Un'opinione pubblica che sia di comunione
di Enzo Bianchi
pubblicato in “Vita Pastorale”
n. 11 del dicembre 2017
Se la vera urgenza per ogni Chiesa, per ogni comunità e per ogni cristiano è la conversione al Vangelo che è Gesù Cristo, a Gesù Cristo che è il Vangelo, allora da questa conversione devono scaturire comportamenti, abiti, posture ispirate e plasmate dal Vangelo. Secondo la visione che mi sono fatta della Chiesa italiana — come osservatore partecipe e attento, favorito da una certa marginalità, ma facilitato da "incursioni" o missioni vissute nelle diverse diocesi dal nord al sud per la predicazione della Parola a presbiteri e ai tanti battezzati che tentano di vivere il cristianesimo — penso che sia urgente soprattutto una convergenza, la formazione di un'opinione pubblica ecclesiale animata da volontà di comunione. Oggi la Chiesa italiana soffre, soprattutto, di questa mancanza di comunione. Se vogliamo dire la verità senza nasconderla, dobbiamo confessare che nella Chiesa sono presenti molti conflitti: tra visioni opposte della collocazione della Chiesa nella compagnia degli uomini, tra strategie pastorali, tra modalità differenti di interpretare la fede, di concepire la liturgia. Conflitti che, a volte, esplodono soprattutto sui mass media e nel mondo dei social, dove il linguaggio è guerra, ma anche conflitti più sopiti, che stentano a emergere ma scavano solchi profondi che distanziano gruppi cristiani tra loro, fino all'indifferenza. E, in alcuni casi, addirittura al disprezzo gli uni per gli altri. Questa non è una lettura catastrofica o pessimista, ma un prendere atto che una tale situazione contraddice fortemente la missione che si vuole attuare in modo fecondo in una umanità sovente indifferente al cristianesimo. Non solo, questa situazione sta logorando molti credenti, portandoli a disaffezionarsi al tessuto ecclesiale. Già Pio XII, nel 1950, lamentava la mancanza di opinione pubblica nella Chiesa, ma negli ultimi decenni quel seme che il Concilio aveva deposto e che era divenuto un germoglio è stato soffocato. Non si dimentichi che l'Azione cattolica è stata "silenziata" per un decennio, che i laici cattolici impegnati nella polis sono stati svuotati di ogni mandato talora assunto, in loro vece, da qualche autorità episcopale —, che ha regnato una censura che interdiceva la parola nella Chiesa a testimoni fedeli al Vangelo e alla Chiesa stessa (basti citare il piccolo fratello Arturo Paoli, ormai anziano), che si era giunti ad aver paura di un'espressione della lettera agli Ebrei che chiede ai discepoli di Gesù di essere "cristiani adulti". Anni di critiche feroci a uomini di Chiesa, verso i quali si arriva a dubitare della saldezza della loro fede e dell'ortodossia della loro dottrina. Con papa Francesco la situazione è mutata. Anche nella Chiesa italiana si respira una nuova libertà, non si vive nel timore di censure alle quali non si può rispondere, ma i conflitti restano. E in alcune discussioni paiono più esasperati. Personalmente sono preoccupato per la crescente opposizione a papa Francesco: ormai c'è chi lo accusa di magistero incerto e ambiguo, addirittura di assecondare l'eresia. Questo avviene "nella Chiesa", tra credenti cattolici fino a ieri in profondo ossequio al Papa. Cos'è successo perché sia divenuta possibile una tale contestazione? Papa Francesco non ha mutato nulla della dottrina: è un uomo della tradizione cattolica più schietta, per molti aspetti condivide posizioni che sono comuni ai conservatori. Perché, allora, tanta acredine da parte di alcuni e una sorda opposizione di molti altri? In verità, anche confrontandomi con chi lo contesta, ho trovato una sola risposta: non la dottrina, non la fede, ma la sua semplicità priva di atteggiamenti ieratici, il suo sottrarsi a immagini