crisi delle piccole imprese, indebolendo i giovani e le famiglie, creando i presupposti per un nuovo fiorire dell’economia mafiosa, dell’imprenditoria criminale, che sguazza nel degrado e nel bisogno. Rosalia, aiutaci ad ascoltare il tuo grido. Se non cambieremo, se a Palermo il coronavirus diverrà una nuova grande opportunità per la mafia e la criminalità, poveri noi! Sarebbe un tragico scandalo, e saremmo noi, tutti noi i responsabili di questo scandalo. Verso chi provoca lo scandalo – ricordiamocelo – Gesù dice delle parole terribili: «sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare» (Mt 18,6). Fa’, Santuzza nostra, che da stasera noi siamo tuoi imitatori e non donne e uomini dello scandalo dell’ingiustizia e della disonesta ricchezza!
La ricerca di Dio. Tu eri una giovane donna, destinata ad essere una nobile sposa, ma hai avuto il coraggio di sottrarti al tuo destino e di scegliere un’esistenza povera, umile, quotidiana, fatta di solitudine e di ricerca di Dio. Nell’iscrizione rinvenuta nella grotta della Quisquina ci hai detto il motivo di tutto questo. Ci hai rivelato che lo hai fatto per amore, per l’amore che provavi verso il tuo Signore («Amore D.ni Mei Iesu Christi»). Sai, Rosalia, già questo è un grande insegnamento per noi. Tu ci insegni così che la tua santità, la santità dei santi, è diversa dal protagonismo degli eroi. Nelle storie antiche, l’eroe era colui che si distingueva per il suo valore e che voleva brillare per il suo coraggio e la sua forza. Perché l’eroe vuole essere al centro, vuole essere riconosciuto. Tu ci ricordi stasera, con la tua vita nascosta, che il santo non pensa a mettersi in mostra. La sua vita è consegnata a qualcun altro ed è per l’altro che vive e fa quello che fa. Ci ricordi che la santità non cerca l’impresa eclatante, la lode collettiva. Che i santi come te sono donne, uomini al pari degli altri, che scelgono di consegnare quotidianamente, oscuramente, la loro vita a Dio e ai fratelli. Rosalia carissima, noi questi santi «“della porta accanto”» (Francesco, Gaudete et exsultate, 7), li abbiamo conosciuti, e ne abbiamo conosciuti tanti nei giorni difficili che abbiamo attraversato. Sono stati un fiume fresco e abbondante di santità autentica: tanti medici, tanti infermieri, tanti volontari che giorno per giorno hanno fatto con cura, passione e compassione il loro lavoro in favore degli ammalati, dei sofferenti, dei morenti e della sicurezza di tutti. Voglio dirlo con forza accanto a te stasera, nostra santa patrona: dinanzi a questa santità non ci sono barriere! Questa è la verità della vita, dinanzi alla quale ci ritroviamo tutti. Senza distinzione tra credenti e non credenti, tra credenti di una confessione o di una religione e credenti di un’altra. Lo dico al cospetto dei Servitori delle Istituzioni civili e militari, che saluto con cordialità e ringrazio per la loro presenza, e soprattutto dinnanzi a voi, carissimi Fratelli e Sorelle delle altre Chiese cristiane e delle altre Confessioni religiose. Quest’anno, cara Rosalia, non abbiamo potuto fare il nostro tradizionale incontro per il Festino, ma siamo lo stesso riuniti nella condivisione di una verità che tu ci consegni e che siamo chiamati a portare nel mondo: è l’amore [è l’amore] il segreto, il segno e il messaggio di ogni vera religione! Ed è l’amore il vaccino che ci libererà dalla pandemia che attenta ai nostri cuori!
