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martedì 12 dicembre 2017

Il processo: a Francesco o di Francesco? di Andrea Grillo




Il processo: 
a Francesco o di Francesco?
di Andrea Grillo



Due accezioni di processo si fronteggiano nel dibattito ecclesiale contemporaneo. Mi sembra utile riflettere brevemente su questa distinzione, che ruota intorno al significato della medesima parola.

a) Da un lato vi sono minoranze riluttanti, ma spesso ben finanziate, che pensano di dover mettere “sotto processo” il papa, sollevando obiezioni sulle sue posizioni dottrinali e disciplinari. In questo caso “processo” assume il significato tecnico di “messa in stato di accusa”.

b) Dall’altro vi sono le ripetute parole con cui Francesco stesso, insieme alla gran parte dell’episcopato e del popolo di Dio, invita ad assumere in modo nuovo la identità ecclesiale come “processo”. L’invito alla uscita dalla autoreferenzialità e al riconoscimento del primato del tempo sullo spazio è precisamente la riscoperta del “processo” come logica della fede.

Potremmo osservare, in modo molto generale, che il senso “giudiziario” del “processo a Francesco” e quello “ontologico”, del “processo di Francesco”, non sono necessariamente alternativi. Anzi, non è affatto detto che non si possano e non si debbano trovare accurate correlazioni tra il primo e il secondo. Ma sta di fatto che, nel dibattito attuale, le due accezioni finiscono con l’escludersi radicalmente. In particolare la prima, quella giudiziaria, non riesce a comprendere le ragioni della seconda, quella ontologica. Può “fare processi” solo perché non “riconosce processi”.

Vorrei soffermarmi qualche momento su questa difficoltà.

La reazione viscerale al pontificato di Francesco, evidentemente, si fonda su qualcosa di molto più antico di lui, ossia sulla resistenza a oltranza della identità cattolica al mondo moderno. In questione non è Francesco, ma la apertura della Chiesa alla modernità, che ha trovato una svolta decisiva nel “processo” inaugurato dal Concilio Vaticano II. Poiché tale apertura non è affatto compresa, anzi è ritenuta la causa di ogni male, allora la mancata recezione del “processo conciliare” determina la “messa in stato di accusa” del Vaticano II e, ovviamente, del primo papa che appare, non solo biograficamente, come figlio legittimo di quel Concilio.

La novità del Concilio è, precisamente, di aver assunto un rapporto non statico, ma processuale e creativo con la tradizione. In proposito è utile leggere quanto scrive Ch. Theobald sull’ultimo numero di “Vita e Pensiero” (5/2017, 77-84) con il titolo Una nuova grammatica per rileggere il Concilio. Se il “depositum fidei” è essenzialmente un “processo”, che non si risolve mai in una semplice evidenza proposizionale o intellettuale, il discernimento della tradizione deve fare necessariamente i conti con la storia comune, con la storia civile, con la cultura ambiente. Per il discernimento della tradizione non solo la Parola di Dio, ma anche la “esperienza degli uomini” diventa così decisiva (cfr. GS 46).

La pretesa di “mettere in stato di accusa” questa lettura è una antica tentazione delle reazioni anticonciliari. Inizia subito, già durante il Concilio e costella tutti i decenni successivi.

La pretesa di un “processo inquisitorio” contro Francesco dipende dalla incapacità di cogliere la verità e la urgenza del processo con cui il Concilio ha profondamente ricompreso la tradizione.

Fare il processo non ha come obiettivo Francesco o il Concilio, ma l’idea stessa di “processo”, come forma della tradizione. La resistenza a Francesco diventa così tanto più viscerale quanto più si lega ad una concezione statica e monumentale della tradizione, su cui nessuno ha il diritto di mettere mano.

Sotto questo punto di vista, non si dovrebbe parlare di processo a Francesco, ma di processo alla tradizione intesa come processo, come “grammatica generativa”, come “razionalità storica e procedurale” (Theobald). Una cultura cattolica bloccata e traumatizzata dal mondo tardo-moderno si esprime “mettendo in stato di accusa” tutto ciò che non coincide con la propria visione chiusa e asfittica non solo della esperienza degli uomini, ma ancor più della Parola di Dio. Massimalismo morale e fondamentalismo biblico sono gli orizzonti inaggirabili di questa cultura. E non a caso si tratta di posizioni visceralmente statiche, prive di processo alcuno.

Vogliono fare il processo solo coloro che non riconoscono la fede e la Chiesa come processo.

(fonte: Come se non)
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