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giovedì 20 settembre 2018

Adolescenti che muoiono per un selfie e per un "gioco" online. Interventi di Massimo Recalcati, Mario Pollo e Alberto Pellai

Adolescenti che muoiono  per un selfie e per un "gioco" online.
 Interventi di Massimo Recalcati, Mario Pollo e Alberto Pellai

Quel figlio senza rete
di Massimo Recalcati



In questo caso, nel caso del quindicenne precipitato dal tetto di un centro commerciale, non sembra esserci alcun determinismo evidente, né psichico, né sociale: no droga, no indigenza economica, no cattiva educazione, no genitori irresponsabili, no traumi, no isolamento, no disturbi psichiatrici. Tutto nella norma. Un gruppo di giovani amici dalle vite regolari sfida la morte. Potrebbe essere nostro figlio. È un nostro figlio. Non conviene scandalizzarsi, non conviene pensare che non toccherà mai a noi il dolore sordo che sta dilaniando i suoi familiari. Certo, i suoi post che lo ritraggono sui tetti di condomini, a penzoloni nel vuoto, sono inquietanti, ma radicalizzano, in realtà, una inquietudine che si può facilmente provare di fronte al disagio di ogni adolescente. Perché sfidare la morte, sfidare il pericolo, cercare il brivido dell’impresa impossibile, immortalarsi eroe di fronte allo sguardo dei social? Voler apparire senza paura di fronte alla morte, non è una semplice deviazione psicopatologica della burrascosa transizione adolescenziale, ma un’ombra che accompagna questo difficile passaggio della vita. La spavalderia dell’adolescente, come recitava un bel libro di Charmet, non è mai separabile dalla sua fragilità, anzi, spesso il loro rapporto è inversamente proporzionale: più è avvertita una fragilità di fondo più si incentivano comportamenti spavaldi.

L’impresa che attende ogni adolescente è difficile: abitare un nuovo corpo, trovare una nuova lingua, inventarsi un nuovo stile. Il sesso e la morte, dormienti nell’età dell’infanzia, irrompono nell’adolescenza sulla scena. Come abitare un corpo animato dalla pulsione sessuale? Come sopportare l’angoscia dell’incontro con la nostra finitezza, con la vulnerabilità della vita? Questioni decisive per ogni adolescente che impongono innanzitutto il lutto dell’infanzia, la rinuncia alla sua condizione narcisistica e l’esposizione all’avventura del mondo. Ogni adolescente, come ricordava Rimbaud, si trova gettato in un esilio: deve abbandonare i territori conosciuti e familiari dell’infanzia per incamminarsi verso una terra straniera, verso lo splendore e l’orrore del mondo. Abbiamo durante l’infanzia equipaggiato bene i nostri figli per questo difficile ma necessario viaggio? L’esigenza di libertà che essi devono avere il diritto di manifestare cozza contro la preoccupazione per un mondo che sembra essere divenuto tanto ricco di opportunità quanto insidioso. È stato notato da tempo e da molti autori che la carenza di riti di passaggio collettivi, in un Occidente che sponsorizza ciecamente il mito del successo e dell’affermazione individuale, lascia i nostri figli a sé stessi. Devono inventarsi allora queste ritualizzazioni simboliche assenti in prove di coraggio, in prestazioni " mitiche", in esibizioni private che i social rendono pubbliche. La cultura speculare del selfie, dell’immagine di sé, sostenuta da una tecnologia che favorisce l’espandersi di un sentimento artefatto di onnipotenza, insieme al declino generale del valore della parola e della sua Legge, amplificano questa condizione di solitudine. Se i dispositivi simbolici che accompagnavano l’adolescente al passaggio verso la vita adulta si sono dissolti, resta l’atomizzazione individualista dei legami. Ne sono un esempio limite i cosiddetti Neet o gli ipponici Hikikomori, dove la sconnessione da ogni legame collettivo assume la forma grave di una vera e propria regressione autistica. La verità è che non possiamo evitare né le turbolenze dell’adolescenza, né i suoi rischi, né, tanto meno, i suoi dolori. La verità è che non possiamo garantire la felicità dei nostri figli. Possiamo solo vegliare affinché esistano attorno a loro degli adulti che sappiano offrirsi come destinatari della parola. È il ruolo cruciale giocato innanzitutto dalla Scuola che quando è davvero buona favorisce la possibilità di tradurre in parole la sofferenza e il disagio. Si dovrebbe sempre ricordare l’importanza che nei momenti di maggior caos, di caduta, di fallimento, di delusione vissuti dai nostri figli esistano adulti capaci di dare e di ascoltare la loro parola. Non si tratta di sponsorizzare la retorica del dialogo e dell’empatia, ma di insistere sull’importanza di non lasciare cadere nel nulla i nostri figli. Di testimoniare che non sono soli. Anche la spavalderia provocatoria può essere una forma di invocazione

(Pubblicato su La Repubblica del 17.09.2018)





Selfie della morte. Le sfide dei giovani nel web, 
il commento del sociologo Mario Pollo

