Enzo Bianchi
L'unica strada per rinnovarci
La Repubblica - 11 luglio 2022
Non sono un sociologo ma nella vita ho sempre cercato di ascoltare e di guardarmi intorno: questo è l’esercizio che mi ha insegnato di più, perché sono stato affascinato dalla vita degli uomini e delle donne che incontravo e accanto ai quali abitavo il mondo. Per questo da sempre ho anche prestato attenzione alle statistiche che forniscono tracce per individuare cosa succede e come si vive.
Certamente in questa situazione di post-pandemia, in questo clima di guerra che di fatto ci coinvolge e di perdurante crisi economica, i dati forniti dal rapporto annuale dell’Istat 2022 evidenziano e confermano ciò che percepiamo di preoccupante in quel che ci accade intorno.
Da vecchio, entrato nell’ottantesimo anno della vita, dunque alle soglie dell’esodo da questa terra, non posso non guardare al presente e al futuro che già si affaccia. Ed è proprio in questo sguardo che sono assalito da una certa tristezza perché constato che la vita sembra diminuire ogni giorno, soprattutto nel nostro paese. Ovunque vado trovo persone vecchie: in chiesa le teste che mi stanno davanti sono tutte canute, agli incontri culturali la presenza dei giovani è scarsissima, e comunque anche per le strade o sulle piazze la scena è tenuta soprattutto da anziani… Siamo molto invecchiati senza che nella vita siano entrati i ragazzi, che numericamente risultano essere neanche la metà dei vecchi.
Le giovani madri con bambini in braccio sono un’apparizione, e comunque nelle famiglie si mette al mondo un figlio, due, non di più. Lo sappiamo tutti: ci sono meno nascite, le madri sono sempre più anziane e i vecchi diventano sempre più vecchi per il prolungamento della vita.
Occorre anche tener conto che i giovani tendono a restare in famiglia e sono poco inclini a lasciare la casa paterna per vivere la loro vita altrove e in una nuova situazione. Queste adolescenze prolungate in casa non favoriscono certo la costruzione di storie d’amore. A questo si aggiunga il fatto che ormai le persone che vivono sole, i “single”, sono a livello numerico l’equivalente delle coppie, come già avviene nei paesi del Nord Europa.
I sociologi e i media intravvedono le ragioni di questo andamento soprattutto nel grande mutamento socio-antropologico in atto, ma io mi chiedo con molta semplicità se questo arretramento della vita non sia dovuto soprattutto a una crisi culturale e morale, a una crisi di umanità. A me sembra che alla radice di questi processi ci sia il venir meno della fiducia: fiducia nella vita, fiducia nel futuro, fiducia negli altri, persino fiducia nell’amore come storia possibile e opera d’arte nelle relazioni tra umani. Nessuno osa confessarlo chiaramente, ma si registra una certa paura nei confronti della vicenda-storia della coppia, c’è un’incertezza circa l’opportunità di mettere al mondo dei figli, c’è una preoccupazione filautica di chi pensa innanzitutto a sé ed è incapace di porsi in un orizzonte sociale, l’orizzonte del “noi”. Prevale la dittatura dell’“io”, della sua riuscita, del suo benessere, e la necessità di allontanare ogni rinuncia dovuta alla presenza di un altro.
In realtà si sta preparando una situazione di grande solitudine per i vecchi, un carico di lavoro di cura degli anziani da parte dei figli, e un’esistenza in cui essendo scarsa o poco presente la generazione dei bambini e dei ragazzi sarà più difficile sorridere e gioire per la vita.
In queste condizioni è assurdo avere paura degli stranieri, che sono l’unica possibilità di rinnovamento della vita per le nostre popolazioni invecchiate.
(fonte: blog dell'autore)