Il destino e la libertà
nell'incontro con l'assoluto
di Luigino Bruni
Voi che amate,
voi che anelate,
udite, voi, malati di addio:
siamo noi che cominciamo a vivere nei vostri sguardi,
nelle vostre mani che vanno in cerca nella luce azzurra –
siamo noi, che odoriamo di domani.
Già ci aspira il vostro fiato,
ci trae giù nel vostro sonno
nei sogni, che sono il nostro regno
dove la buia nutrice, la notte,
ci fa crescere,
fino a che ci specchiamo nei vostri occhi
fino a che parliamo alle vostre orecchie.
(Nelly Sachs, "Nelle dimore della morte")
La profezia è un bene capitale in ogni tempo e in ogni luogo – per ogni società, per tutte le comunità, per ogni persona. Quando poi si attraversano le grandi crisi, la profezia diventa un bene di prima necessità, prezioso ed essenziale come l’acqua e la stima.
Nelle crisi dall’esito incerto, quelle che ci attendevano nei bivi cruciali dell’esistenza, dove sbagliare direzione significa smarrirsi, perdere la strada, non tornare più a casa. Il nostro tempo, che in sé concentra una quantità impressionante di crisi e molte decisive, ha un bisogno infinito di profezia, perché abbiamo un bisogno infinito di reimparare a parlare, a parlarci, a raccontarci storie grandi, e quindi di reimparare ad ascoltare, ad ascoltarci, ad amare il silenzio, che è il genitore di ogni parola non vana. I profeti, insieme ai poeti, sono gli esperti della parola, i custodi della sua forza e del suo mistero – sono le sue levatrici. Senza una nuova-antica cultura della parola e delle parole, che si coltiva sempre nell’anima personale e collettiva, saremo sempre più vittime di parole che non controlliamo più. Non si può vivere, non si può essere essere giusti, senza la profezia. Possiamo avere mille "sacerdoti" e "re", ma se non abbiamo almeno un profeta, i poveri restano poveri per sempre, le comunità si trasformano in club di consumatori di beni di confort, la spiritualità diventa ricerca di emozioni, le fedi si trasformano in nevrosi.
Lungo la storia dei popoli, la profezia ha assunto molte forme. Quella che prese in Israele è stata però diversa, speciale, unica. La qualità della profezia biblica, la sua forza, la sua durata, la sua immensa bellezza, la cura e la fedeltà con cui è stata trasmessa nei millenni, ne fanno un patrimonio universale, una vetta del genio spirituale dell’umanità. Un grande dono per tutti. Un dono che purtroppo ha sempre raggiunto pochissime persone, che ne raggiunge sempre meno. Perché viene etichettata come fatto religioso, e così percepita inutile da chi non ha una cultura religiosa. Perché troppi cristiani pensano che il Vangelo contenga già tutto ciò che "serve" della Bibbia. Perché la profezia non-falsa non è ruffiana, non coccola le nostre certezze e i nostri comodi, non risponde ai gusti dei consumatori. E perché per capire e amare quelle parole altre, ci sarebbe bisogno di altri tempi, altri ritmi, di una vita diversa dalla nostra distratta, frammentata e velocissima.
Geremia è un incontro che può cambiare la vita. Perché è l’incontro con un assoluto – come Giobbe, Qohelet, Paolo, Leopardi. Ed è sempre molto raro nella vita incontrare qualcuno o qualcosa che porti una o più dimensioni di assoluto, e quindi di inedito, nuovo, originale.
Nel libro di Geremia ci sono molte parole di YHWH, ma ci sono anche molte parole di Geremia. Il suo libro ci svela l’uomo Geremia, con i suoi dubbi, le sue crisi, le sue domande. Come Osea, più di Isaia.
Geremia fa iniziare il suo libro con il racconto della sua vocazione. Forse tra le tante rivelazioni contenute nella sua profezia, quella più universale e eterna è la rivelazione della natura profonda di una vocazione. Anche per Geremia, nel principio (bereshit) della sua vita profetica c’è un incontro con una voce: «Mi fu rivolta questa parola del Signore: "Prima di formarti nell’utero materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni". Risposi: "Ahimè, Signore Dio! Ecco, io non so parlare, perché sono un ragazzo". (...) Il Signore stese la mano e mi toccò la bocca, e mi disse: "Ecco, io metto le mie parole sulla tua bocca. Vedi, oggi ti do autorità sopra le nazioni e sopra i regni per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare"» (Geremia 1,4-10).
Nel 627 a.C., quando probabilmente ricevette la sua vocazione, Geremia aveva circa vent’anni. La sua esperienza profetica si sviluppa nell’arco di quarant’anni (fino al 587, l’anno della grande deportazione in Babilonia, e forse anche oltre). Nasce nel villaggio di Anatot, vicino Gerusalemme, ma nel "territorio di Beniamino" (1,1), quindi in una tribù del Nord, in Israele, in una famiglia sacerdotale. Questi dati geografici e familiari dicono già molto della vita e del destino di Geremia. Diversamente da Isaia, il suo mondo non è Gerusalemme, le sue tradizioni sono quelle dei patriarchi, dell’Esodo, di Mosè, di Canaan, e quindi il suo orizzonte spirituale è quello dell’Alleanza. Suo padre Chelkia, poi, è erede di Ebiatar, sacerdote del tempio di Silo, tempio distrutto e maledetto (1 Samuele, 12-36), che Salomone aveva esiliato in quella terra (1 Re, 2,27).
