Alberto Maggi
MARTA E MARIA
La massima aspirazione di quanti detengono il potere è di riuscire a dominare le persone attraverso l’arte della persuasione.
Si può sottomettere qualcuno con la paura, ma anche un timoroso può trovare il coraggio di sfidare un prepotente. E’ possibile rendere qualcuno proprio servo comprandolo con la prospettiva di onori e ricchezze, ma pure un ambizioso, in un sussulto di dignità, può liberarsi da questa schiavitù rinunciando alla bramosia di possedere.
Quando però chi viene oppresso è convinto che la sua condizione di sottomissione sia la migliore situazione desiderabile, costui non cercherà mai la libertà, anzi la vedrà come un grave attentato alla propria sicurezza.
E’ quel che insegna la storia del popolo di Israele nel suo faticoso cammino verso una libertà più temuta che desiderata.
La dura schiavitù egiziana privava, è vero, gli Ebrei della libertà, ma assicurava loro “cipolle e aglio” (Nm 11,5) a volontà.
Non conoscendo altre prospettive, gli schiavi, a furia di mangiare cipolle e ingoiare aglio, si erano davvero convinti di stare nel paese della cuccagna. Per questo l’esodo verso la terra promessa è costellato da proteste e insurrezioni contro Mosè che, demoralizzato, a sua volta si lamenta continuamente col Signore.
La frustrazione di Mosè è tale che egli arriva a chiedere di morire piuttosto che dover condurre verso la libertà un popolo che non ha nessuna intenzione di seguirlo (Nm 11,14-15).
La rivolta più grave del popolo ha visto insorgere contro Mosè gli stessi “capi della comunità, membri del consiglio, uomini stimati”, che così si lamentano: “E’ forse poco per te l’averci fatti partire da un paese dove scorre latte e miele per farci morire nel deserto?” (Nm 16,2.13).
Il “paese dove scorre latte e miele”, è un’espressione tecnica con la quale nella Bibbia si indica sempre la terra promessa (Es 3,8).
La capacità di persuasione del potere era stata talmente forte da far credere agli Ebrei che la terra dove essi erano schiavi era in realtà il paese della libertà, e che aglio e cipolle hanno lo stesso sapore del latte e del miele.
Alla manna, cibo donato da Dio, gli Ebrei continuavano a preferire “i pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, i cocomeri, i meloni, i porri, le cipolle e l’aglio”, constatando delusi che “ora i nostri occhi non vedono altro che manna” (Nm 11,6).
E se il cammino verso la terra promessa è durato tanto tempo, si deve alla forte resistenza del popolo che rimpiangeva la schiavitù ed era continuamente tentato di tornare indietro: “Non sarebbe meglio per noi tornare in Egitto? Diamoci un capo e torniamo in Egitto” (Nm 14,4).
La riluttanza degli Ebrei a lasciare l’Egitto diventò proverbiale e, secondo un detto popolare ebraico, a Dio è stato più facile far uscire gli Ebrei dall’Egitto che far uscire l’Egitto dal cuore degli Ebrei.
La regina della casa
Uno dei rischi che si corre nella lettura dei vangeli è quello di interpretarli secondo gli schemi della mentalità occidentale, lontana dai modi di dire e di fare della cultura orientale.
Un episodio che più degli altri è stato completamente stravolto nel suo significato è quello della visita di Gesù alle due sorelle Marta e Maria.
Il brano, che si trova solo nel vangelo di Luca, è stato spesso visto come un elogio da parte di Gesù della vita contemplativa (la parte migliore) a scapito di quella attiva (affannarsi per troppe cose).
Secondo questa interpretazione, Gesù privilegerebbe un’eletta minoranza di persone che si può permettere di trascorrere la vita contemplando il Signore, lasciando alla maggioranza della gente gli affanni e le preoccupazioni ordinarie della vita.
E’ sicuro che sia stato questo l’intento dell’evangelista?
Per una più esatta comprensione del testo evangelico occorre lasciarsi guidare da quelle chiavi di lettura che l’evangelista colloca nel testo per indirizzare il lettore alla giusta interpretazione del brano.
