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lunedì 25 maggio 2020

Un filo rosso da don Puglisi a Papa Francesco - L'omaggio di Ficarra e Picone a Padre Pino Puglisi

Un filo rosso da don Puglisi a Papa Francesco
Di Francesco Deliziosi



Don Pino Puglisi, la prima vittima della mafia a diventare beato in quanto martire, fu ucciso nel 1993 sotto casa, in piazzale Anita Garibaldi. Era il giorno del suo 56° compleanno. I processi penali e la causa di beatificazione hanno messo in luce un movente ben preciso: la sua colpa fu di essere un grande evangelizzatore e un educatore dei giovani. La mafia ebbe paura del fatto che «si portava i picciriddi cu iddu» (i bambini con lui) e «predicava tutta a iurnata» (predicava tutto il giorno). Parole del boss Leoluca Bagarella, riferite da collaboratori di giustizia.

Questo era già sufficiente alla mafia per toglierlo di mezzo e proseguire sulla via della violenza e dei “pìccioli”, il denaro in dialetto, espressione che papa Francesco ha voluto utilizzare durante la sua omelia del 15 settembre davanti a 100 mila persone.

Ho conosciuto don Pino per 15 anni, dai banchi del liceo fino al tempo di Brancaccio, quando tutto si concluse con un colpo di pistola alla nuca. E dopo la sua morte, attraverso ricerche di documenti e testimonianze, ho raccolto i suoi scritti più significativi nel volume Se ognuno fa qualcosa si può fare molto (Rizzoli – prefazione di mons. Corrado Lorefice).

Questi approfondimenti hanno messo in luce altri fatti: don Pino aveva sbarrato la strada ai politici collusi del quartiere, aveva vietato le feste che servivano solo ad omaggiare il potere dei boss, aveva cambiato il percorso delle processioni per non dover fare «l’inchino» sotto i balconi dei fratelli Graviano, mandanti del delitto. Non a caso, incontrando il clero in cattedrale, il papa ha proprio chiesto di mantenere alta l’attenzione sui percorsi delle processioni per evitare questi “inchini”. Don Pino lo faceva già agli inizi degli anni Novanta.

Credeva nello Stato e allo Stato chiedeva una scuola media, servizi per il quartiere, uno spazio per gli anziani, impianti sportivi. Nel quartiere, però, in quell’epoca non si muoveva foglia senza il permesso dei boss e il territorio era a loro disposizione. Un solo esempio: gli scantinati di via Hazon, che don Pino voleva utilizzare per creare la scuola, ospitarono l’esplosivo destinato a Paolo Borsellino. Anche Totò Riina, intercettato in carcere, sottolineò come don Pino contendesse il territorio palmo a palmo alla mafia. «Tutte cose voleva fare iddu – disse Riina –, la nuova Chiesa, il campo, i giochi per i picciriddi, ma noi gli dicevamo tu fatti i fatti tuoi, ma tu fatti u parrinu». Don Pino invece non si faceva i fatti propri, non lavorava all’ombra del campanile ma andava a cercare le sue pecorelle nei tuguri, nei vicoli.

Un parroco scomodo e povero, di periferia, che oggi Francesco addita a modello per tutti i sacerdoti sottolineando che «non viveva di appelli antimafia», cioè non cercava passerelle e interviste, ma operava nel concreto, producendo fatti e non parole.

Don Pino è stato anche profetico nell’analisi del fenomeno mafioso. Prima ancora dell’anatema di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi (maggio ’93), in una relazione che ho inserito nel mio volume, definì Cosa Nostra un fenomeno satanico, una religione della violenza, una struttura di peccato. Composta da uomini che si fingono religiosi solo per accrescere il proprio potere e hanno messo il Padrino al posto del Padre.

Papa Francesco, anni e anni dopo, ha ribadito questi concetti, in particolare nel giugno 2014 in Calabria, con la scomunica degli appartenenti alla criminalità organizzata. E al Foro Italico di Palermo è andato oltre, con una chiarezza esemplare: «Non si può credere in Dio ed essere mafiosi». Speriamo (e preghiamo) perché il suo appello alla conversione dei boss tocchi davvero tanti cuori, magari con l’intercessione dall’alto del caro padre Pino e del suo meraviglioso, indimenticabile sorriso.


I diritti d'autore del volume Se ognuno fa qualcosa si può fare molto (Rizzoli – prefazione di mons. Corrado Lorefice) sono devoluti in beneficenza.
(Fonte: blog beatopadrepuglisi.it)

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FICARRA E PICONE
SPIEGANO L’OMAGGIO A PADRE PUGLISI
di Francesco Deliziosi

I due comici palermitani raccontano come è nata l’idea del famosissimo sketch sullo “Zio Pino” che amava tutti, anche i suoi assassini, andato in scena al Festival di Sanremo 2007 e che riscuote sempre un grande successo.


