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venerdì 22 maggio 2020

Egoisticamente, la solidarietà è l’unica scelta che abbiamo

Egoisticamente, 
la solidarietà 
è l’unica scelta che abbiamo.
Il virus e nuovo mondo nel pensiero del filosofo Slavoj Žižek



Ripete più volte quell’affermazione che Papa Francesco aveva fatto risuonare nella memorabile preghiera pubblica in piazza San Pietro, il 27 marzo scorso: «Siamo tutti sulla stessa barca». Slavoj Žižek, filosofo, intellettuale poliedrico e conosciuto per i suoi richiami marxisti, inframmezzati da forti debiti con Jacques Lacan, non ha dubbi: «Adesso siamo tutti sulla stessa barca». Lo ribadisce almeno tre volte nel suo recentissimo volume Pandemic! Covid-19 Shakes The World (OrBooks, New York – Londra), appena pubblicato, di cui (per gentile concessione dell’editore) pubblichiamo qui uno stralcio in nostra traduzione.

Ed è una situazione precisamente cristiana, questa della sofferenza comune, secondo il pensatore sloveno. Facendo eco a Catherine Malabou, Žižek scrive che «una sospensione della socialità è qualche volta il solo accesso all’alterità, un modo per sentire vicine tutte le persone isolate sulla Terra. Questa è la ragione perché sto cercando di essere solidale per quanto possibile nella mia solitudine. E questa è un’idea profondamente cristiana: quando mi sento solo, abbandonato da Dio, in quel momento sono come Cristo sulla croce, in piena solidarietà con lui».

Il filosofo sloveno, che non ha remore nell’autopresentarsi come «un ateo cristiano» — famosi i suoi testi su san Paolo e la teologia, scritti insieme al teologo anglicano John Milbank e pubblicati in Italia da Transeuropa — nota come il sorgere del coronavirus abbia funzionato come amplificatore di alcune tendenze positive e altre negative della nostra società. Sul fronte negativo, «l’attuale diffusione dell’epidemia di coronavirus ha portato ad un’altrettanto vasta epidemia di virus ideologici che erano dormienti nella nostra società: fake news, teorie cospiratorie paranoiche, esplosioni di razzismo». Ma anche, e soprattutto, tanta, tanta solidarietà. Slavoj Žižek ne è convinto, e usa un termine a lui caro — un nuovo «comunismo» — per identificare le possibilità di bene che possono sorgere dalle conseguenze della pandemia: «Non mi riferisco ad un’idealizzata solidarietà tra le persone: al contrario, la crisi attuale dimostra chiaramente come la solidarietà e la cooperazione globali sono nell’interesse della sopravvivenza di tutti e di ciascuno di noi, come esse siano la sola scelta razionale ed egoistica da fare». La pandemia ci ha convinto di una questione, ahimè, troppo dimenticata: «Il nostro principio fondamentale non dovrebbe consistere nell’economizzare l’assistenza, ma assistere tutti coloro che ne hanno bisogno, in maniera incondizionata, senza guardare in faccia i costi». Ricordando anche che «le decisioni sulla solidarietà sono eminentemente politiche».

Il mondo consumeristico tipico del capitalismo globalizzato, afferma Žižek, sta subendo gravi colpi. E il pensatore di Lubiana sintetizza questa sconfitta identificandola in alcuni simboli: «I parchi divertimenti si stanno trasformando in città fantasma: perfetto, non posso immaginare un luogo stupido e più noioso di Disneyland. La produzione di automobili è seriamente colpita: bene, questo ci costringerà a pensare ad alternative alla nostra ossessione di veicoli individuali. La lista potrebbe continuare».

Di fronte a quanti cercano (ancora) un capro espiatorio nei migranti che provano ad attraccare in Europa, Žižek ha parole sferzanti: «È difficile capire il loro livello di disperazione se un territorio messo in quarantena da un’epidemia è ancora una destinazione attraente per loro?». E anche rispetto ad un’altra categoria di quella «cultura dello scarto» che Francesco ha varie volte stigmatizzato — gli anziani — Žižek ha parole quanto mai decise, che fanno riferimento a quel «nuovo barbarismo» cui fa cenno nel testo che presentiamo qui. L’annotazione riguarda le decisioni sanitarie per cui si sarebbero lasciati morire le persone più in là con gli anni, considerandole sacrificabili: «La sola altra occasione in tempi recenti in cui è stato assunto un approccio simile, a mia conoscenza, è stato negli ultimi anni del regime di Ceauşescu in Romania, quando le persone anziane semplicemente non venivano accettate in ospedale, qualunque fosse il loro stato, perché venivano considerate di nessun utilizzo per la società».

