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martedì 4 settembre 2018

L'inferno delle madri. Vita e morte di profughi e migranti di Marina Corradi - La verità ridotta a «bufala». Negare gli abusi sui migranti per rafforzare il consenso di Umberto Rapetto


L'inferno delle madri.
Vita e morte di profughi e migranti

di Marina Corradi

Ultimo rapporto della Missione in Libia dell’Onu, datato 24 agosto e diffuso ieri. «Migranti e rifugiati continuano a essere sottoposti a privazione della libertà e detenzione arbitraria in luoghi di prigionia ufficiali e non ufficiali; torture, inclusa la violenza sessuale, rapimento a scopo di riscatto, estorsione, lavoro forzato, esecuzioni illegali. Il numero dei prigionieri è aumentato a causa delle intercettazioni in mare e della chiusura delle rotte nel Mediterraneo, che impediscono le partenze. Colpevoli delle violenze sono ufficiali governativi come gruppi armati, bande criminali, contrabbandieri, trafficanti». «Le donne e le ragazze migranti – prosegue il rapporto – sono particolarmente esposte a stupro, prostituzione forzata e altre forme di violenza». Ai rappresentanti della Missione è stato tra l’altro negato l’accesso alla prigione Zuwarah, che pure è governativa. Gli occhi dell’Onu non devono superare le sue mura: a scuotere le false sicurezze di chi ama dire e gridare che le notizie riferite da quanti sbarcano in Occidente sono "esagerazioni", addirittura "invenzioni".

Proprio fra le testimonianze dei cento accolti dalla Cei e giunti a Rocca di Papa, età media 25 anni – ragazzi dunque, li chiameremmo, fossero figli nostri – ecco quella di otto giovani donne riferite a Carlotta Sami, portavoce in Italia dell’Acnur, tramite la mediatrice culturale. Le ragazze hanno detto di avere passato «l’inferno in terra», di aver subito «cose che nessuna donna dovrebbe sopportare». Stuprate e poi tenute prigioniere anche per anni, loro e altre compagne che non ce l’hanno fatta ad arrivare in Occidente. Rimaste incinte, hanno partorito in prigione bambini che sono morti di stenti a pochi mesi.

Sono parole che i media hanno pubblicato ieri, forse passate inosservate nella mole di notizie sui migranti. Ma, se ti fermi a pensarci, ti accorgi che descrivono qualcosa di più di ciò che già sappiamo, violenza, stupri, ricatti. Descrivono un inferno: delle donne, e poi delle madri. Prima violentate e recluse. Poi abbandonate in prigione per settimane e mesi; mentre dal loro giovane corpo arrivano i segni di una gravidanza. Riusciamo a immaginarci? Con negli occhi ancora le facce degli stupratori, sentendosi addosso ancora, e forse per sempre, le loro mani, queste ragazze si sono sapute madri di un figlio concepito nella violenza. Un figlio, forse, con gli stessi occhi dell’uomo che non dimenticheranno mai. Nel tempo immobile di una prigione, sentire in sé che quel figlio cresce. Si odia, il figlio di un tale sopruso, quasi fosse anche lui un invasore? È possibile. È possibile che nei lunghi mesi dell’attesa, mentre la sua presenza diventa evidente e il suo peso grava il ventre, una donna odi il figlio. Che il parto col suo dolore sembri un’altra violenza.

Ma piangono come tutti i bambini, quei bambini. Solo il seno materno li acquieta. Ci si addormentano sopra, fiduciosi. Non dilania, allora, il contrasto fra la ferocia subita e quell’abbandono inerme? Nel silenzio echeggiante di gemiti delle celle, le prigioniere in bilico su un crinale: odiare, come sarebbe umanamente anche ragionevole, oppure, tuttavia, amare. Ce ne saranno, che si stringono alla fine quel figlio al petto, spinte da un istinto antico, e perfino più forte del male.

