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venerdì 22 dicembre 2017

Così la Curia epurò il cardinale pacifista di Alberto Melloni


Così la Curia epurò il cardinale pacifista

di Alberto Melloni



All’inizio del 1968 la violenza che flagellava il mondo entrò all’improvviso, gelida e tagliente, nella carne della chiesa cattolica. In quell’anno — che vide l’assassinio di Martin Luther King e di Bob Kennedy, l’escalation in Vietnam e la primavera di Praga — l’arcivescovo di Bologna Giacomo Lercaro viene rimosso dalla sua sede, con un atto senza precedenti e senza motivazioni. Un gesto che potrebbe addirittura apparire minore oggi: ma che segnò il postconcilio su scala universale. «Improvvisamente il 27 gennaio scorso (è Lercaro che scrive al cardinale Frings nel febbraio 1968), venne da me il segretario della Congregazione pro Episcopis e, in nome del Papa, mi comunicò che era venuto il momento di ritirarmi; e mi fece capire che ciò doveva farsi presto. Non mi addusse alcun motivo ed io, a tutt’ora, non so affatto per quale ragione, — unico fra tanti vescovi anziani come me e più di me, sano e in piena attività — sono rimosso dalla mia sede e lasciato senza alcun ufficio o compito nella Chiesa». 
Lercaro era l’uomo che aveva permesso nel 1963 l’elezione di Paolo VI, rifiutando di fare il candidato della curia reazionaria di allora; era il moderatore conciliare che aveva posto i problemi della povertà e della pace in modo nuovo; il vescovo che forte del suo anticomunismo aveva aperto a un dialogo con il Pci; ed era il sostenitore della ricezione del concilio nelle chiese locali. E adesso, come scrive, si trova «demolito» da un «gravissimo provvedimento». Dalle cause così inconfessabili da spingere le voci pubbliche della Chiesa a mentire. 
«Vostra Eminenza (è sempre Lercaro a Frings) ha certamente compreso che io sono stato rimosso dal governo della Diocesi». Il motivo della rimozione «addotto nel comunicato de L’Osservatore Romano e nella lettera del cardinale Cicognani, e cioè le mie “cattive condizioni di salute”, è falso, come tutti possono constatare». Quanto all’età (77 anni), «nel 1966 il Papa, respingendo le mie dimissioni, mi aveva detto che le dimissioni si rendono effettive a 80 anni». A tutto questo Lercaro si sottomette in silenzio, anzi, con «eccessiva arrendevolezza», gli dirà Paolo VI. Ma senza smettere di chiedere spiegazioni su chi e perché ha ordito una trama su cui in pubblico osserva un silenzio tombale: lo scopriamo solo oggi, grazie alle sue lettere che oggi, dopo essere rimaste sigillate mezzo secolo, vengono alla luce. Missive in cui lui di quello che definisce «il delitto della mia destituzione arbitraria». Per settimane Lercaro domanda i motivi. Nulla. Perfino Paolo VI che lo chiama in udienza gli preannuncia che darà solo le «spiegazioni a noi consentite», come se ci fosse altro. Ma nel puzzle delle calunnie, Lercaro qualcosa intuisce da sé. Quando Il Borghese — i vatileaks sono sempre orditi a destra — svela un’indagine segreta condotta l’anno prima a Bologna e mai smentita in modo limpido dalla curia romana, Lercaro ipotizza che contro di lui si sia mosso il sant’Ufficio, esteriormente riformato, ma ancora aduso a metodi da inquisizione. Cosa si voleva colpire? Erano davvero le piccole conseguenze su Dc e Pci della convinzione lercariana che le chiese locali dovessero avere una fisionomia, e che quella di Bologna fosse la pace? Era plausibile che la rimozione del porporato fosse la reazione di un papa illusosi che la prima Giornata mondiale della pace del capodanno 1968 lo incoronasse come negoziatore sul Vietnam, a pochi giorni dalla offensiva del Têt? La cattedra di Bologna era stata tolta al cardinale per aver chiesto la sospensione dei bombardamenti americani sul paese asiatico senza bilanciamenti ed equilibrismi? O erano state altre calunnie a far breccia? 
«Sono rimasto in questa incertezza che si faceva di giorno in giorno più lacerante, perché toccava le fibre più intime di un cuore che, per almeno sessant’anni, anche nei momenti più difficili non aveva saputo pulsare che in una sintonia piena con quello del Vescovo di Roma. Il chiarimento e la certezza è venuta solo dall’ultimo colloquio del 21 marzo: allora solo ho capito in modo sicuro e definitivo che nessuna delle ragioni addotte era proporzionata e che l’unica veramente decisiva era quella non detta»: cioè la teologia della pace, la pace come atto teologico. Non semplicemente le conseguenze di un impegno per la pace (la condanna dei bombardamenti), o i suoi corollari (non aver paura di un parallelismo politico col Pci, inviso alla Dc): ma l’aver capito, guardando e amando la propria chiesa come una sposa, che la via della chiesa «non è la neutralità, ma la profezia», come ha ripetuto di recente Francesco. Non la chiesa come piedistallo del vescovo o sgabello del papa, o socio d’affari politici: ma la comunità della fede concreta come atto di rinuncia al potere, incluso il potere di mediare. Questo catalizzava una somma di frizioni che avevano reso Lercaro, in concilio e dopo il concilio, inviso a diversi ambienti e portava a un atto di violenza istituzionale che aveva troppi colpevoli perché fosse consentito spiegarlo. Perfino al Papa.

(fonte: “la Repubblica” 18/12/2017)