sontuose del Papa, il suo stile confidenziale che abbraccia, tocca, stringe senza voler affermare la sacralità della sua persona, provocano una sorta di paura che un vescovo ha espresso in questi termini: «Giorno dopo giorno smonta tutto il pontificato romano!». Ma credo ci sia anche un'altra ragione: quella del suo magistero che mette al primo posto il Vangelo esigente di Gesù quale annuncio che ha come primi clienti di diritto i poveri, la sua sollecitudine per i migranti, i perseguitati, i bisognosi verso i quali volge il suo sguardo paterno con priorità rispetto ad altre realtà che abitano il recinto del sacro. Da qui l'annuncio reiterato della misericordia, un richiamo pressante che scandalizza: se, infatti, c'è amore gratuito di Dio, come si potrà far capire alla gente che Dio vuole comportamenti di giustizia, riconciliazione e pace? Se non c'è il timore della pena e del castigo, cosa farà la gente della propria libertà? Così, ritroviamo sulla bocca anche di diversi cattolici espressioni di dissenso verso il Papa un tempo semplicemente inimmaginabili. Infine, nella conflittualità della Chiesa, purtroppo sottovalutata da molti, va annoverata anche la posizione di quei tradizionalisti che fanno dell'antica liturgia il loro motivo di battaglia. Benedetto XVI, con grande misericordia e avendo a cuore la concordia ecclesiae, aveva concesso già dieci anni or sono la possibilità di celebrare nel rito preconciliare. Ma, in realtà, il conflitto si è acceso ancor di più. Da un lato, ci sono presbiteri che si rifiutano di celebrare secondo l'antico rito — che, in base alle norme vigenti, è "rito straordinario" pienamente lecito — e giungono a deridere i cattolici che a esso sono affezionati. Questo atteggiamento non aiuta la pace ecclesiale: il rito ora "straordinario" è stato per secoli il rito della Chiesa cattolica latina, che ha fecondato la fede di generazioni di fedeli, inclusa la mia stessa. Non va, quindi, deriso né giudicato privo di ogni capacità di costituire la celebrazione eucaristica di alcuni fedeli cattolici ancora oggi. Dall'altro lato, invece di accogliere il dono di Benedetto XVI e viverlo nella gratitudine verso la Chiesa, si continua ad affermarlo "contro" il nuovo rito di Paolo VI ritenuto "protestantizzato", depauperato, fuorviante. No, non è salutare proseguire in questo modo. Sarebbe auspicabile un intervento autoritativo: non serve la richiesta di adesione ad alcune affermazioni conciliari (di quanti decreti di concili del passato oggi non teniamo più conto...), si lasci piuttosto che l'uso del rito di Pio V sia praticato da quei fedeli che a esso sono affezionati e lo vivono seriamente, per ragioni di fede e non di folclore o di cultura identitaria. Ma, al contempo, si chieda a quanti lo praticano di confessare che c'è un'unica eucaristia nella Chiesa cattolica. E che se le forme di celebrazione sono due, queste non devono farsi concorrenza, come se fossero prodotti sulle bancarelle di un mercato. Che senso ha, per esempio, l'andare di monsignori ed eminenze qua e là a celebrare secondo l'antico rito, come se si dovesse promuovere un prodotto, dichiarando che il "rito straordinario" deve prevalere ed estinguere quello ordinario voluto e deciso da un concilio e da due papi, Giovanni XXIII e Paolo VI? Si chieda, dunque, rispetto e riconoscimento reciproco: solo così ci sarà pace nella Chiesa. Altrimenti, continueremo a farci tanto male da soli!
La Chiesa deve conoscere la libertà accompagnata dalla fiducia nei fratelli e nelle sorelle che vivono la comunità. Solo questa comunione, e non altri segni, fossero pure miracolosi, può destare la fede in quanti riconosceranno i cristiani come discepoli di Gesù (Gv 13,35): solo l'amore fraterno e la concordia ecclesiale narrano e testimoniano il Vangelo di Gesù Cristo.