Fecondità dell’assurdo
di Bruno Forte
“Io traggo dall’assurdo tre conseguenze: la mia rivolta, la mia libertà e la mia passione”. Queste parole di Albert Camus testimoniano quanto possa essere feconda per il pensiero e per la vita l’idea dell’assurdo. In quanto lontananza (“ab-“) da ciò che è consonante (“surdus”, probabilmente dalla radice “suar”, “suonare”), l’assurdo è “dissonanza” che spezza la continuità del significato, pur rinviando a una possibile eccendenza del senso: proprio così, mentre segnala l’impossibilità di accedere alla verità, l’assurdo non esclude il rinvio all’orizzonte in cui essa mostra i suoi bagliori di luce nei fenomeni a noi percepibili. Si comprendono allora le tre conseguenze che Camus trae dall’assurdo, e che il libro appena pubblicato da un giovane docente dell’Università Lateranense, Mirko Integlia (Filosofie e narrazioni dell’assurdo, Mimesis Edizioni, Milano 2017, con una mia prefazione) accosta in maniera rigorosa e affascinante, rivisitando le filosofie e le narrazioni dell’assurdo in quattro autori che ne hanno fatto il cardine del loro pensiero: Giuseppe Rensi, Jean-Paul Sartre, Albert Camus ed Emil Cioran. Si tratta di voci diverse, “che hanno elevato a condizione trascendentale dell’esistenza umana un’insensatezza che altro non è, forse, se non il deserto di un’epoca segnata nel suo cuore dalla morte di Dio (Nietzsche) e da un’umanità in rivolta (Camus) contro la propria finitezza” (11s). L’assurdo suscita anzitutto la rivolta: “La nostra epoca - scrive Integlia -, plasmata da presupposti metafisici, è segnata nei suoi tratti più profondi dalla perdita del senso e dal trionfo dell’assurdo” (ib.). Sviluppando il suo itinerarium in absurdum, l’Autore discende in questo “cuore oscuro che pulsa al fondo della modernità”, confrontandosi con lo spirito nichilista che attraversa le nervature profonde della nostra epoca, cogliendovi il sapore di resistenza e di rivolta, che ad esempio proprio Albert Camus propone contro l’esperienza della finitezza, nella quale l’umanità dell’uomo “finisce per annientare, spiritualmente prima che fisicamente, sé stessa” (ib.).
In questa luce l’assurdo, di cui forse Giuseppe Rensi più di ogni altro ha saputo evocare i riflessi di assoluto pessimismo e di irredimibile tragicità, è sfida, provocazione dolorosa, sorda e irriducibile, con cui il pensiero non può che osare la ribellione e la lotta: “cogitatio” è in tal senso pienamente un agitarsi corale (“cum - agitatio”), uno sferzare il vuoto dell’assurdo, che da ogni parte circonda e inghiotte l’audacia della mente. Proprio così, tuttavia, l’assurdo si presenta come spazio della libertà: dove non c’è fondamento che tenga o orizzonte di senso che orienti il cammino, l’uomo si sente in dovere di autodestinarsi senza alcun condizionamento o misura. In tal senso, il pensiero dell’assurdo si fa complice di un’enfasi dell’io, di un “cogito” che diventa norma a se stesso, fondazione della sua stessa esperienza d’esistere: “cogito, ergo sum”! Qui l’assurdo appare come la condizione di possibilità di tutte le avventure della filosofia moderna, di quell’immediatezza mediata che è ad esempio all’origine del sistema dell’idealismo, come di ogni altra assolutizzazione del protagonismo dell’io pensante che si è andata profilando nei diversi rivoli delle ideologie moderne. La pretesa di abbracciare la totalità a partire dall’io è il presupposto di tutti i totalitarismi e di conseguenza di tutte le violenze, che l’ideologia ha prodotto. Lo spazio della libertà determinato dalla coscienza dell’assurdo è, dunque, una falsa garanzia della padronanza di sé e del mondo e della liberazione da ogni possibile dipendenza. Di fronte alla distonia dell’assurdo non si è più, ma meno liberi, perché si resta in fondo prigionieri di sé e dell’infinita solitudine di chi si fa centro e padrone del mondo, senza averne titolo e senza possederne gli strumenti. Il “sapere aude”, che la coscienza dell’assurdo sembra incoraggiare come esercizio di libertà, rischia di naufragare nella folla delle solitudini delle massificazioni ideologiche e nella tragica constatazione del naufragio di cui il soggetto pensante è al tempo stesso protagonista e spettatore