LC 10:38 Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio
e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa.
Luca inizia la sua narrazione scrivendo che “mentre erano in cammino” (e si suppone che si tratti di Gesù e dei suoi discepoli), “entrò in un villaggio” (Lc 10,38).
Risalta immediatamente nel testo il brusco cambiamento del soggetto, che da plurale (erano) diventa singolare (entrò).
Il mutamento è voluto.
Per l’evangelista i discepoli di Gesù, fermamente ancorati alla mentalità tradizionale, non possono entrare con Gesù nel luogo dove il Signore sancirà la fine di uno degli usi e costumi più consolidati in una società a forte impronta maschilista come era quella giudaica.
Solo Gesù dunque entra in un villaggio. Di questo villaggio, dove abitano Marta e Maria, non viene detto il nome.
Ogni volta che nei vangeli si trova un villaggio anonimo, l’episodio relativo è sempre all’insegna dell’incomprensione o della resistenza nei confronti di Gesù e del suo messaggio (Lc 9,52-56; 17,11-19).
Il villaggio indica infatti il luogo arretrato, tenacemente attaccato alle tradizioni e diffidente verso le novità che vede con sospetto. Per l’evangelista il luogo è rappresentativo di una situazione generalizzata che si trova ovunque vige l’attaccamento alla tradizione, al “si è sempre fatto così!”.
Entrato Gesù nel villaggio, “una donna di nome Marta, lo accolse in casa sua” (Lc 10,38). Il nome della donna, Marta, è tutto un programma: nella lingua aramaica, significa infatti “padrona della casa” (e l’evangelista sottolinea che la casa è sua).
LC 10:39 Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola;
Marta ha “una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola” (Lc 10,39).
Il comportamento di Maria, che va interpretato secondo le categorie della cultura orientale, non esprime un atteggiamento adorante verso Gesù, ma quello di normale accoglienza verso l’ospite.
Se Maria sta “ai piedi” di Gesù, è perché nella casa palestinese non esistono seggiole, ma stuoie o tappeti, dove tutti si adagiano.
Quello di Maria verso Gesù è l’abituale atteggiamento del discepolo di fronte al suo maestro, come si legge nel Talmud: “Sia la tua casa un luogo di convegno per i dotti; impolverati della polvere dei loro piedi; e bevi con sete le loro parole” (Pirqê Ab. 1,4).
Maria non contempla Gesù, ma l’accoglie e l’ascolta, desiderosa di apprendere il suo messaggio, indifferente alla proibizione del Talmud che prescrive che “una donna non ha da imparare che a servirsi del fuso” (Yoma 66b).
Il modo di fare di Maria, in una cultura fortemente maschile come era quella orientale, non poteva essere tollerato. E’ proprio solo dell’uomo fare gli onori di casa. La donna sta nascosta e invisibile. Il suo posto è la cucina tra i fornelli, come sta facendo Marta, la padrona di casa, “tutta presa dalle molte cose da fare” (Lc 10,40).
Marta si crede la “regina della casa”, mentre in realtà è schiava della sua condizione (come premio di consolazione, è stata proclamata “Patrona delle casalinghe” e la sua festa è celebrata il 29 luglio).
E’ la grande vittoria del potere: dominare le persone illudendole di essere libere, contrabbandando aglio e cipolle per latte e miele.
Che una donna avesse “molte cose da fare”, si può riscontrare nel ritratto della perfetta “padrona” di casa che dà la Bibbia:
“Si procura lana e lino e li lavora volentieri con le mani...
Si alza quando ancora è notte e prepara il cibo alla sua famiglia…
Si cinge con energia i fianchi e spiega la forza delle sue braccia…
Neppure di notte si spegne la sua lucerna.
Stende la sua mano alla conocchia e mena il fuso con le dita…
Non teme la neve per la sua famiglia, perché tutti i suoi hanno doppia veste.
Si fa delle coperte di lino e di porpora sono le sue vesti…
Confeziona tele di lino e le vende e fornisce cinture al mercante” (Pr 31,13.15.17-19.21-22.24).
