Stop al nucleare
e cure a chi soffre disuguaglianze
di Bruno Forte,
Arcivescovo di Chieti - Vasto
pubblicato su "Il Sole 24 Ore",
Domenica 10 Dicembre 2017
È stato durante il viaggio di ritorno dal Bangla Desh lo scorso 2 dicembre che Papa Francesco si è nuovamente pronunciato con fermezza sull’urgenza del disarmo nucleare. Uno dei giornalisti che lo interrogavano aveva ricordato come, al tempo della guerra fredda, Giovanni Paolo II avesse affermato che la politica mondiale di deterrenza nucleare era moralmente accettabile. Diversamente, lo scorso 10 novembre, rivolgendosi ai partecipanti a un convegno sul disarmo, Francesco aveva detto che lo stesso possesso di armi nucleari è da condannare. La domanda su che cosa fosse cambiato nel mondo per arrivare a questo mutamento di valutazione etica era dunque plausibile e il Papa non ha voluto sottrarsi ad essa. Ecco la sua risposta: “Che cosa è cambiato? È cambiata l’irrazionalità… Dal tempo in cui San Giovanni Paolo II ha detto questo a oggi sono passati… 34 anni. Nel nucleare, in 34 anni, si è andati oltre, oltre, oltre. Oggi siamo al limite della liceità di avere e usare le armi nucleari, perché oggi, con l’arsenale nucleare così sofisticato, si rischia la distruzione dell’umanità, o almeno di gran parte dell’umanità… È questo che è cambiato: la crescita dell’armamento nucleare… Siamo al limite, e poiché siamo al limite mi faccio questa domanda: oggi è lecito mantenere gli arsenali nucleari, così come stanno, o, per salvare il creato e l’umanità, non è necessario andare indietro? Torno a una cosa che avevo detto, che è di Guardini [il pensatore italo-tedesco tanto amato dal Papa], non mia: ci sono due forme di “incultura”. Prima, l’incultura che Dio ci ha dato per fare la cultura, con il lavoro, con la ricerca e avanti. Pensiamo alle scienze mediche, a tanto progresso, alla meccanica, e così via… Ma arriviamo a un punto in cui l’uomo ha in mano, con questa cultura, la capacità di fare un’altra incultura: pensiamo a Hiroshima e Nagasaki… E questo succede anche quando dell’energia atomica non si riesce ad avere tutto il controllo: pensate agli incidenti dell’Ucraina. Per questo, tornando alle armi, che sono fatte per vincere distruggendo, io dico che siamo al limite della liceità”. Nel discorso fatto ai partecipanti al Convegno “Prospettive per un mondo libero dalle armi nucleari e per un disarmo integrale”, lo scorso 10 novembre, Francesco aveva argomentato questa tesi a partire dal clima instabile di conflittualità, che caratterizza l’attuale scenario internazionale: “È un dato di fatto che la spirale della corsa agli armamenti non conosce sosta e che i costi di ammodernamento e sviluppo delle armi, non solo nucleari, rappresentano una considerevole voce di spesa per le nazioni, al punto da dover mettere in secondo piano le priorità reali dell’umanità sofferente: la lotta contro la povertà, la promozione della pace, la realizzazione di progetti educativi, ecologici e sanitari e lo sviluppo dei diritti umani”. Scenari attualissimi si presentano alla mente di tutti noi: dalle continue sfide missilistiche della Corea del Nord, alle minacce di risposta degli Stati Uniti e dei loro Alleati in Estremo Oriente, fino alla destabilizzante dichiarazione del Presidente Trump su Gerusalemme capitale d’Israele. Richiamando “le catastrofiche conseguenze umanitarie e ambientali che derivano da qualsiasi utilizzo degli ordigni nucleari”, Papa Francesco aveva accennato anche alla tragica possibilità di una detonazione accidentale di tali armi per un errore sempre possibile e, soprattutto, aveva stigmatizzato la logica che sta dietro la proliferazione di queste armi, che non riguarda solo le parti in conflitto, ma l’intero genere umano: “Le armi di distruzione di massa, in particolare quelle atomiche, altro non generano che un ingannevole senso di sicurezza e non possono costituire la base della pacifica convivenza fra i membri della famiglia umana, che deve invece ispirarsi ad un’etica di solidarietà”.
L’urgenza che il Papa pone alla base del rigetto delle armi nucleari è insomma di carattere etico, proprio per la sproporzione esistente fra eventuali esigenze di legittima difesa e la gravità e pericolosità degli strumenti atomici finalizzati a questo scopo. Francesco giunge anche ad affermare che “gli armamenti che hanno come effetto la distruzione del genere umano sono persino illogici sul piano militare”, perché “la vera scienza è sempre a servizio dell’uomo, mentre la società contemporanea appare come stordita dalle deviazioni dei progetti concepiti in seno ad essa, magari per una buona causa originaria”. L’esempio clamoroso sta nel fatto che “gli strumenti di diritto internazionale non hanno impedito che nuovi Stati si aggiungessero alla cerchia dei possessori di armi atomiche”. La geopolitica dell’attuale “villaggio globale”, segnata dalla minaccia del terrorismo e da numerosi conflitti asimmetrici, non consente di restare nell’ambiguità, esponendo al rischio annientamento l’intero pianeta. Recentemente, peraltro, “attraverso una storica votazione in sede ONU, la maggior parte dei Membri della Comunità Internazionale ha stabilito che le armi nucleari non sono solamente immorali, ma devono anche considerarsi un illegittimo strumento di guerra”. In tale ottica si colloca anche il documento che diversi Premi Nobel per la Pace hanno consegnato al Papa. Se, come insegnava Paolo VI, lo sviluppo è il “nuovo nome della pace”, oggi risulta più chiaro che mai che “lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo”. La conclusione di Francesco è stringente, e si profila come richiamo della coscienza, tale da dare voce specialmente a chi non ce l’ha: “Occorre dunque innanzitutto rigettare la cultura dello scarto e avere cura delle persone e dei popoli che soffrono le più dolorose disuguaglianze, attraverso un’opera che sappia privilegiare con pazienza i processi solidali rispetto all’egoismo degli interessi contingenti. Si tratta al tempo stesso di integrare la dimensione individuale e quella sociale mediante il dispiegamento del principio di sussidiarietà, favorendo l’apporto di tutti come singoli e come gruppi”. C’è in questa voce una tonalità che può sembrare utopica: ma c’è anche da chiedersi se senza questa utopia, cui ispirare la vita e le scelte dei singoli e delle Nazioni, il futuro dell’umanità potrà mai divenire migliore per tutti