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giovedì 21 maggio 2020

Il futuro è una questione di coscienza

Il futuro è una questione di coscienza

Cosa accadrebbe se in queste settimane un programma televisivo italiano scegliesse una famiglia, che a causa del Covid-19 si è impoverita, per portarle regali e sollievo? Il moto ondoso più corposo non sarebbe più quello delle lacrime di commozione. In pochi minuti si scatenerebbe sui social la virulenza cieca della rabbia: lo sdegno per non essere stati scelti leggerebbe quell’azione come ingiusta fino a poter essere letta come affronto e torto assoluto. Perché così gli ultimi tre anni di discorsi d’odio hanno mutato radicalmente le narrazioni individuali e collettive, sicché ora la narrazione portante è l’invidia che giustifica l’assalto. E allora il tema che è il cuore del futuro adesso, forse, è uno solo, ed è anche questo antico: è questione di coscienza.



Fino a qui: il comune senso dell’essere Caino

Nei micromondi a volte si osserva nitido il macromondo: e capita che piccole gigantesche cose siano epifanie. Leggendo e ri-leggendo questo tempo, interrogandomi nell’interstizio tra ricerche d’antropologia, sociologia e psicologia, è stato invece davanti al programma “Abito da sposa cercasi” che mi è sembrato di congiungere tutti i fili e i nodi che non riuscivo a sciogliere.

Giorni fa per caso mi sono imbattuta in una puntata in cui il protagonista regalava un abito di sposa e 10 mila dollari ad una donna la cui casa era stata portata via da una alluvione: una sceneggiatura che potremmo facilmente definire una “americanata” per sottolineare il modello ipnotico della lacrima mossa dalla spettacolarizzazione dei buoni sentimenti. Anche in Italia negli anni scorsi abbiamo visto programmi con questo format.

Eppure adesso no. Molto è profondamente cambiato: ora non sarebbe più possibile.

Cosa accadrebbe se in queste settimane un programma televisivo italiano scegliesse una famiglia, che a causa del Covid-19 si è impoverita, per portarle regali e sollievo?

Il moto ondoso più corposo non sarebbe più quello delle lacrime di commozione. In pochi minuti si scatenerebbe sui social la virulenza cieca della rabbia: lo sdegno per non essere stati scelti leggerebbe quell’azione come ingiusta fino a poter essere letta come affronto e torto assoluto.
I beneficiari del dono dovrebbero, se per esempio abitassero in un paese piccolo, persino avere paura: improvvisamente la loro felicità diverrebbe il capro espiatorio dove riversare il comune senso del “non ho avuto quello che mi spetta”.
Perché così gli ultimi tre anni di discorsi d’odio hanno mutato radicalmente le narrazioni individuali e collettive, sicché ora la narrazione portante è l’invidia che giustifica l’assalto: “vogliamo qualcuno da mettere in croce, qualcuno a cui dare la colpa, qualcuno su cui scatenare il senso comune del sentirci perduti”, perché “si, va bene impoverirci e temere la morte ma solo se vale per tutti” perché “se sto morendo ho bisogno di vedere anche gli altri attorno a me morire”. 

Come se la vita dell’altro ci arrecasse danno, se non è in sé funzionale al nostro personale beneficio. Come se l’altro avesse diritto d’esistere solo nella misura in cui ci compiace, non contraddice. 

E così mi ricordo di quando tempo fa lessi la notizia, che avvertii come fitta e presagio, di un giovane uomo ammazzato per strada perché stava sorridendo. “Io ero angosciato, e vedere quell’uomo felice mi fece impazzire”, pare che così si giustificò il suo assassino.
Ecco, credo drammaticamente che quella trama – non letteraria ma bestialmente vera – sia l’idealtipo più schietto per leggere il rischio che ci attende. Dopo tre anni di incitamento all’odio verso chi arrivando su un barcone ci avrebbe tolto il pane, è accaduto che si è strutturato un habit di pensiero che è lo stesso con cui è cominciata la nostra storia millenni fa: mors tua, vita mea. E dunque anche il contrario: vita tua, mors mea, come se il sorriso di un altro ci generasse o idolatria – penso alla devozione verso influencer che diventano totem, provando a tramutare l’invidia in deificazione – oppure rabbia scatenata, la stessa del fratello che perde il senno e l’anima quando si convince che il padre stia amando di più l’altro fratello.