Ma il bambino ha fame, e la madre non mangia a sufficienza, il latte le manca. È nel buio e tra lo sporco. Quei figli, forti abbastanza da venire al mondo senza esser voluti, in un tugurio, non reggono alla fame e alle infezioni. Si fanno lividi, un giorno dopo l’altro, il pianto più flebile. Dormono quasi sempre, ma è una sonnolenza malata che li tiene quieti. Come li vegliano, con quali occhi, le donne che ormai li sentono, nonostante tutto, vinte dall’istinto materno, figli? Quanto soffrono dell’annunciarsi della morte in quei volti di bambini? Una mattina trovarli accanto nel giaciglio, inerti. Piangere, per non volersene separare. Non è, quello sussurrato in poche faticose parole da povere migranti, a Rocca di Papa, l’inferno delle madri? E come mai, pure leggendo, quasi non ce ne accorgiamo? È il colore della pelle, che ci impedisce di immedesimarci?

Cose che accadono appena al di là del nostro mare. Chi fugge viene bloccato, persino riportato indietro, i porti ostentatamente sbarrati. Non possiamo accogliere tutti, dicono, ed è vero. E però lacera il pensiero di queste donne violate, e poi madri, che assistono all’agonia dei loro figli. L’inferno delle madri. Appena al di là del nostro mare.
La verità ridotta a «bufala». 
Negare gli abusi sui migranti per rafforzare il consenso
di Umberto Rapetto 
Generale GdF (r) - già comandante del GAT Nucleo Speciale Frodi Telematiche

Sarebbe stato bello. Che meraviglia se la storia delle torture ai migranti fosse stata una bufala. Ne avrebbero gioito le persone buone, consolate come chi si desta da un brutto sogno. Ne avrebbero goduto gli smascheratori di presunti scoop (glorificati per la loro impietosa opera di pulizia) e chi pratica lo squadrismo giornalistico in ossequio di un redivivo Min-CulPop (apprezzato per il silenziare la voce stonata di chi fa buona informazione).

Purtroppo la circostanza è drammaticamente vera, testimoniata da materiale video che nemmeno Quentin Tarantino si sentirebbe di proporre al proprio pubblico: filmati come quelli i cui fotogrammi – per rigida deontologia e linea editoriale a tutela dei lettori – sono stati sostituiti con le immagini di repertorio che hanno scatenato le polemiche di questi giorni. L’attenzione collettiva si è così spostata dai fatti alla loro rappresentazione.

La foto non corrisponde al video, le torture non ci sono: questo il ragionamento che ha fatto immediatamente presa sulla medesima gente che – dopo essersi ripetutamente ubriacata di 'fake news' – ha voluto palesare la propria sobrietà esibendosi in prove di equilibrio su un piede solo. Nonostante le 'porcherie' commesse da alti funzionari dello Stato e gli inqualificabili comportamenti di chi sfrutta biecamente il business dell’accoglienza, il nostro Paese continua a rappresentare un approdo ideale per chi fugge dall’inferno al di là del Mediterraneo.

La Libia – che non ha dimenticato la nostra occupazione coloniale e la partnership italiana nella capitolazione del regime di Gheddafi – non rappresenta un interlocutore affidabile e qualunque accordo zoppica in ragione della policefala gestione del potere politico locale. Soprattutto non è il 'porto sicuro' cui indirizzare i disperati che ne sono fuggiti e che non hanno voce per raccontare – a mutuare il replicante Roy Batty nel 'Blade Runner' di Ridley Scott – 'cose che voi umani non potreste immaginare'. Nemmeno il colpo di mortaio caduto ieri in prossimità della nostra ambasciata italiana a Tripoli servirà a capire l’instabilità e l’incertezza di quel fronte. Con la scusa delle 'foto false' (e le due pubblicate da 'Avvenire' non possono essere definite tali per una didascalia errata) c’è chi continuerà ad etichettare come 'crociere' le spaventose traversate e 'una pacchia' il soggiornare in certi inqualificabili lager dalle nostre parti.

Mentre in Libia ogni attività ispettiva degli organismi internazionali è impedita e continuano a consumarsi atrocità inenarrabili, continua la 'caccia al negro' che tanto entusiasma i mancati adepti di un Ku Klux Klan de noantri. I problemi – tutti irrisolti – del Paese passano in secondo piano. L’importante è far crescere il consenso, poco importa se è quello di una folla furente e incontrollabile. Per incrementare l’approvazione popolare il delegittimare (e un domani lo zittire) la stampa scomoda è un passaggio obbligato. Basta saperlo. E magari spiegarlo a chi si conosce. Una sorta di vaccinazione, anche se pure questa – come la verità – non va di moda.

Vedi anche i post precedenti: