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sabato 30 dicembre 2017

“Il lavoro? Che dramma se i giovani non possono neanche sognarlo” Intervista al cardinale Montenegro

“Il lavoro? Che dramma se i giovani non possono neanche sognarlo”
Intervista su migrazioni, povertà e volontariato con il cardinale Montenegro, arcivescovo di Agrigento e presidente della Caritas italiana. «L’accoglienza è termometro della fede»


L’accoglienza è una questione di fede, perché, «se so accogliere, Cristo lo trovo immediatamente vicino; il contrario, è un atto di non-fede». La Chiesa è chiamata a «far sognare il lavoro, perché ci sono zone d’Italia in cui la rassegnazione è grande». «Che dramma quando i giovani non sognano già più il lavoro!». Lo afferma il cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento e presidente della Caritas italiana. Vatican Insider lo ha intervistato in occasione del convegno su «Solidarietà cultura di vita, il linguaggio della solidarietà», organizzato dalla diocesi di Pistoia nella cattedrale di San Zeno. 

Eminenza, povertà, dramma migrazioni, futuro economico e lavorativo incerto e denso di preoccupazioni segnano questi tempi. La parola crisi significa scelta: quale strada bisogna imboccare per uscirne? 
«Rispondo con un nome, Lampedusa. Perché a Lampedusa povertà e accoglienza si sono incontrate. Sono convinto - non per vantare un “prodotto” della “mia” terra - che Lampedusa, quella macchiolina del Mediterraneo, è un laboratorio in cui si può tentare qualcosa di nuovo. E qualcosa di nuovo è già in atto, già realizzato». 

Che cosa? 
«Pensiamo ai linguaggi: ogni linguaggio ha un vocabolario, e il vocabolario cristiano è il Vangelo. E a Lampedusa la parola accoglienza si trasforma in termos messi dalle vecchiette vicino alla porta affinché 10mila immigrati a gennaio e febbraio si possano riscaldare. Oppure significa aprire la porta e fare entrare queste persone sconosciute provenienti dall’Africa perché possano farsi la doccia. Vuol dire accogliere a tavola questa gente. Oppure che negli armadi dei lampedusani non ci sono coperte in più, perché vengono regalate a questa gente che sta per strada. E così i giubbotti». 

Come devono comportarsi i cristiani nei confronti degli immigrati? 
«L’accoglienza è una questione di fede, perché, se so accogliere, Cristo lo trovo immediatamente vicino; il contrario, è un atto di non-fede. Ecco allora che l’accoglienza nel linguaggio dell’amore diventa il termometro della nostra fede. E il problema accoglienza diventa oggi sfida per la Chiesa». 

E come stanno rispondendo la Chiesa e i fedeli? 
«Ci sono 23mila posti letto disponibili per questi fratelli che arrivano da fuori. Ci sono case di accoglienza e famiglie che hanno preso rifugiati in casa. Tanta gente che si è messa accanto ai bisognosi tenendoli per mano. Amore è tenersi per mano e camminare insieme. Ma indubbiamente nel mondo cattolico ed ecclesiastico ci sono ancora molte difficoltà. Io suggerisco di imparare a pregare a occhi aperti, anche se ci hanno sempre detto di non distrarci nelle preghiere. Quando vado in chiesa e chiudo gli occhi per stare in intimità con Dio, succede che mi dimentico di avere altri fratelli accanto. Gli occhi chiusi non mi permettono di guardare chi ho vicino. Probabilmente diventa tutto una categoria: poveri, migranti, ricchi. Ma con gli occhi aperti riconosco l’uomo, e se lo so guardare la sua storia mi interessa e scopro si intreccia con la mia. Dunque potrebbe essere un problema di occhi, perché se so guardare il cuore si muove, e se il cuore batte le braccia si aprono. Più occhi aperti abbiamo, più volti riconosciamo più la storia cambia. E anche l’economia migliora». 

Qual è il suo punto di vista sulla situazione del lavoro? 
«È cambiato il lavoro. Ma nella mia terra vorrei che fosse solo cambiato: da me il lavoro viene perso. Noi siamo in una realtà in grande difficoltà: non voglio essere pessimista, ma non posso dire altrimenti pensando che un giovane su due non lavora, quando vedo ripartire due o tre volte a settimana i pullman Agrigento-Germania, e penso che c’è chi usa i barconi, chi usa i bus come noi. Stessa situazione. Ma il problema più grande è che da noi i ragazzi non sognano già più il lavoro. Non possono neanche sognarlo. E questo è un dramma». 

Che cosa si può fare? 
«Come Chiesa devo far sognare il lavoro, soprattutto in quelle zone d’Italia in cui la rassegnazione è grande. Da noi hanno costruito raffinerie, ciminiere, e poi le hanno lasciate perché dopo avere preso i soldi, non servivano più. E sono rimasti a noi gli scheletri. Nella nostra zona il turismo è considerato divertimento, quando potrebbe diventare di più, un’industria. Anche i sindacati potrebbero parlare di turismo come fonte di guadagno. Noi come Chiesa di Agrigento stiamo investendo nei giovani affinché non debbano andarsene, perché sarebbe la sconfitta più grande. Stiamo tentando di investire sull’imprenditoria giovanile per trasmettere il messaggio “tu ce la puoi fare”. Che sofferenza andare nelle scuole e vedere che in quei saloni pieni, metà di quei ragazzi se ne andranno! Un altro dolore è sapere – lo dico alla buona, a titolo di esempio – che se io 18enne voglio fare il muratore nel mio paese, devo andare dal boss locale a chiedere il permesso. E se magari mio nonno o zio in passato gli ha fatto un torto, io non potrò lavorare qui, e dovrò prendere quel pullman. E la beffa è che dobbiamo anche lottare contro le istituzioni: spesso sono loro che fanno “lo sgambetto” ai ragazzi. Qui non c’è bisogno di ciminiere, ma che si strutturi l’accoglienza di chi viene da fuori: tutti vengono a vedere la Valle dei Templi, ma arrivano alle 10 e a mezzogiorno se ne vanno. Agrigento non riceve vantaggi. Però quando i miei ragazzi per portare la gente alla cattedrale, nella parte alta, hanno pensato di affittare le macchine elettriche, è risultato che ad Agrigento è proibito far passare nella via principale le macchine elettriche. Credo che sia l’unica città con questo “vantaggio”. Ecco che con questo modo di fare si smonta tutto. Dunque oggi la lotta è a motivare la gente a sognare un lavoro. A cercarlo. Serve una rete di solidarietà, perché in determinate realtà dove la mafia comanda, bisogna iniziare a pensare diversamente insieme: come diceva dom Hélder Câmara, “se si sogna da soli, è solo un sogno. Se si sogna insieme, è la realtà che comincia”». 

Quanto conta il volontariato? 
«Innanzitutto bisogna ridare valore pieno alla parola gratuità, che sembra stia scomparendo, sfumando. C’è bisogno di servizio anche per trasmettere senso: serve un volontario che mi prenda per mano quando entro in crisi e mi chiedo perché vivo. C’è bisogno di rigustare il senso dell’altro, il migrante come il vicino di casa. Il vero e forte volontariato però non è: “Ho un po’ di tempo libero che dono”, ma “libero il mio tempo per donarlo”. E poi, emerge nella misura in cui vivendo il Vangelo scopro che la mia vita è dono, e pure che l’altro è dono per me». 

E il ruolo della famiglia nella società? 
«È il pilastro fondamentale. Lì si coniugano i verbi al futuro».