E’ una storia antica, eppure spaventosamente presente: la conosciamo tutti.

Paradossalmente proprio i social, il cui nome appare sempre più mistificazione, sono diventati spazio e tempo della divisione, dove spesso osserviamo azzannarsi anche persone che, oltre che avere lo stesso colore di pelle e la stessa nazionalità (ops) – hanno, persino, esattamente le stesse idee: eppure cominciano ad aggredirsi perché si sono reciprocamente lette in fretta, così velocemente da fraintendersi e poi non sapere dubitare di quella prima lettura e di quella propria prima interpretazione.
Quelli che non si autoassolvono sono specie sempre più rara: l’arroganza è il male oscuro che ci fa centro del mondo e ci sostituisce a qualsiasi regola, a qualsiasi dio.
E ormai incapaci come siamo di leggere con attenzione, nella morsa dei processi di “fast thinking” le risposte più immediate sono quelle che per prime approdano nella nostra umana fisiologia: al cospetto di ciò che non conosciamo, paura e rabbia sono le antiche risposte di attacco e fuga che sperimentiamo da sempre, sin da quando era solo da poco che non eravamo più bestie.

Ed eccoci qua, adesso, sempre di più a guardarci in cagnesco: per strada, non solo più dietro lo schermo, ad aggredire non più solo coi tasti.

Credo che si possa definire guerra civile la scena collettiva nella quale al supermercato vedo persone che vorrebbero mordere il collo di chi hanno visto portare la mascherina allentata e non riuscendo a dirgli con mitezza che andrebbe sistemata, è come se fossero il tizzone arroventato da una miccia che basta poco perché sia accesa. E nel bel mezzo del reparto surgelati, vedi qualcuno urlare la morte addosso a un altro, lo vedi chiaramente che sta lì a voler fargli pagare tutto il proprio dolore. Lì, in quell’attimo, una miccia (che in realtà è stata innescata da dentro e non da fuori) decide che qualcuno – vale anche per chi parcheggia prima di noi o per chiunque crediamo “ci stia togliendo ciò che ci spetta” – deve pagare tutti i nostri debiti, deve diventare la discarica dentro cui buttare tutta la nostra vorace sensazione che la Vita abbia con noi un conto aperto.

E questo accade a credenti e non, a cresimati e non, a uomini e donne senza catechismo e a uomini e donne che pure masticano da anni le cose di Dio: l’anima la stiamo perdendo in stock.


E adesso? Il tempo di scegliere tra perdere la vita e perdere l’anima

E allora il tema che è il cuore del futuro adesso, forse, è uno solo, ed è anche questo antico: è questione di coscienza.
La coscienza è – per la teologia ed anche per le neuroscienze che la corroborano – il luogo dove l’identità non si imbalsama ma si interroga e si muove, il luogo dove il pensiero sa pensare se stesso, lo spazio sacro dove l’io non coincide soltanto col sé ma de-coincide.
La coscienza è il tempo nel quale posso stare lento a osservare e a respirare, intendendo il respiro non solo come procedura fisiologica ma anche come ritmo interno che scandisce musica, non solo rumore.

La coscienza è il tempo dello “slow thinking” nel quale leggo un testo e lo rileggo. Leggo il mondo e lo rileggo. Leggo me stesso e mi rileggo.