In questa luce l’assurdo, di cui forse Giuseppe Rensi più di ogni altro ha saputo evocare i riflessi di assoluto pessimismo e di irredimibile tragicità, è sfida, provocazione dolorosa, sorda e irriducibile, con cui il pensiero non può che osare la ribellione e la lotta: “cogitatio” è in tal senso pienamente un agitarsi corale (“cum - agitatio”), uno sferzare il vuoto dell’assurdo, che da ogni parte circonda e inghiotte l’audacia della mente. Proprio così, tuttavia, l’assurdo si presenta come spazio della libertà: dove non c’è fondamento che tenga o orizzonte di senso che orienti il cammino, l’uomo si sente in dovere di autodestinarsi senza alcun condizionamento o misura. In tal senso, il pensiero dell’assurdo si fa complice di un’enfasi dell’io, di un “cogito” che diventa norma a se stesso, fondazione della sua stessa esperienza d’esistere: “cogito, ergo sum”! Qui l’assurdo appare come la condizione di possibilità di tutte le avventure della filosofia moderna, di quell’immediatezza mediata che è ad esempio all’origine del sistema dell’idealismo, come di ogni altra assolutizzazione del protagonismo dell’io pensante che si è andata profilando nei diversi rivoli delle ideologie moderne. La pretesa di abbracciare la totalità a partire dall’io è il presupposto di tutti i totalitarismi e di conseguenza di tutte le violenze, che l’ideologia ha prodotto. Lo spazio della libertà determinato dalla coscienza dell’assurdo è, dunque, una falsa garanzia della padronanza di sé e del mondo e della liberazione da ogni possibile dipendenza. Di fronte alla distonia dell’assurdo non si è più, ma meno liberi, perché si resta in fondo prigionieri di sé e dell’infinita solitudine di chi si fa centro e padrone del mondo, senza averne titolo e senza possederne gli strumenti. Il “sapere aude”, che la coscienza dell’assurdo sembra incoraggiare come esercizio di libertà, rischia di naufragare nella folla delle solitudini delle massificazioni ideologiche e nella tragica constatazione del naufragio di cui il soggetto pensante è al tempo stesso protagonista e spettatore
L’assurdo, però, si offre anche come passione: è forse questo il volto che più intriga il naufrago delle presunzioni moderne dell’ideologia e il cercatore di senso al di là del naufragio. È l’esperienza dell’assurdo espressa icasticamente dalla frase attribuita a Tertulliano: “Credo quia absurdum”. L’Apologeta africano del II secolo ce ne fa cogliere il senso nel ragionamento seguente, presente nel suo De carne Christi (5,4): “Che il Figlio di Dio sia stato crocefisso, non suscita vergogna, in quanto è vergognoso; che il Figlio di Dio sia morto, è assolutamente credibile, in quanto è del tutto fuori posto; e che, una volta sepolto, sia risorto, è certo, proprio perché impossibile”. Qui l’assurdo si offre come evocazione dell’ulteriorità, di ciò che trascende la ragione non perché la neghi, ma perché la invita ad un superamento infinito, che solo la passione, e dunque l’amore incondizionato della fede pura, è in grado di vivere.
L’assurdo come cifra della trascendenza ne risveglia nella mente il fascino e la passione: esso dice che il visibile non è tutto e che il verificabile è solo traccia di un mistero più grande. L’assurdo accende lo “stupore della ragione” (F.W.J. Schelling), che la rende prossima al “cuore pensante” (Etty Hillesum), a quella via di conoscenza che solo l’amore apre, segnalata da Riccardo di San Vittore in una sentenza lapidaria del suo Benjamin minor: “Ubi amor, ibi oculus” (c. 13). La via dell’assurdo diventa così una paradossale possibilità dell’apologetica della fede: e tanto più si offre come tale in un’epoca che dell’assurdo ha fatto la costante fascinosa di alcune delle sue autocomprensioni più alte, tanto a livello filosofico, quanto in narrazioni letterariamente intensissime. Un libro che è un vero e proprio itinerario sui sentieri dell’assurdo, come vie del non fondato e del non senso, proprio così in grado di aprire a nostalgie del Totalmente Altro, che venga a dirsi in eventi e parole a noi accessibili e che la fede cristiana confessa essersi detto una volta per tutte nel Figlio, fatto carne per noi
L’assurdo come cifra della trascendenza ne risveglia nella mente il fascino e la passione: esso dice che il visibile non è tutto e che il verificabile è solo traccia di un mistero più grande. L’assurdo accende lo “stupore della ragione” (F.W.J. Schelling), che la rende prossima al “cuore pensante” (Etty Hillesum), a quella via di conoscenza che solo l’amore apre, segnalata da Riccardo di San Vittore in una sentenza lapidaria del suo Benjamin minor: “Ubi amor, ibi oculus” (c. 13). La via dell’assurdo diventa così una paradossale possibilità dell’apologetica della fede: e tanto più si offre come tale in un’epoca che dell’assurdo ha fatto la costante fascinosa di alcune delle sue autocomprensioni più alte, tanto a livello filosofico, quanto in narrazioni letterariamente intensissime. Un libro che è un vero e proprio itinerario sui sentieri dell’assurdo, come vie del non fondato e del non senso, proprio così in grado di aprire a nostalgie del Totalmente Altro, che venga a dirsi in eventi e parole a noi accessibili e che la fede cristiana confessa essersi detto una volta per tutte nel Figlio, fatto carne per noi
(Pubblicato su "Il Sole 24 Ore" - 19 Novembre 2017)