‘Imparare a lasciare’. Continuo a guardare a te, Rosalia, al tuo esempio per noi in questa svolta epocale. E capisco subito che da te dobbiamo ‘imparare a lasciare’. Tu, infatti, hai lasciato la ricchezza per farti povera. Hai rinunziato a possessi e sicurezze per servire. Come sai bene, la pandemia, in una maniera bruciante, ci ha messi di fronte alla grande questione della divisione tra ricchi e poveri, tra Sud e Nord, tra pochi privilegiati e miliardi di sventurati. Il virus ci ha detto che non si può continuare così. Che un mondo così drammaticamente diviso è un mondo destinato a distruggersi. Quanta gente è morta o sta morendo, in tante parti del pianeta, perché non ha assistenza sanitaria, perché non ha i servizi essenziali, perché non può essere curata. Lo sapevamo già da prima, ma ora la pandemia ce lo ha gridato in faccia, che la disuguaglianza è la rovina della nostra storia, che l’ingiustizia non è sopportabile e che tutto questo è il frutto di scelte politiche, è frutto del modo sciagurato in cui abbiamo organizzato il mondo. Rosalia, insegnaci a lasciare! Perché dobbiamo lasciare! Il nostro Occidente deve lasciare! Lasciare i privilegi di un ordinamento ingiusto, portatore di morte. Lasciare una ricchezza e un’economia che puntano solo al profitto e non hanno riguardi per la vita; che creano solo conflitto, dolore; che ora mostrano tutta la loro follia. Tu Rosalia, stasera, ci gridi di svegliarci prima che sia troppo tardi! Lo gridi a me, ai cristiani, alle donne e agli uomini di Palermo, a quanti hanno responsabilità politiche, amministrative ed economiche. Lo gridi, Rosalia, da umile e grande testimone del Vangelo di Gesù di Nazareth, che ha gridato dal monte «Beati i poveri» e «Guai ai ricchi» (Lc 6, 20.24), con la franchezza di un Dio schierato dalla parte degli oppressi e dei curvati della storia. Lo dici volgendo lo sguardo alla nostra Palermo, dove la crisi della pandemia ha aggravato i problemi economici, provocando la perdita di posti di lavoro, acuendo la crisi delle piccole imprese, indebolendo i giovani e le famiglie, creando i presupposti per un nuovo fiorire dell’economia mafiosa, dell’imprenditoria criminale, che sguazza nel degrado e nel bisogno. Rosalia, aiutaci ad ascoltare il tuo grido. Se non cambieremo, se a Palermo il coronavirus diverrà una nuova grande opportunità per la mafia e la criminalità, poveri noi! Sarebbe un tragico scandalo, e saremmo noi, tutti noi i responsabili di questo scandalo. Verso chi provoca lo scandalo – ricordiamocelo – Gesù dice delle parole terribili: «sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare» (Mt 18,6). Fa’, Santuzza nostra, che da stasera noi siamo tuoi imitatori e non donne e uomini dello scandalo dell’ingiustizia e della disonesta ricchezza!
Dalla parte della sobrietà. E poi tu, Rosalia, sei uscita dalla ricca casa di tuo padre e per tutta la tua breve vita hai sempre voluto abitare in una grotta. Con naturalezza, con dolcezza, ti sei messa dalla parte della sobrietà, della vita semplice, che ha bisogno di poco, che gode di ogni istante e di ogni giorno. È come se tu stasera ci ricordassi che la pandemia, ogni pandemia, è stata ed è una grande lezione di sobrietà. Sono sempre stato colpito dal significato di questa parola. Se guardiamo alla sua origine, infatti, essere sobri (sophron) vuol dire essere ‘sani di mente’. Possiamo pensare, carissima Rosalia, che tanti, ai tuoi tempi, abbiano pensato che tu fossi una pazza a lasciare le comodità del palazzo per vivere in quella grotta. Ma non capivano che i pazzi erano loro, e tu avevi scelto la via di una vita bella e umana. Ed è come se tu stasera dicessi anche a noi che siamo stati dei folli, fino ad oggi, ad ubriacarci di cose, a correre come i matti, ad accumulare appuntamenti, come se la vita dipendesse dai beni, come se la felicità dipendesse dalla quantità e non dalla qualità. Rosalia, tu ci inviti a riscoprire la lentezza, le piccole cose, la gioia di gesti e di atti di cui non ci rendevamo più conto, che non apprezzavamo più. Dire una parola buona, guardare negli occhi chi ci ama, aspettare che venga su il caffè e berlo accanto alle persone con cui condividiamo la vita, innaffiare una pianta o scambiare quattro chiacchiere per il puro piacere della compagnia, dare una mano al vicino, alla vicina di casa di cui non ci siamo mai accorti. Mi ha colpito molto che nel tempo del lockdown, abbia potuto conoscere e frequentare ogni giorno dal balcone le famiglie che abitano di fronte al vescovado. E mi ritorna ancora, tra le tante storie della pandemia, quella di una docente universitaria che, costretta a restare a casa, ha avuto dopo anni, per la prima volta, un rapporto con le sue vicine novantenni, desiderose di rivedere i loro nipoti ma naturalmente mai abituate ad usare un cellulare o un dispositivo elettronico. La professoressa, dal balcone di casa, le ha istruite, e le due anziane signore sono riuscite incredibilmente ad usare il tablet, a collegarsi a internet, a rivedere dopo mesi, tra la commozione generale, il volto dei loro nipotini. E proprio la giovane professoressa era la più felice di tutti. Sai, Rosalia, penso che questa storia sia l’università del Covid: una donna impegnata, che non stava mai a casa, compie un gesto di prossimità; due nonne fanno l’esperienza – che i nonni conoscono bene, ma così importante per noi – della meraviglia del volto dell’altro, della cosa più ovvia e scontata. È proprio vero che il desiderio profondo delle cose più importanti della vita fa miracoli. E tu Rosalia, lo sai bene.