«Amava tutti, amò anche il suo assassino». E’ il marzo 2007: irrompe con una forza inaspettata, padre Pino Puglisi, nello spettacolo di Ficarra & Picone in scena al Teatro Ariston. Davanti alla platea di Sanremo, davanti a milioni di telespettatori, rivive a sorpresa il sorriso del sacerdote di Brancaccio. Il suo ultimo sorriso davanti al killer che lo uccise, sotto casa, nel settembre ’93. E fa piacere ricordare questo ormai storico sketch il giorno dopo l’anniversario dell’omicidio, quando politici e comparse hanno sgomberato il campo e a Brancaccio, a Palermo, la vita sembra tornata alla normale routine.

Nel marzo 2007, la mafia e l’antimafia piombarono tra lustrini e paillettes, nel bel mezzo del festival simbolo della canzonetta italiana, icona dell’insostenibile leggerezza che pervade per cinque serate il Belpaese. E, paradosso nel paradosso, sono stati proprio due palermitani – e due comici per giunta – a fare scaturire un momento di grande commozione, un segno di speranza in più. Lo testimoniarono gli applausi scroscianti al termine dello sketch, quasi a sottolineare in silenzio che la memoria vince la morte: «Per don Puglisi non si tratta, infatti, di morte ma di parto, di una nuova nascita», dicono Salvo Ficarra e Valentino Picone ricordando il sacerdote mite, eliminato perché con la forza del Vangelo allontanava bambini (e adulti) dai tentacoli della Piovra.

Lo sketch da qualche anno si impone, attraverso i teatri e la tv, in giro per l’Italia, negli occhi e nel cuore degli spettatori. Su Facebook il video viene rilanciato migliaia di volte.

L’idea di proporre a Sanremo l’omaggio per don Puglisi era venuta a Pippo Baudo. Ai due «nati stanchi», invece, il merito della paternità della scelta. In partenza (anno 2004), era una trovata rischiosa, da far tremare le gambe. Ma la realizzazione, vista anche al Festival, conferma un fatto: i due ragazzi che cominciarono calpestando il palcoscenico del Crystal a Pallavicino sono oggi i comici italiani più amati. Di più, sono comici seri: di quelli che riescono a farti ridere e pensare insieme.
In origine lo sketch chiudeva lo show «Son cose che capitano», visto al Golden di Palermo e poi, sull’onda del successo, persino al Parioli di Roma. Ficarra e Picone si erano documentati, contattando chi ha conosciuto don Pino, tra cui chi scrive. Lavorando sodo sul dialogo: «Non volevamo – spiegano – strumentalizzare questa bellissima figura. Conosciamo la sua vicenda, abbiamo letto la sua biografia, da tempo volevamo dedicargli un passaggio in uno spettacolo». Salvo Ficarra sottolinea: «Il testo, che inizia a parlare in modo un po’ strano di questo zio Pino, ha suscitato curiosità nelle città del Nord. Alla fine arriva sulla scena il nome completo. Ed è uno choc. C’è sempre un’esplosione di applausi, molta gente si alza in piedi».
Da un lato si rievocano «le sue orecchie a sventola, i grandi piedi, le grandi mani», dall’altro compare la pistola, il proiettile, l’assassino: «Sorrise, amò anche lui. E disse me l’aspettavo». Gli elementi di una storia semplice e feroce ci sono tutti: «Non era un prete antimafia – dice ancora Ficarra – Non ha senso appiccicargli questa etichetta. Era un prete e basta. Un prete che amava la sua gente e voleva liberarla dall’oppressione della mafia. Ma la sua unica arma era l’amore». Per Valentino Picone un motivo di orgoglio in più, visto che lui padre Puglisi l’aveva conosciuto tra i banchi del liceo classico Vittorio Emanuele II.
Marzo 2007. Da quel momento un pezzo della Palermo che cambia va di nuovo in giro per l’Italia. Certo, non dimentichiamo l’emergenza che rimane: i delitti tra la folla, di fronte agli occhi dei bambini, il racket e gli attentati, le inchieste antimafia che coinvolgono i Palazzi della politica, i colletti bianchi e i manovali.
Ma quel sorriso di don Pino è un segno di speranza in più. Parafrasando un altro famoso duetto di Ficarra & Picone, «ci vergogniamo di essere palermitani» quando ancora di Palermo si parla – nel mondo – per la violenza della mafia. Ma pensando a chi ha dato la vita per una città nuova, abbiamo in bocca il sapore, la poesia e «la fierezza di essere palermitani».
(Fonte: blog beatopadrepuglisi.it)

Guarda lo sketch di Ficarra e Picone dedicato a zio Pino



Per approfondire vedi anche alcuni dei nostri post precedenti: