Giornata della solidarietà: abbandonare l’«io»
Politica e carità
le due mani del «noi»
di Francesco Gesualdi
Il mondo ha bisogno di solidarietà. Per il bene di tutti, non solo dei deboli perché prima o poi anche i ricchi e i più forti cadono a terra e hanno bisogno di qualcuno che tenda loro la mano per aiutarli a rimettersi in piedi. Un concetto chiaro per personaggi come La Pira, Moro, ma anche Togliatti, Nenni e il resto dei padri costituenti che iscrissero la solidarietà fra i valori fondanti della nostra comunità nazionale. Riconoscendo che senza solidarietà non esiste società, l’articolo due della Costituzione chiede ad ogni cittadino «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Un solco in cui si inseriscono anche le Nazioni Unite che hanno dichiarato il 20 dicembre di ogni anno Giornata mondiale della solidarietà umana, dedicando quella di quest’anno in particolare ai tre miliardi di persone sprofondate nella miseria. Una condizione ormai non più confinata solo all’Africa e all’Asia, ma sempre più presente anche nella nostra Europa e perfino nella nostra Italia come ci ricordano i sette milioni di persone in stato di «grave deprivazione materiale».
Il primo dovere di fronte agli affamati, agli ignudi, ai senza tetto, è soccorrerli per farli uscire dallo stato di penuria. Non a caso le Nazioni Unite hanno lanciato il programma di raccolta fondi per raggiungere, entro il 2030, diciassette obiettivi di sviluppo sostenibile dei quali 'Avvenire' ha dato approfondito conto nel corso di quest’anno. Il fabbisogno è stimato in circa 500 miliardi di dollari all’anno, mentre le somme destinate dai Paesi ricchi alla cooperazione internazionale si fermano a 140 miliardi. Se si trovassero i rimanenti 360 miliardi, magari riducendo la spesa in armamenti, che nel 2016 ha raggiunto i 1.690 miliardi, sarebbe un bel passo avanti. Ma la solidarietà in denaro da sola non basta, perché non incide sui meccanismi che producono degrado umano. Oggi sappiamo che fame, morte prematura, indigenza, non sono frutto della sfortuna o di un destino crudele, ma dell’ingiustizia, un cancro che finché non sarà debellato vanifica gli effetti stessi della solidarietà comunemente intesa.
Molti anni fa quando, ancora allievo della scuola di Barbiana, venni mandato in Algeria per conoscere da vicino la realtà di un Paese lasciato in macerie dal colonialismo europeo, rimasi sconvolto dalla quantità di poveri che incontravo per strada. Quelle mani tese mi mettevano angoscia e indecisione: sentivo che facendo la carità contribuivo a ledere la loro dignità di persone costrette a raccomandarsi al buon cuore dei passanti per sopravvivere, ma nel contempo sapevo che senza i pochi spiccioli racimolati, la loro vita sarebbe stata anche peggiore. Non sapendo che fare, posi il problema alla mia scuola e così mi rispose il maestro Lorenzo Milani: «Oggi s’è letto la tua lettera sull’elemosina e se n’è parlato tutti insieme. Michele e Carlo si son messi a dire che loro non l’hanno mai fatta e non la faranno mai perché non è educativo. La loro alternativa è creare lavoro, ma richiede tempo. Conclusione: l’elemosina è orribile quando chi la fa crede d’essersi messo a posto davanti a Dio e agli uomini. La politica è altrettanto orribile quando chi la fa crede d’essere dispensato dal sentir bruciare i bisogni immediati di quelli cui l’effetto della politica non è ancora arrivato. È evidente che oggi bisogna con una mano manovrare le leve profonde (politica, sindacato, scuola) e con l’altra le leve piccine ma immediate dell’elemosina».
Carità e politica: le due facce della solidarietà che debbono essere attivate contemporaneamente per assicurare dignità all’umanità.
Anche Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’ ci ricorda che: «Occorre dare maggior spazio a una sana politica, capace di riformare le istituzioni, coordinarle e dotarle di buone pratiche, che permettano di superare pressioni e inerzie viziose». Che tradotto significa ampliamento della spesa pubblica per garantire a tutti il diritto ai bisogni di base come sanità, alloggio, istruzione; una politica fiscale più equa e progressiva per ridurre le disuguaglianze, una gestione del debito pubblico che non pensi solo ai creditori ma salvaguardi anche i cittadini, una lotta seria ai paradisi fiscali per impedire alle multinazionali di derubare i governi del Nord e del Sud, una politica commerciale internazionale che sappia dosare protezionismo e libero mercato non in maniera ideologica ma in base ai bisogni dei produttori più deboli e dell’equilibrio ambientale, una tassazione internazionale delle transazioni finanziarie per impedire alla finanza di nuocere.
Ma perché cambino le regole dobbiamo cambiare mentalità. Dobbiamo passare dalla cultura del merito a quella del diritto, dalla cultura della compravendita a quella della gratuità, dalla cultura della proprietà privata a quella del bene comune. In una parola dobbiamo passare dalla cultura dell’io, tanto enfatizzata dai pensatori post rinascimentali come Mandeville, Locke, Adam Smith, di cui la nascente classe mercantilista aveva bisogno, alla cultura del noi di cui è portatore il Vangelo. Perché solo se tutti stanno bene potremo stare bene anche noi singolarmente. Scriviamocelo come pensiero guida nel nostro smartphone.
(fonte: Avvenire 20/12/2017)