Il ritratto termina accondiscendente:
“E il pane che mangia non è frutto di pigrizia” (Pr 31,27).
Questo assoggettamento della donna, che la obbliga a comportarsi come una bestia da soma, viene confermato da una famosa sentenza di Rabbi Eleazaro, secondo il quale anche se il marito possedesse “cento schiave, egli dovrebbe costringerla [la moglie] a lavorare la lana, perché l’ozio conduce all’impudicizia” (Ket. M. 5,5).
La quantità di lavoro è finalizzata a stancare l’individuo e impedirgli così di pensare, come insegna la Bibbia: “Fa’ lavorare il tuo servo, e potrai trovare riposo, lasciagli libere le mani e cercherà la libertà” (Sir 33,26).
La situazione che si è venuta a creare nella casa delle due sorelle diventa insostenibile.
LC 10:40 Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: «Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti».
Visto che Gesù pare non accorgersi della grave trasgressione compiuta da Maria, è Marta che interviene furibonda, rimproverando sia il maestro sia la sorella: “Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Ordinale dunque che mi aiuti” (Lc 10,40).
Nella concitata foga di ricacciare la sorella in cucina, Marta non si rende conto che il suo limitato orizzonte è tutto centrato sulla sua persona (“mia sorella… mi abbia lasciata sola… mi aiuti”).
Per lei è intollerabile l’atteggiamento della sorella che, come un uomo, intrattiene e ascolta Gesù. Marta non ascolta il messaggio di colui che di sé ha detto che è venuto per “rimettere in libertà gli oppressi” (Lc 4,18).
Che bisogno ha di apprendere?
Non insegna il Talmud che è meglio che “le parole della Legge vengano distrutte dal fuoco piuttosto che essere insegnate alle donne”? (Sota B. 19a).
Per escludere la donna dall’apprendimento, i rabbini si arrampicavano sugli scivolosi specchi della Bibbia, dove riguardo alla parola di Dio è scritto “la insegnerete ai vostri figli” (Dt 11,19).
Se Dio, così preciso nei suoi dettati, avesse voluto che l’insegnamento si estendesse anche alle donne, avrebbe aggiunto “alle vostre figlie”, invece non l’ha fatto (Qid. B. 29b).
“L’uso della donna è di stare in casa”, sostenevano i rabbini, mentre “l’uso dell’uomo è di uscire e di apprendere dagli uomini” (Ber. R. 18,1).
Anziché rimproverare Maria e ricacciarla nel ruolo dove tradizione e decenza hanno sempre confinato le donne, Gesù richiama la padrona di casa: “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una sola c’è bisogno” (Lc 10,41-42). Nel vangelo la ripetizione due volte di uno stesso nome assume il significato di severo rimprovero (“Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti”, Lc 13,34).
Per Luca la situazione di Marta è drammatica, perché è come quella degli schiavi contenti di esserlo. Costoro non solo non aspirano a essere liberi, ma spiano i tentativi di libertà degli altri allo scopo di ricacciarli nella schiavitù, come denuncia Paolo nella Lettera ai Galati parlando dei “falsi fratelli intrusi i quali si erano infiltrati a spiare la nostra libertà che abbiamo in Cristo Gesù, allo scopo di renderci schiavi” (Gal 2,4).
LC 10:41 Ma Gesù le rispose: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose,
LC 10:42 ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta».
Gesù rimprovera la perfetta padrona di casa e le dice che “Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta” (Lc 10,42), invitandola a fare lo stesso.
Questa parte eccellente che non può essere tolta è la libertà interiore, garanzia della presenza dello Spirito di Dio, perché “dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà” (2 Cor 3,17).
Tutto può essere strappato all'uomo, anche la vita, ma non la libertà interiore.
Mentre la libertà esteriore può essere data e tolta agli uomini, la libertà conquistata, frutto di un profondo convincimento interiore, nessuno la potrà più sottrarre all’uomo.
(fonte: bacheca facebook dell'autore)