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Servizio TG2000




SFIDARE LA VITA PERCHÉ NON SI CONOSCE LA MORTE
di Alberto Pellai

Alberto Pellai consiglia ai genitori degli adolescenti di mostrare loro l'irreversibilità della morte. Di portarli ai funerali e nei cimiteri. Così che possano capire che non è quella irreale e senza conseguenze dei loro videogiochi


E’ pomeriggio e Igor, 14enne, sta davanti al suo computer a cercare online di tutto. Di più. Si imbatte in uno dei tanti video che racconta i molti modi pericolosi in cui si può vivere un’emozione forte, senza uscire da casa. Una sorta di sballo domestico, in cui ci si butta in azioni al limite della sopravvivenza, per provare sensazioni forti. Igor quelle emozioni forti le ha vissute dal vivo in bel altri contesti: è un rocciatore, figlio di un “climber” esperto dell’area milanese. Le emozioni dal vivo, nella sua giovane vita, non sono mancate come dimostra una bellissima – e ora a guardarla dolorosissima – fotografia che lo ritrae impegnato a scalare una roccia con mani e piedi come unico punto di presa sulla parete verticale su cui cerca appoggio.

Quel pomeriggio l’online propone a Igor qualcosa di molto pericoloso: si chiama blackout, o «gioco» del soffocamento”, una sorta di sfida con se stessi che consisterebbe in una specie di strangolamento volontario da spingere fino al limite della totale carenza di ossigeno, con possibile conseguente svenimento. Igor afferra una fune, che è solito usare in montagna, e segue le indicazioni del video stringendola come un cappio. Fino a svenire. Fino a morire.

Quello che in origine è sembrato il suicidio inspiegabile di un 14enne pieno di vita, qualche giorno dopo, analizzando le sue navigazioni online, ha portato a conclusioni ben differenti. La morte di Igor sembrerebbe dovuta al desiderio di imitare qualcosa che aveva dentro una serie di caratteristiche che ai preadolescenti piacciono molto: era trasgressiva, vietata, pericolosa, mostrata in rete come una sfida. Pericolosa e allettante allo stesso tempo.

Ora la Procura ha avviato le indagini. L’ipotesi di reato è “istigazione al suicidio” e si vorrebbe oscurare ogni sito che parla e propone “Blackout” come una delle tante cose che permettono di sballarsi e di sfidare il limite, stando comodamente seduti sulla poltrona di casa propria.

I genitori di Igor, hanno lanciato, via web un messaggio a tutti noi, mamme e papà, esortandoci in questo modo: «Fate il più possibile per far capire ai vostri figli che possono sempre parlare con voi, qualunque stronzata gli venga in mente di fare devono saper trovare in voi una sponda, una guida che li aiuti a capire se e quali rischi non hanno valutato. Noi pensiamo di averlo sempre fatto con Igor, eppure non è bastato. Quindi cercate di fare ancora di più, perché tutti i ragazzi nella loro adolescenza saranno accompagnati dal senso di onnipotenza che se da una parte gli permette di affrontare il mondo, dall’altra può essere fatale».

Trovo giuste e sacrosante le parole del padre di Igor, ma aggiungerei:
Aiutate i vostri figli a stare sempre ben saldi nella vita. Insegnategli ad avere rispetto della vita, la loro e quella degli altri. Ma educateli anche a comprendere profondamente e concretamente cos’è la morte. La morte per i nostri figli è spesso qualcosa di irreale, che può essere sfidata come succede nei videogiochi. L’ho detto e ridetto più volte: i nostri figli vedono morti finte dappertutto, la procurano e la sfidano in modo fittizio dentro a videogiochi nei quali stanno immersi per ore. E magari, non hanno mai partecipato a un funerale, non hanno mai visitato un cimitero.

Nell’illogica ed illusoria volontà di vederli sempre felici, abbiamo cresciuto figli che magari hanno saputo che un nonno o uno zio non c’erano più, a settimane di distanza dal funerale. Come a volerli proteggere da un dolore che invece è necessario integrare e mettersi dentro. Perché se non impari che la morte è separazione e dolore, che è irrimediabile e non la puoi “resettare” come succede in un videogame, allora la puoi trasformare in una specie di sfida per vedere fino a dove si può arrivare. In questi anni, abbiamo visto i nostri ragazzi morire per farsi un selfie con un treno ad alta velocità che arrivava alle loro spalle.

Li abbiamo visti morire, buttandosi dall’ultimo piano di un albergo in una microscopica piscina posizionata dieci piani più giù. E ogni volta che leggiamo queste notizie, a noi genitori ci si stringe il cuore e ci domandiamo cosa fare per aiutarli a non cadere più in questi irrimediabili errori. Il papà di Igor ci invita a far loro capire che possiamo parlare di tutto con loro. Io aggiungerei: non è solo una questione di parole. E’ anche una questione di valori, di stili di vita, di aderenza al principio di realtà, di costruzione di un modello di sé e di “sé con gli altri” in cui vengono contemplate anche visioni interiori e spirituali della vita, che assegnano alle cose fondamentali del nostro essere il giusto posto. E quindi il giusto valore. E questa cosa, rispetto al valore della vita e della morte, con i nostri figli nativi digitali, noi genitori del terzo millennio non la stiamo facendo bene, anzi a volte non la stiamo facendo per niente

(Fonte: Famiglia Cristiana)