di Lorenzo Fazzini


La vicinanza è nei nostri occhi
«Non mi toccare» sono le parole che, secondo Giovanni (20,17), disse Gesù a Maria Maddalena quando lei lo riconobbe dopo la resurrezione. E io, un cristiano ateo dichiarato, come interpreto questa frase? Anzitutto, la interpreto in relazione alla risposta data da Cristo al discepolo che gli domanda come avrebbero saputo che era tornato, risorto – Cristo dice che sarà lì ogni volta che i credenti si riuniranno nello spirito d’amore. Sarà lì, non come una persona tangibile, ma nella forma del legame d’amore e solidarietà fra le persone – quindi «non mi toccare, tocca gli altri e occupati di loro nello spirito d’amore»...Oggi, però, nel pieno dell’epidemia di coronavirus, siamo tutti martellati dai moniti a non toccare gli altri e, anzi, a isolarci, a mantenere una distanza fisica adeguata – rispetto al «noli me tangere», tutto questo cosa comporta? Le mani non possono raggiungere l’altra persona, soltanto dall’interno possiamo avvicinarci gli uni agli altri – e la finestra a cui si affaccia la nostra «interiorità» sono gli occhi. In questi giorni, quando si incontra un conoscente (o persino un estraneo) e si mantiene la giusta distanza, guardare profondamente l’altro negli occhi può rivelare più di un con-tatto intimo. In uno dei frammenti della giovinezza, Hegel scrisse: «L’amato non ci è opposto, è uno con la nostra essenza: in lui vediamo solo noi stessi, e tuttavia non è noi: miracolo [ein Wunder] che non siamo in grado di capire». È decisivo evitare di scorgere una contrapposizione in queste due proposizioni, come se l’amato fosse in parte un «noi», parte di me, e in parte un enigma. Il miracolo dell’amore non consiste forse proprio nel fatto che tu sei parte della mia identità, purché resti un miracolo che non posso afferrare, un enigma non solo per me ma anche per te stesso? Per citare un famoso brano del giovane Hegel: L’uomo è questa notte, questo puro nulla, che tutto racchiude nella sua semplicità – una ricchezza senza fine di innumerevoli rappresentazioni ed immagini, delle quali nessuna gli sta di fronte o che non sono in quanto presenti. [...] Questa notte si vede quando si fissa negli occhi un uomo. Questo neppure il coronavirus può strapparcelo – pertanto ci si può augurare che rispettare una certa distanza fisica potrà persino rafforzare l’intensità del legame con gli altri. Soltanto ora che debbo evitare molti fra coloro che mi sono vicini sento pienamente la loro presenza, quanto sono importanti per me... Già mi pare di sentire una risata cinica: va bene, raggiungeremo pure momenti di grande prossimità spirituale, ma questo come ci aiuterà a fronteggiare la catastrofe che ci ha colpiti? Impareremo qualcosa? Hegel scrisse che dalla storia impariamo solo che non impariamo niente dalla storia, quindi dubito che l’epidemia ci renderà più saggi. L’unica cosa chiara è che demolirà i fondamenti della nostra vita, determinando non solo immenso dolore ma anche uno sconquasso economico probabilmente peggiore della Grande Recessione. Non si ritorna alla normalità, la nuova «normalità» dovrà essere ricostruita sulle macerie della vita di una volta, oppure ci ritroveremo in una nuova barbarie di cui già si scorgono distintamente le prime avvisaglie. Quindi non sarà sufficiente trattare l’epidemia come uno sfortunato incidente, sbarazzarsi delle conseguenze e riprendere l’andamento scorrevole del vecchio sistema – dovremo sollevare la domanda: che cosa proprio non va nel nostro sistema, tanto da far-ci cogliere impreparati dalla catastrofe, malgrado gli scienziati ci avvertissero da anni? Dare una risposta a questa domanda richiederà molto di più che nuove forme di assistenza sanitaria globale.

(da Virus. Catastrofe e solidarietà di Slavoj Zizek, Ponte alle grazie, 2020, pagg 5-7)