Accanto alla nostra madre Terra. Tu hai vissuto in quella grotta, tu, patrona di Palermo, sul monte Pellegrino. Hai vissuto in mezzo alla natura e nei pressi di un convento. Ed è come se stasera tu ci dessi così un’altra dritta, ci richiamassi ad una responsabilità fondamentale, ci mostrassi un’altra delle lezioni che dobbiamo apprendere dai giorni del coronavirus. Perché nella tua vita povera tu sei stata al contempo vicina a Dio e hai dimorato accanto alla nostra madre Terra. Quasi a riportarci alla lezione del più savio dei folli, del più umano dei santi, con il quale certamente ora tu ti intrattieni nella gloria di Dio penso ‒ lo sai bene ‒ a Francesco di Assisi. Lui povero, lui amante della povertà, lui che capì per primo e per sempre che la Terra non è un territorio da sfruttare ma è la madre e sorella che «ne sustenta e governa» (FF 263). Rosalia, gridalo con noi stasera! Grida con noi davanti allo scetticismo dei benpensanti e al criminale menefreghismo della finanza mondiale, degli adoratori del capitale, dei grandi di questo mondo. Grida che la nostra madre, la nostra sorella è ferita, è morente. Grida che è lei – come ci ha
ricordato un Papa che non per caso si chiama Francesco – che è lei la povera tra i poveri, il segno e la
realtà di una povertà planetaria che può travolgerci, che può annientare anzitutto i piccoli e i deboli, che
può rovinare il futuro dei nostri figli, dei nostri nipoti. Le loro proteste, la loro consapevolezza, sono un
segno dei tempi, posto tra l’altro in principio da tante e tanti giovani come te. Il nostro stile di vita è
incompatibile con la sopravvivenza della Terra. E il Covid-19 ha dimostrato che siamo ormai al paradosso
per cui se noi non ci siamo la Terra sta meglio e se noi la calpestiamo la Terra muore. E noi con lei.
Rosalia, insegnaci tu stasera ad abbracciare la Terra, a porre segni e a fare gesti di cambiamento radicale
contro le potenze di sfruttamento e di morte
Nel corpo c’è una sapienza antica. Così hai vissuto Rosalia, e così in silenzio te ne sei andata. Un silenzio punteggiato di voci, ma che a Palermo è durato lo stesso per secoli, fino a quando tu sei tornata, ti sei fatta incontro, indicando ad un povero giovane disperato il luogo della tua sepoltura. Mi colpisce che tu abbia scelto di tornare a Palermo con questo messaggio. Lo ascolto stasera e vi ritrovo anzitutto un appello a rendermi conto, a renderci conto di quanto sia importante il corpo nella nostra esistenza. Il corpo vivente, dal quale spesso siamo staccati, distanti. Abbiamo un corpo ma non sappiamo ascoltarlo, non sappiamo abitarlo. Eppure, nel corpo c’è una sapienza antica che la nostra fretta ha disperso e che la pandemia ci ha rimesso davanti. Come se ci avesse detto di tornare ai corpi, di ascoltare il nostro respiro, di dire parole che trovino eco nelle profondità delle viscere. Come se volesse ricordarci che l’amore stesso di Dio è un fatto viscerale; che amare per Lui significa vibrare nelle viscere, e se non le ascoltiamo siamo destinati a perdere il cuore della nostra umanità e quindi del nostro futuro. Il corpo in vita dunque, ma nel tuo messaggio anche il corpo in morte. Ed è una cosa che ci tocca stasera, cara Rosalia. Tu hai voluto che il tuo corpo fosse recuperato, fosse presente in mezzo a noi e giustamente onorato. E così stasera ci ricordi come l’amore non sia senza il corpo e come la cura del corpo morto dell’altro sia il fondamento stesso del nostro stare assieme. Siamo diventati umani quando, migliaia di anni fa, abbiamo cominciato ad onorare e a venerare il corpo senza vita, il corpo nella sua debolezza, nella sua assenza di relazione e dunque nella sua indigenza più grande. Siamo diventati umani quando abbiamo imparato a curare il corpo facendoci carico di ogni indigenza, di ogni povertà radicale e accarezzando e piangendo i nostri morti. Tu sai, Rosalia, quanti di noi, in questi mesi e anche ora, in tutto il mondo, stanno vivendo la tragedia di una morte solitaria, di una distanza terribile dal corpo caro che muore, di una mancata e degna sepoltura. Preghiamo con te il Padre per la loro consolazione e perché noi impariamo il rispetto della vita e la cura dei viventi. Perché siamo ‘umani’, fatti e impastati di humus, frutti e insieme custodi della Terra e dei nostri fratelli.
