NEL DESERTO DELLA PANDEMIA:
DIO, DOVE SEI? UNA DOMANDA ERRATA
di Luca Mazzinghi*
La situazione che il mondo sta vivendo mette duramente alla prova ogni essere umano e quindi, in quanto anch’essa realtà umana, la comunità cristiana. La chiesa cattolica, in particolare, si trova a dover affrontare una situazione inedita. Forse potremmo esser capaci di saper dire come si affronta una situazione di persecuzione. Ma questa prova collettiva, provocata da un agente patogeno del tutto imprevisto, ci lascia disorientati.
Non appena ci si è accorti che anche in Italia il pericolo di contagio era più che reale, la chiesa ha subito deciso di sospendere ogni attività pubblica, in primis la celebrazione dell’Eucarestia. E questo ci ha ben presto lasciati nudi, senza parole. Specialmente i preti, abituati da secoli a centrare l’intera attività sull’aspetto celebrativo, e adesso in difficoltà a dover ripensare tutta la loro vita.
“Guardare” la messa non è celebrarla
Pur con generosità e inventiva e, perché no, con coraggio ci si è dedicati a moltiplicare le occasioni di celebrazioni virtuali: Messe in streaming, celebrazioni televisive in chiese vuote con celebranti solitari, a cominciare dallo stesso papa Francesco. Ma “guardare” la Messa non è celebrarla. Messe senza popolo, popolo senza Messa; e mai sopite nostalgie tridentine che riemergono. Troppo poco, invece, si sta puntando sulla maturità e sulla responsabilità del popolo cristiano, sulla capacità di meditare, accogliere e celebrare la parola di Dio, sulla necessità di mettere a frutto la dimensione sacerdotale propria di ogni battezzato.
La gerarchia ecclesiastica ha prodotto molti documenti relativi alla celebrazione della Settimana Santa che sono per lo più dei vademecum per il clero, segnati da preoccupazioni dottrinali, come la disciplina delle indulgenze o le norme relative a chi non può confessarsi. Cose che non chiamano in causa, se non marginalmente, la responsabilità dei laici e la fede nella dimensione sacerdotale propria del Battesimo. Ci accorgiamo adesso che abbiamo così tanto puntato su una pastorale sacramentalizzata, sul “dire la Messa”, che adesso ci troviamo davvero smarriti.
Il Signore è in mezzo a noi sì o no?
A un tratto ci siamo trovati nel deserto, esattamente come è accaduto al popolo di Israele. Quante volte, nel mondo cristiano, ci siamo riempiti la bocca di questa parola, il “deserto”: facciamo un momento di deserto! Cioè prendiamoci uno spazio, un tempo di preghiera e solitudine. Ma si tratta di un deserto che abbiamo scelto noi e che, alla fine, ci dà anche un po’ di gratificazione. Ci troviamo oggi in un deserto che non abbiamo scelto noi, che ci appare pieno di pericoli mortali e del quale non si vede ancora la fine. E la chiesa condivide con l’intera umanità questa improvvisa condizione di deserto globalizzato. Come riuscire a viverla? Questo è il punto su cui può venirci in aiuto la parola di Dio: che cosa ci può dire la Scrittura in relazione al deserto? E al deserto dei nostri giorni?
Nel libro dell’Esodo si legge che nel momento in cui Israele deve partire dall’Egitto, il Signore non li conduce per la strada più corta, ma per quella più lunga (Es 3,17): perché non nasca nel popolo la tentazione di tornare indietro, alla schiavitù d’Egitto. Il deserto appare così fin dall’inizio come uno spazio, e insieme come un tempo di prova.
Tra tutti gli episodi narrati in Es 15-17 risalta in modo drammatico la protesta degli israeliti a Massa e Meriba (“prova” e “tentazione”), a causa della mancanza d’acqua: l’episodio si conclude con una domanda radicale: «il Signore è in mezzo a noi, sì o no?» (Es 17,7). Il deserto sembra a Israele solo un vuoto spaventoso che pare voler inghiottire il popolo che in tale solitudine ha iniziato a camminare: questo Dio così misterioso è davvero in mezzo a noi, oppure no? Oppure questo deserto è una maledizione della quale possiamo incolpare solo un cieco destino?
Il dubbio di un credente, non la domanda di un ateo
«Il Signore è in mezzo a noi, sì o no?». Questa non è la domanda di un ateo, ma il dubbio di un credente che non ha ancora pienamente compreso che il Dio di Israele è un Dio liberatore. E tuttavia la domanda rimane, con tutta la sua forza provocatoria e scandalosa. In questo momento di deserto che stiamo vivendo, la comunità cristiana deve saper abitare questa domanda, condividerla con tanti esseri umani che in questo momento rispondono “no”, il Signore non è affatto in mezzo a noi, anzi, non c’è proprio alcun “Signore” in cielo. La comunità cristiana deve saper camminare insieme con loro, anche di fronte a questo tipo di risposte. Ma per farlo è necessario un supplemento di umanità che non sempre i cristiani riescono ad avere.
In queste settimane di pandemia si ha l’impressione che nel mondo globalizzato la religione sia rimasta al margine; la chiesa cattolica cerca di rispondere alla crisi e ritrovare visibilità ricorrendo ai mezzi più tradizionali: si moltiplicano così le devozioni, le preghiere a san Giuseppe, al Crocifisso miracoloso, alla Sindone… Scelte che senz’altro toccano le corde emotive di moltissime persone e che certamente incontrano un diffuso bisogno di fede (e di sacro, che non è necessariamente la stessa cosa). Ma: sono vere risposte? O almeno sono risposte convincenti? Davvero crediamo a un Dio che deve essere invocato perché fermi la pandemia? E se Dio è davvero onnipotente e buono, perché l’ha mandata, o quanto meno perché l’ha permessa?
