Cardinale Carlo Maria Martini, l'addio della stampa
Se lo avesse voluto, magari attenuando qualche sua posizione riformatrice, avrebbe potuto varcare il soglio pontificio. Ma a Roma preferì Gerusalemme. E al potere, gli studi e la gente. Martini non è stato soltanto un grande arcivescovo di Milano, negli anni difficili del terrorismo e dello sgretolamento morale della Prima Repubblica. Non è stato soltanto il tenace promotore della cattedra dei non credenti, il teologo raffinato e anticonformista, l'oppositore creativo pur nella disciplina delle gerarchie ecclesiastiche. È stato soprattutto un padre comprensivo in una società che di padri ne ha sempre meno, pur avendone un disperato bisogno.
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Ho ancora nel mio cuore e nei miei pensieri l'immagine di Carlo Maria Martini mentre il popolo sfila davanti al suo feretro e gremisce il Duomo e la grande piazza di Milano dove per tanti anni esercitò la sua missione di Vescovo. Se n'è andato un padre che poteva anche essere un Papa alla guida della Chiesa in tempi così procellosi?
No, non poteva essere un Papa e non era un padre. È stata una presenza ancora più toccante e inquietante: è stato un riformatore che si era posto il problema dell'incontro tra la Chiesa e la modernità, tra il dogma e la libertà, tra la fede e la conoscenza. "Non sono i peccatori che debbono riaccostarsi alla Chiesa ma è il pastore che deve cercare e ritrovare la pecora smarrita". Così diceva e così faceva.
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No, non poteva essere un Papa e non era un padre. È stata una presenza ancora più toccante e inquietante: è stato un riformatore che si era posto il problema dell'incontro tra la Chiesa e la modernità, tra il dogma e la libertà, tra la fede e la conoscenza. "Non sono i peccatori che debbono riaccostarsi alla Chiesa ma è il pastore che deve cercare e ritrovare la pecora smarrita". Così diceva e così faceva.
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Il punto di riferimento e la solida roccia che l’Arcivescovo di Milano venne a rappresentare per l’intera società fu apprezzato e sentito dagli atei e dagli agnostici quasi più che dai cattolici organicamente raccolti. Certo, le sue iniziative erano a volte sorprendenti, come la Cattedra per i Non Credenti o le altre infinite forme di dialogo con i laici. Eppure, con la sua figura imponente e maestosa, trasmetteva senza sussiego una fiducia e un rispetto non usuali. La sua capacità di sapersi fare ascoltare dai “lontani” dalla fede nasceva però dal suo confronto quotidiano con la Parola di Dio di cui era stato faticoso maestro: ed era la fonte più sicura, se non l’unica, alla quale continuava ad attingere fin da quando, da affermato biblista, era stato strappato ai suoi studi da un “colpo di genio” del papa polacco e costretto ad “imparare sul campo” a fare il vescovo e il pastore di una diocesi decisiva per la Chiesa e terribilmente impegnativa per le sole risorse umane.
Semmai aveva messo nel conto, da buon gesuita, che il ritrovarsi con il suo prestigio culturale “all’onor del mondo” lo esponeva a facili e ripetute strumentalizzazioni, soprattutto di natura politica. Eppure non è arbitrario supporre che il suo cercare per Milano una forma inedita di una “nuova Gerusalemme” (l’amata terra dove sognava di chiudere la sua esistenza di esegeta e interprete teologico) lo portava a manifestare l’ansia del nuovo, la difficile missione di mettere comunque in contatto il groviglio pulsante di una complicata società contemporanea con i suoi dubbi e le sue sofferenze con l’eternità del suo Dio.
E non è un caso che, quanto era alto e riverente il rispetto del mondo laico, altrettanto era ambivalente e talvolta polemico il rapporto con la complessità quotidiana della sua Chiesa.
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