Volgere lo sguardo al Mediterraneo. Il tuo corpo era nella grotta sul monte, Rosalia, sul nostro monte «ove vi era un grandissimo precipitio che dava alla parte del mare» da dove si affacciò Vincenzo.
Volgere lo sguardo al Mediterraneo. Il tuo corpo era nella grotta sul monte, Rosalia, sul nostro monte «ove vi era un grandissimo precipitio che dava alla parte del mare» da dove si affacciò Vincenzo.
Bonelli ‒ come affermò nella Testimonianza fatta in punto di morte a don Pietro Lo Monaco ‒ «con animo di precipitarme» (Originale delli testimonij di Santa Rosalia, 1624). Consentimi, nostra cara Santuzza, stasera di volgere lo sguardo a questo mare, al Mediterraneo, a cui la tua figura di «peregrina giovana, di faccia d’angelo, bella e con uno splendore grande», sottrasse il corpo del “saponaro” disperato, dicendo: «Non andar più innanti nè timer più. Vien con me» (Originale delli testimonij di Santa Rosalia, 1624). È lo stesso mare nel quale oggi finiscono le vite e le speranza di tante donne e di tanti uomini dell’Africa e dal Medio Oriente, spinti dalla fame e dalla guerra verso il nostro Occidente e sottoposti per questo ad un esodo disumano: abbandonati nel deserto, catturati e torturati nei campi di concentramento libici, lasciati morire in mare o magari crudelmente respinti. Apro il mio cuore davanti a te stasera, cara Santuzza nostra, perché la pandemia sembra essere diventata un motivo ulteriore di disinteresse, di chiusura e di respingimento. Come se il nostro malessere fosse una scusa buona per chiudere la porta in faccia a quanti, ancora una volta da noi, hanno ricevuto, dopo secoli di soprusi e di rapine, anche il virus che si trova sui barconi. Giorni fa, addirittura, abbiamo avuto l’ardire di rimandare in Libia, nei campi di concentramento, un bambino neonato. È stato il colmo dell’abiezione. E stasera davanti a te io devo gridare basta: basta con questo egoismo omicida e suicida! Basta con questa miopia! Se il virus non ci ha insegnato che il destino del mondo è uno solo, che ci salveremo o periremo assieme; se la pandemia ci ha resi ancora più pavidi e calcolatori, facendoci credere di poter salvare il nostro posto al sole, siamo degli illusi, dei poveri disperati. Basta con gli stratagemmi internazionali, con i respingimenti, basta con le leggi omicide. I “traditori degli ospiti”, ricordiamocelo, Dante li getta nel fondo dell’inferno (cfr La Divina Commedia. Inferno, Canto XXXIII). Ma l’inferno per questi nostri fratelli è diventata, per causa nostra, questa terra. È diventato questo «mare salato» di cui cantava il poeta, salato per le lacrime dei disperati che vi sono affondati senza riparo, senza una mano che li soccorresse, nella distruzione di ogni speranza. Per questo chiedo il tuo sostegno, Rosalia, perché il mare di Palermo, il nostro
Mediterraneo, torni ad essere uno spazio di pace e di concordia tra i popoli. Un mare dolce, un mare ospitale. La condivisione è la via della salvezza. Sei tornata a Palermo, dicevo, e hai radunato il tuo popolo, unito in preghiera. Tu ci ricordi stasera che solo l’unità nel dolore e nella sofferenza di tutti, solo la condivisione è la via della salvezza. E tu hai salvato Palermo, in quei giorni famosi. Ma non hai salvato la tua città come un ambasciatore che intercede presso il sovrano alla richiesta dei sudditi. L’hai salvata, lo ricordavo prima, salvando Vincenzo. Un giovane