Paolo VI, il Papa che si sentì sempre sacerdote.
A cent’anni dall’ordinazione un esempio attuale
Amleto o Don Chisciotte? Così i suoi critici dipingevano San Paolo VI che la Chiesa ricorda il 29 maggio, nel giorno della sua ordinazione sacerdotale, avvenuta esattamente cento anni fa, nel 1920. Un Pontefice amato più da morto, e da santo, che da vivo. Molto osteggiato all’interno della Curia romana, probabilmente di più di quanto lo è oggi Papa Francesco. Un autentico riformatore per i suoi gesti eclatanti come il rifiuto della tiara che mise all’asta in beneficenza, la messa della notte di Natale del 1968 celebrata all’Ilva di Taranto con gli operai dello stabilimento, il funerale di Aldo Moro il 13 maggio 1978 e i viaggi internazionali da lui inaugurati.
Ma anche per la sua insuperata riforma della Curia romana, la Regimini Ecclesiae universae, per due dei suoi provvedimenti più avversati ma sicuramente più lungimiranti, Ecclesiae sanctae, con il quale stabilì a 75 anni la pensione per i vescovi e Ingravescentem aetatem, con il quale fissò a 80 anni il limite d’ingresso dei cardinali in conclave, e, infine, per la sua contestatissima ultima enciclica, Humanae vitae, contro l’aborto e la contraccezione.
Di San Paolo VI molti ricordano una celebre frase pronunciata, il 2 ottobre 1974, durante il discorso che egli tenne ai membri dell’allora Consilium de laicis: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”. Frase che Montini riprese, l’anno dopo, nella sua esortazione apostolica Evangelii nuntiandi. Un documento profetico, non a caso ritenuto da Bergoglio il più bello del magistero montiniano, da lui sviluppato nella sua esortazione apostolica Evangelii gaudium, il documento programmatico del suo pontificato.
Monsignor Leonardo Sapienza, reggente della Prefettura della Casa Pontificia e autorevole biografo di Montini, ripercorre il magistero sul sacerdozio di San Paolo VI a cento anni dalla sua ordinazione presbiterale. Di quell’uomo che, dopo un’intensa vita diplomatica ai vertici della Segreteria di Stato, accanto a Pio XII, sarà chiamato prima a guidare l’arcidiocesi di Milano e poi a succedere a San Giovanni XXIII e a governare il Concilio Ecumenico Vaticano II e soprattutto la difficile fase della sua immediata attuazione.
Nel libro Paolo VI. Pastorale del sacerdozio (Edizioni Viverein), Sapienza scrive che Montini “era giunto all’ordinazione con notevoli difficoltà, a causa della salute malferma. Il suo vescovo scriveva: ‘È un giovane che ha tutte le più belle qualità, ma gli manca la salute’. E, non di meno, era convinto di ordinarlo ugualmente: ‘Vuol dire che lo ordineremo per il paradiso!’”.
Per Sapienza “il pontificato di Paolo VI ha attraversato una stagione delicata: gli anni del Concilio e del post-Concilio; il sessantotto, con la contestazione giovanile. E la lacerazione aperta all’enciclica Humanae vitae; la crisi delle vocazioni, con le polemiche sul celibato: tanti, tra il clero e i consacrati, che chiesero di lasciare, o lasciarono senza chiedere, il ministero. Paolo VI soffriva intimamente e, tuttavia, confermò i principi e la grande tradizione della Chiesa; ma, fin dove fu possibile alla sua coscienza di credente e di pastore, cercò di capire e di sostenere con un insegnamento saggio, illuminato, e profondamente partecipato”.
Sapienza ricorda come “prima di tutto e sempre”, Montini “si sentì sacerdote. Qualcuno è arrivato a dire che riteneva il sacerdozio superiore anche all’episcopato: ‘Il ministero più che il magistero’. Aveva desiderato la vita pastorale in parrocchia, provare ‘la felicità di amare Dio con un povero cuore’”.
Nei dialoghi con Jean Guitton, San Paolo VI affermava: “Se c’è una cosa bella che riempie di gioia il cuore del Papa è la vista di un prete povero, vestito di una vecchia tonaca, magari senza qualche bottone, in mezzo a un gruppo di ragazzi che giocano con lui, che studiano e si preparano alla vita, che lo accolgono con gioia e in lui hanno fiducia”.
Ma, – chiosa Sapienza – come sappiamo, il suo futuro fu diverso. E, forse, questa può essere stata una delle pene della sua vita: essere relegato a funzioni amministrative molto lontane dal sacerdozio, mentre era nato per parlare all’uomo, per guidare le coscienze. Così Jean Guitton poteva concludere: ‘Davvero la condotta di Dio è paradossale. Prepara un uomo a una certa esistenza e poi lo chiude nell’esistenza opposta!’”.
Sapienza riporta, inoltre, un episodio molto significativo. “L’ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, salutando Montini a nome di tutto il corpo diplomatico prima della partenza per Milano, ammetteva con ammirazione: ‘Ciò che noi diplomatici più rispettiamo e maggiormente amiamo in voi è che, dietro la figura del ministro della Santa Sede, abbiamo sempre sentito il sacerdote‘. E Montini seppe interpretare i servizi che gli venivano proposti dalla Chiesa, nelle diverse stagioni della vita – anche nel servizio diplomatico! – come altrettante forme della sua totale e gioiosa donazione nel sacerdozio”. Un esempio attualissimo.
(fonte: Il Fatto Quotidiano, articolo di Francesco Antonio Grana 29/05/2020)
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