Nella auto-presentazione di Geremia c’è allora già iscritto il suo destino: straniero, scartato, maledetto.
In quella esitazione di fronte alla chiamata («Io non so parlare, sono un ragazzo»), c’è la vocazione di Mosè e la sua resistenza («Io non so parlare»), ma c’è molto di più. Geremia scopre la sua vocazione da giovane, forse era ancora un ragazzo. Ma quando la scrive (o la detta) era un uomo adulto, nel pieno dell’agone profetico. Queste parole sono ricordo di quel primo decisivo giorno, ma sono soprattutto interpretazione del suo compito e del suo destino.
Vivere la vocazione e comprenderla sono due fatti molto diversi. Quando si incontra la voce, ci si ritrova dentro un evento globale e luminosissimo: si ode, si vede ("che cosa vedi Geremia?": 1,11), si è toccati nel corpo ("sulla tua bocca"). Si parte, si va, si vive. Ma per capire che cosa è accaduto in quell’evento occorre l’intera esistenza, e in genere non è sufficiente. Ci sono, però, dei momenti, dei fatti, delle crisi, in cui si comprende e ricomprendere il senso (significato-direzione-destino) di quell’incontro giovanile. Queste interpretazioni successive della vocazione a volte sono coerenti tra di loro, e quella che giunge dopo sviluppa e spiega quella precedente. Altre volte, la seconda cambia e rettifica la prima, la terza stravolge la seconda, e salta la coerenza della storia delle interpretazioni; ma non la coerenza dell’interpretazione della storia, che resta (o può restare) lo sviluppo di quella prima vocazione.
Geremia è un magistero su ogni autentica vocazione umana. Una voce che chiama a un destino ineluttabile al quale liberamente si risponde, sapendo che non esiste altra risposta possibile. È una libertà ed è un destino. Solo i profeti, e tra questi soprattutto Geremia, conoscono e riconoscono questa dimensione misteriosa e paradossale della vita vissuta come chiamata intima: la massima libertà insieme alla massima obbedienza, la consapevolezza che si sta vivendo l’unica vita possibile e non poterne scegliere un’altra migliore. Vedremo che questa scelta/non-scelta, questa libertà/obbligo, questa liberazione/legame è il cuore segreto della vocazione di Geremia, forse di ogni vocazione. Si incontra una voce, si risponde perché non si può non rispondere, perché quella voce esterna è anche la più intima. In quella risposta c’è semplicemente il proprio destino, inteso nel senso più bello e vero: il nostro posto al mondo ("quando eri ancora nell’utero materno…").
Tutto questo Geremia non poteva saperlo nell’anno 627, lo ha capito diventando adulto, almeno lo ha intuito. Nel benedetto giorno della chiamata, possiamo soltanto riconoscere che la voce da fuori che ci chiama era già dentro di noi. Ma il mistero doloroso e il luminoso dolore di ogni vocazione si svela quando quella voce diventerà la nostra carne. Ogni vocazione è incarnazione di una parola accolta nell’ignoranza di una giovinezza generosa. Il "non sapere" dove e come arriveremo, è la bellezza e il dramma di quel primo incontro.
Ciò che Geremia scrive da adulto non è allora la cronaca di quanto avvenne nel giorno della sua vocazione, «al tempo di Giosia, figlio di Amon, re di Giuda, l’anno tredicesimo del suo regno» (1,2). È la comprensione del suo destino. Vivendo, Geremia stava "demolendo e edificando", provava paura per le reazioni violente che le sue parole generavano: «Ed ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata, una colonna di ferro e un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese. Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti» (1,18-19). E lì, nel mezzo della battaglia, inizia a comprendere quella prima antica epifania. E ce la racconta, perché non abbiamo paura nelle nostre battaglie, qui ed ora.
Geremia vive, opera e scrive durante la più grande crisi del popolo di Israele, che culminerà con la presa di Gerusalemme, la distruzione del tempio e la deportazione in Babilonia. Vive in un piccolo regno schiacciato da grandi superpotenze. Per vocazione, deve contrastare i suoi capi e i sacerdoti che in quella crisi epocale continuano ad illudersi di poter resistere agli imperi che li stanno minacciando. Geremia capisce, per vocazione, che un mondo sta finendo. Lo dice, lo grida, ma il popolo non vuole ascoltarlo, e lo perseguita. Geremia è il profeta del tempo della notte, ma con un sole dentro che gli consente di vedere una aurora diversa da quella che il popolo, illuso, vorrebbe vedere. E l’annuncia, la canta. Fino alla fine. A tutti, ma prima ai re e ai sommi sacerdoti, senza paura.
Nel suo grido fedele e doloroso Geremia è compagno di Giobbe, del "servo sofferente", del Cristo, delle notti e delle albe diverse dei profeti di ogni tempo, dei quali è amico necessario: «Geremia, tuttavia, varca Mezzanotte. La Luce è nel suo Libro, e l’allegrezza anche. Ma è nelle secche e nelle scogliere che bisogna vederle all’improvviso rilucere e udirle cantare» (André Neher, Geremia).
(Fonte: pubblicato su "Avvenire")