sposo, che aveva perso la sposa ed era sul punto di suicidarsi, è stato soccorso e accompagnato da te. Tu gli hai affidato il tuo messaggio e poi gli hai consentito di morire. Non lo hai sottratto alla morte, ma hai dato senso al suo tempo facendo di lui un tuo messaggero, un annunciatore di vita. La violenza che voleva usare su sé stesso – la violenza che in tante forme affligge la nostra città, e penso soprattutto in questo momento al vandalismo nelle scuole, che è l’atto di una vita perduta, insensata – ecco, questa violenza tu l’hai trasformata in parola. Hai incontrato Vincenzo, gli hai parlato, hai messo sulla sua bocca il tuo messaggio, e l’energia di morte che voleva esercitare su di sé è diventata dinamismo di vita, parola di salvezza per Palermo. Ecco Rosalia. Credo che tu voglia dirci stasera che è stato quello il tuo vero miracolo. Che quel che hai fatto a Vincenzo ‒ la guarigione dal suo dolore mortale, il ritrovamento di un significato della vita ‒ sia il miracolo autentico di cui l’altro non è stato che una conseguenza naturale. Ma è accanto a Vincenzo, salvando lui che hai salvato Palermo. “A salvarvi – tu ci dici – non sarà una preghiera di supplica preoccupata per la vostra salute, ma la bellezza di mani fraterne che si levano a Dio e si sostengono insieme. Sarà la capacità di accompagnarvi, di ‘in-vocare’, di dialogare, di essere popolo che trova il senso del suo stare assieme e rifiuta ogni giorno la via della violenza”. Ridacci la passione per Cristo. E per finire voglio tornare a te, Santuzza. All’iscrizione rinvenuta nella grotta della Quisquina, in cui ci hai consegnato la più forte e scultorea definizione di te stessa: una innamorata di Cristo. Fa’, Rosalia, che torniamo a Cristo Figlio di Dio vivo fattosi carne, con tutto il cuore: a questo Uomo che ha annunziato agli uomini il Vangelo dell’amore di Dio, della speranza, della preferenza dei piccoli e degli umili, della bellezza di incontrarsi. «Per noi, Egli ‒ come diceva Paolo VI ‒ ha parlato, ha compiuto miracoli, ha fondato un regno nuovo, dove i poveri sono beati, dove la pace è principio di convivenza, dove i puri di cuore ed i piangenti sono esaltati e consolati, dove quelli che aspirano alla giustizia sono rivendicati, dove i peccatori possono essere perdonati, dove tutti sono fratelli» (Paolo VI, Omelia, Manila, 29 novembre 1970). Ridacci, Santa Rosalia, la passione per Cristo. La tua vita audace e bella ci testimonia che la fede non è l’apprendimento di una definizione. La fede «che tiene per il tempo e per l’eternità è una conoscenza che diventa amore…con tutto il cuore”» (P. Mazzolari, La Parola che non passa, 271). E lascia, cara Rosalia, che noi ti contempliamo nel meraviglioso dipinto del tuo ammiratore, il grande pittore Antoon Van Dick. Nel suo quadro egli ha intuito e ci ha donato l’immagine del tuo amore per la Madonna del Rosario. Maria, colei che di tutti è Madre, in particolare di chi soffre, colei che, come Madre, ci raduna nell’umana fraternità, Colei che – insieme a Giuseppe – ci ricorda che il compito dei compiti, che tutti ci unisce, è custodire la vita, custodire ogni vita, in particolare la vita nascosta… Come la tua, cara Rosalia, nascosta nella terra e nascosta nei nostri cuori, nascosta in Cristo e Patrona di Palermo. A te stasera il nostro grazie, la nostra compagnia, la nostra lode.
GUARDA IL VIDEO
Discorso integrale