Amore inventivo
San Vincenzo de' Paoli
di Antonio Savone
Sento questa memoria liturgica come una celebrazione della speranza, quella di poter intraprendere anche noi un cammino nuovo alla sequela del Signore Gesù e del suo Vangelo. Una scuola alquanto singolare quella di Vincenzo de’ Paoli.
Ciò che apprendiamo anzitutto alla sua scuola è che santi non si nasce. Santi si diventa attraverso un più o meno lungo percorso di conversione e di purificazione. Il percorso verso la santità si innesta sempre su quella dimensione di vulnerabilità che più ci caratterizza come persone, ciascuno la sua.
Vincenzo de’ Paoli aveva scelto di diventare sacerdote perché vedeva in ciò “come l’occasione per raggiungere un certo prestigio sociale e una dignitosa sistemazione economica”. Così scriverà egli stesso a sua madre. Aveva molti difetti. Era ambizioso: non a caso sarà l’umiltà, a lui per niente connaturale, la virtù-guida del suo percorso.
Aveva ribrezzo per le sue origini, difficilmente ne parlava: veniva da una famiglia di poveri e più o meno fino a 15 anni la sua vita era trascorsa nel fare il guardiano di porci. Quando era studente in collegio aveva rifiutato la visita di suo padre perché si vergognava del fatto che fosse zoppo, povero e malvestito. Aveva addirittura affermato di non conoscere quell’uomo. Scoprirà solo più tardi la sua vocazione, quando aprirà gli occhi sulla condizione in cui versavano gli ammalati ospiti di un ospedale che portava il nome di “Hotel Dieu”, “Casa di Dio”. Quell’esperienza lo toccherà profondamente nell’animo da segnare una vera e propria svolta.
Nell’epoca in cui vive Vincenzo de’ Paoli tanti erano quelli che si chiedevano il perché delle cose. Egli ribalta questo modo di affrontare le situazioni chiedendosi invece: “Perché no?” perché non si può cambiare? Era la domanda che in lui nasceva dalla spinta di amore che sentiva urgere dentro di sé. Non a caso parlerà dell’amore di Dio come di un amore inventivo, un amore cioè che non si rassegna al normale stato delle cose ma tutto escogita perché queste possano mutare. Chi ha fatto esperienza di questo amore inventivo sarà in grado di esprimere la fantasia profetica della carità.
Alla sua scuola, infatti, si apprende a superare la tentazione di uno spiritualismo disincarnato che privilegiando la dimensione cultuale si dimentica della storia e delle situazioni concrete. Desiderava che i suoi discepoli fossero “certosini in casa e apostoli in campagna” proprio a voler esprimere l’unità tra il culto e la vita.
Alla sua scuola si apprende cosa voglia dire rendere effettivo il Vangelo: farsi prossimo ad ogni uomo, accorgersi dei suoi bisogni, impegnarsi subito per soccorrerlo, farsi scomodare dalle sofferenze altrui, fare tutto il possibile per risolvere le sue difficoltà, sentirsene responsabile, coinvolgere altre persone ad intervenire insieme…
Alla scuola di Vincenzo de’ Paoli si apprende, inoltre, che i poveri non sono un oggetto di studio ma un mistero al quale avvicinarsi per lasciarsi trasformare da esso.
Da lui si apprende pure quella delicatezza che non umilia mentre tende la mano a chi è nel bisogno. Non basta fare la carità ma essere carità: quante opere di carità fatte senza la carità, magari rinfacciando e umiliando.
Da Vincenzo de’ Paoli si apprende ancora la capacità di stare a contatto con la realtà senza recriminare ma lasciandosene interpellare. Scrivendo al papa Innocenzo X, Vincenzo de’ Paoli ha ben presente lo stato miserevole in cui versa il suo paese: “la casa reale divisa da dissensi; il popolo scisso in opposti partiti; le città e le province rovinate dalle guerre civili… i contadini messi nell’impossibilità di raccogliere quello che hanno seminato e di seminare negli anni futuri…”. Dinanzi a questa situazione Vincenzo non si perde d’animo ma si rimbocca le maniche nella consapevolezza di essere stato inviato “ad infiammare il cuore degli uomini a fare quello che fece il Signore Gesù… non mi basta amare Dio se anche il mio prossimo non lo ama”.