Una domanda da rovesciare
La Bibbia rovescia una tale domanda: “dove sei?” è piuttosto ciò che chiede Dio all’uomo nel giardino (cf. Gen 3,9). La vera domanda che la Bibbia ci propone è così quella sulla nostra identità. Chi siamo noi? La risposta dell’uomo alla domanda di Dio è tragica: «ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (Gen 3,10). L’essere umano si scopre improvvisamente fragile, debole, impotente. Sperimenta che nel momento in cui ha preteso di porsi lui stesso come “dio” (“sarete come Dio”; cf. Gen 3,5) tutto crolla: crolla il rapporto con l’altro (ecco le foglie di fico per nascondersi), si rompe il rapporto con la terra (“spine e cardi produrrà per te”), si apre il cerchio della violenza, e il fratello uccide il fratello (Gen 4); la terra si corrompe e viene sommersa dal diluvio.
“Ho avuto paura”: l’essere umano inizia a concepire Dio come un giudice terribile, pronto a punire la minima trasgressione; non lo coglie più come quella presenza amica che passeggia nel giardino alla brezza del giorno (Gen 3,8). “Dove sei?”. Che ne è, uomo, di te? Che ne è tuo delirio di onnipotenza e della tua illusione di poter realizzare tutto con le tue sole forze?
Chi è Dio?
Di riflesso, alla luce di questa domanda sull’uomo, nasce una nuova domanda su Dio. Non tanto quella già ricordata, “dov’è Dio?”, ma piuttosto: chi è Dio? In quale Dio crediamo, prima ancora di chiederci dove egli sia? Di chi stiamo parlando? Di Dio o del vitello d’oro?
Nel cammino nel deserto, la grande tentazione di Israele è infatti quella di costruirsi un dio su misura, il vitello d’oro (cf. Es 32). Non si tratta di un altro Dio, ma di quello stesso Yhwh che ci ha fatti uscire dall’Egitto, ma che adesso vogliamo raffigurarci come a noi pare meglio. Con l’oro, appunto. Qualcosa che ci siamo acquistati, per cui abbiamo sudato. Un dio-idolo a nostro uso e consumo, che risponda alle nostre esigenze. Ebbene, quel dio non esiste, ce lo siamo appunto creati.
Non dimentichiamo che il cammino dell’esodo culmina nelle dieci parole ricevute al Sinai (cf. Es 20,1-17); e la prima di queste parole non ci dice tanto dov’è Dio, quanto piuttosto chi Egli sia: «io sono il Signore tuo Dio che ha fatto uscire te dalla terra d’Egitto, dalla casa delle schiavitù. Non avrai dèi stranieri davanti al mio volto» (Es 20,1-2). Il Dio biblico è un Dio che libera e che salva, che non tollera il male. È un Dio che scommette sulla libertà dell’essere umano e che vuole che sia l’umanità stessa a realizzare il suo progetto nel mondo.
Nel Nuovo Testamento, è il Dio di cui parla Gesù chiamandolo “abbà”, padre, proprio nel momento della maggior sofferenza, di fronte alla prospettiva della croce (cf. Mc 14,36). Un Dio che Gesù incarna nella sua umanità e, in modo tutto speciale, nella sua compassione verso l’altro.
Non ci vuole più religione, ma più fede
Se non siamo capaci di porci una corretta domanda sull’identità di Dio rischiamo seriamente che una volta usciti da questa pandemia, il mondo occidentale rimanga ancor più convinto che la vera salvezza viene solo dalla scienza e che la religione può tutt’al più avere un ruolo subalterno, magari consolatorio, ai margini della razionalità. Per le chiese cristiane è l’ora di puntare sulla maturità della fede.
Quella che oggi stiamo vivendo è certamente un’ora di crisi; “crisi” nel senso profondo della parola, dal greco “giudizio”: un’occasione cioè per operare un giudizio sulla realtà e sulla nostra vita e per compiere delle scelte. È anche un’ora “apocalittica”, ma nel senso biblico del termine, non cioè “distruzione”, ma “rivelazione”: in quest’ora della storia il Signore ci rivela per quel che veramente siamo, per quello in cui realmente crediamo. Non ritengo di poter affermare con certezza che questa “crisi” e questa “apocalisse” si trasformerà necessariamente in un’opportunità che ci renderà più solidali gli uni verso gli altri; non so se davvero nascerà quella compassione universale che ci renderebbe più umani, perché la sofferenza, il dolore, la morte non accrescono automaticamente l’amore e la bontà; l’egoismo umano ci porta infatti troppe volte a scegliere l’opposto. Se poi le chiese cristiane non saranno capaci di interrogarsi su quale volto di Dio esse stanno annunziando, il rischio è quello di uscire da questa crisi scoprendo la nostra insignificanza per il mondo contemporaneo. La verità è che nel momento delle grandi prove non ci vuole più religione, ma più fede. Dove la fede consiste nel non voler dire mai più, di fronte alle sciagure, “dov’è Dio?” o “Dio dove era?”, ma nel saperlo riconoscere al centro dell’esistenza, come il Dio della vita.
*Luca Mazzinghi
Parroco di san Romolo a Bivigliano (FI).
Professore ordinario di Esegesi dell’Antico Testamento presso la Pontificia Università Gregoriana.
(fonte: Viandanti)