Rileggere: che interessante rara operazione. Esitazione sacra perché non equivalente alla codardia: ci vuole assai coraggio per interrompere la spinta fisiologica all’attacco o alla fuga. Esitazione sacra perché equivalente alla libertà: alla padronanza di sé intesa non come ingabbiamento ma come liberazione. Liberazione dalla bestialità che vorrebbe ricondurci alla logica della giungla, per esempio. Liberazione dalla bestialità che ci seduce quando assume la forma sua più affascinante: quella della nostra celebrazione, dell’incantamento che ad alcuni viene, per esempio a contarsi i like e le condivisioni (e a contare quelli degli altri, naturalmente).
La coscienza è allora questione urgente di futuro perché combacia con la nostra competenza alla veglia interiore: veglia particolare perché qui la veglia/valutazione non coincide col giudizio premio/sanzione. Qui valutazione interiore sta per respiro e apertura: la de-coincidenza è pratica di decentramento, esercizio del non farci dio, allenamento a uno sguardo in zoom out.
Non farci dio: non farci ultimo giudizio e valutatore, non farci assoluti portatori di misure e misurazioni, non arrogarci la ribalta dell’onniscienza, non farci azzannare dalla seduzione che la nostra identità esista solo se generata da una divisione.

E allora questo tempo è questione escatologica: i temi in gioco sono antichi ed eterni e mai come adesso – dopo decenni di borghesia interiore – siamo chiamati a una interrogazione vocazionale che ci riguarda e ci convoca in quanto umani, umani e cristiani.

Come se questa Fase 2 fosse il pre-Giudizio finale, l’attimo prima in cui abbiamo la possibilità di stare davanti allo specchio.
Perché, poi, non è forse proprio questo la coscienza? E’ guardarci in uno specchio autentico e non in quello che ci siamo costruiti, specchiarci in uno specchio reale e non in quello artificiale che ci rimanda soltanto le immagini/narrazioni che si sclerotizzano come loop e perdita di ricerca/coscienza, le fissazioni a cui idolatricamente ci attacchiamo come fossero tutto, come fossero dio, come se perdendo quelle perdessimo la vita intera. E invece è proprio così che ce la perdiamo: nell’illuderci che la vita coincida con la riscossione di un assegno e non con una mossa d’uscita da sé, o nell’illuderci che l’altro-Abele – tutti abbiamo l’illusione che esista un altro a cui dare la colpa per la nostra infelicità, no? – che ci scuote, ci svela, ci stana, sia il nemico. E non che, invece, il nemico argutamente non abiti all’esterno ma ami gli spazi nostri più intimi, dove si mescola e si imbroglia e confonde: invisibile sta nella apparenza sua contraria, travestito dalle carezze che ci seducono quando ci sentiamo vivi solo se ci sentiamo iper-visti (quando abbiamo followers, quando i nostri selfie hanno i filtri perfetti, quando ci sentiamo giusti pur avendo letto un post o un messaggio solo una volta e di corsa).

E allora conviene trasformare la Fase 2 non solo in ripresa/impresa economica ma anche in ingresso/convocazione in necessari esercizi spirituali: per riprenderci l’anima.

E affrontare l’ignoto che ci attende non togliendoci ma dandoci il respiro. Curiosa questione che proprio il respirare e proprio il fiato siano gli elementi distintivi della aggressione di questo coronavirus, mi ha fatto notare la mia illuminata amica e maestra, suor Ludovica Loconte: il respiro, questione antica ed eterna inerente l’anima, l’anima e Dio.

E allora, adesso?

Re-imparare a respirare, re-imparare una preghiera che non sta confinata ma è sconfinata e a ogni attimo chiede forma sacramentale: nella ipersollecitazione di dati che sul nostro smartphone continuamente ci giungono, togliendoci fiato e possibilità di darci il ritmo della pausa necessaria all’attenzione intima,

darci la regola della sospensione interiore, della sosta obbligata dalla sovra-ricezione, dalla sovra-produzione, per fare la cosa più eterna e più antica: alzare lo sguardo dalla curvatura su noi stessi,

alzare lo sguardo dallo schermo, alzare lo sguardo dalla auto-ossessione, e guardare ciò che ci ri-misura, ci toglie la dis-misura: il cielo, per esempio.
Un poco al giorno: consiglio pericolosamente banale.
E che, forse, può però avere a che fare con la coscienza intorno a questioni vitali: non fare la fine di Caino, per esempio.
(fonte: Sir, articolo di Antonia Chiara Scardicchio 13/05/2020)