Metteva spesso in guardia dall’essere “cristiani dipinti”. Si diventa cristiani dipinti quando ci si dimentica di piegare le ginocchia davanti al Padre e non ci si rimbocca le maniche con il sudore della fronte.
Stimava cosa più importante di tutte le missioni, le prediche, gli esercizi spirituali e le altre benedizioni date da Dio, il fatto che i suoi discepoli fossero talmente uniti da non parlare mai male degli assenti. Questo, a suo dire, era il segno che l’immagine della SS. Trinità è meglio impressa in noi.
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Nella ricorrenza del quarto centenario (27/09/2017) Papa Francesco ha inviato un messaggio alla famiglia vincenziana:
... San Vincenzo ha tradotto tutto questo con la vita e perciò parla ancora oggi a ciascuno di noi e a noi come Chiesa. La sua testimonianza ci invita a essere sempre in cammino, pronti a lasciarci sorprendere dallo sguardo del Signore e dalla sua Parola. Ci domanda piccolezza di cuore, disponibilità piena e umiltà docile. Ci sospinge alla comunione fraterna tra noi e alla missione coraggiosa nel mondo. Ci chiede di liberarci dai linguaggi complessi, dalle retoriche autoreferenziali e dagli attaccamenti alle sicurezze materiali, che possono tranquillizzare nell’immediato ma non infondono la pace di Dio e spesso persino ostacolano la missione. Ci esorta a investire nella creatività dell’amore, con la genuinità di un «cuore che vede». La carità, infatti, non si accontenta delle buone abitudini del passato, ma sa trasformare il presente. Questo è tanto più necessario oggi, nella mutevole complessità della società globalizzata, dove certe forme di elemosina e di aiuto, pur motivate da generose intenzioni, rischiano di alimentare forme di sfruttamento e di illegalità e di non portare benefici reali e duraturi. Per questo pensare la carità, organizzare la prossimità e investire sulla formazione sono insegnamenti attuali che da San Vincenzo giungono a noi. Ma il suo esempio ci stimola, al tempo stesso, a dare spazio e tempo ai poveri, ai nuovi poveri di oggi, ai troppi poveri di oggi, a fare nostri i loro pensieri e i loro disagi, perché un cristianesimo senza contatto con chi soffre diventa un cristianesimo disincarnato, incapace di toccare la carne di Cristo. Incontrare i poveri, prediligere i poveri, dar voce ai poveri, perché la loro presenza non sia zittita dalla cultura dell’effimero. ...
... San Vincenzo ha tradotto tutto questo con la vita e perciò parla ancora oggi a ciascuno di noi e a noi come Chiesa. La sua testimonianza ci invita a essere sempre in cammino, pronti a lasciarci sorprendere dallo sguardo del Signore e dalla sua Parola. Ci domanda piccolezza di cuore, disponibilità piena e umiltà docile. Ci sospinge alla comunione fraterna tra noi e alla missione coraggiosa nel mondo. Ci chiede di liberarci dai linguaggi complessi, dalle retoriche autoreferenziali e dagli attaccamenti alle sicurezze materiali, che possono tranquillizzare nell’immediato ma non infondono la pace di Dio e spesso persino ostacolano la missione. Ci esorta a investire nella creatività dell’amore, con la genuinità di un «cuore che vede». La carità, infatti, non si accontenta delle buone abitudini del passato, ma sa trasformare il presente. Questo è tanto più necessario oggi, nella mutevole complessità della società globalizzata, dove certe forme di elemosina e di aiuto, pur motivate da generose intenzioni, rischiano di alimentare forme di sfruttamento e di illegalità e di non portare benefici reali e duraturi. Per questo pensare la carità, organizzare la prossimità e investire sulla formazione sono insegnamenti attuali che da San Vincenzo giungono a noi. Ma il suo esempio ci stimola, al tempo stesso, a dare spazio e tempo ai poveri, ai nuovi poveri di oggi, ai troppi poveri di oggi, a fare nostri i loro pensieri e i loro disagi, perché un cristianesimo senza contatto con chi soffre diventa un cristianesimo disincarnato, incapace di toccare la carne di Cristo. Incontrare i poveri, prediligere i poveri, dar voce ai poveri, perché la loro presenza non sia zittita dalla cultura dell’effimero. ...
La storia del gigante della carità nel servizio di Francesco Durante per Tg2000