Novena di Natale
a cura di Antonio Savone
VII giorno
Eppure
“Non abbiamo sparato un colpo quel giorno. Abbiamo soltanto approfittato di quel giorno di quiete, guadagnando tempo sulla morte”.
Mi piace iniziare questa omelia nella notte santa, attingendo alla testimonianza scritta da un fuciliere scozzese l’8 gennaio 1915, il quale riportava su un quotidiano inglese la tregua avvenuta nella notte del 25 dicembre 1914. In una terribile guerra di posizione, mentre si lottava per guadagnare pochi metri di terra di nessuno in due opposte trincee fangose, allo scoccare della mezzanotte, i ragazzi del fronte tedesco intonano un canto natalizio a cui i ragazzi scozzesi rispondono con il suono delle cornamuse, mentre ripensano con nostalgia ad affetti e luoghi cari. Qualcosa ebbe la meglio sul rombo dei cannoni: la consapevolezza della comune appartenenza all’umanità, prima ancora che ad un popolo e perciò ad una cultura specifica. Quella tregua di Natale fu il tentativo spontaneo di una riconciliazione dal basso: i comandi supremi, infatti, che non l’avevamo ordinata, imposero che non accadesse mai più in futuro. Una tregua scoppiata all’improvviso, senza alcun preavviso né accordo.
Guadagnare tempo sulla morte: trovo in questa espressione il senso del nostro essere qui stanotte. Il Natale porta con sé in modo quasi misterioso la capacità di riattivare la disponibilità a recuperare aspetti di noi troppo spesso rimossi o dimenticati. Esso, a dispetto di momenti di difficoltà e di crisi, ricorda che c’è altro per cui vale la pena mettersi in gioco e spendersi. Proprio l’esperienza di precarietà della condizione umana è ciò che ha spinto Dio a farla sua. Il Natale, infatti, narra di un Dio che fa la prima mossa verso l’uomo non attendendo che da parte di questi ci siano già i segni di un ravvedimento o della disponibilità ad accogliere quanto egli vorrà offrirgli.
Proprio questo tempo di precarietà che corrisponde a un vero tempo penitenziale, può essere sorgente di nuove relazioni con la riscoperta dell’essenzialità, di nuovi stili di vita, di sobrietà di consumi; può essere occasione più spazio per il cielo, più tempo per cogliere il cuore dell’altro.
Ci è capitato – oh, sì che ci è capitato, e non una volta soltanto – di trovarci a vivere momenti di stanchezza, se non addirittura di tensione, all’interno di qualche relazione per noi significativa. E, mentre eravamo lì a riandare con la mente ai ricordi di quanto avevamo condiviso, ci siamo ritrovati a chiederci: a chi tocca fare la prima mossa? Non diversa la situazione dell’umanità. Quell’esperienza di comunione, sintonia, amicizia, condivisione che ha caratterizzato il rapporto dell’uomo con Dio, ad un tratto, per una strana volontà di riscatto, di rivalsa, ha conosciuto una incrinatura i cui strascichi li patiamo ancora oggi, nessuno escluso. E, sebbene, ne siamo indelebilmente segnati e mentre subiamo le conseguenze di quella esperienza, ci riscopriamo quasi incapaci di ristabilire da soli la comunione infranta. Per questo è Dio stesso a prendere nuovamente l’iniziativa di fare la prima mossa.
Eppure è Natale… Forse questa congiunzione potrebbe essere considerata la chiave più idonea per afferrare il senso profondo che il Natale ha rappresentato, in ogni tempo e in ogni latitudine, da venti secoli a questa parte. Eppure…
Ci si può togliere tutto, ma non il Natale. Anche se tutto sembra precario e appeso ad un filo, il Natale viene. Certo, viene come data da calendario e porta con sé il clima che conosciamo. Tuttavia, esso porta con sé una domanda: sei disposto a fare la prima mossa?
Siamo tutti perennemente alla ricerca di una identità, di una forma che ci aiuti a realizzarci come persone. E a volte tale ricerca è non solo affannosa ma inconcludente. La liturgia di questa notte ci annuncia che la nostra forma va individuata in Gesù Cristo. Così, infatti, pregheremo tra poco: “Accetta, o Padre, la nostra offerta in questa notte di luce, e per questo scambio di doni trasformaci nel Cristo tuo Figlio, che ha innalzato l’uomo accanto a te nella gloria”.
In questa notte, assumendo la nostra umanità, Gesù ci fa dono della sua condizione. E, tuttavia, sebbene il dono di Dio sia irrevocabile, la nostra appropriazione non è mai del tutto compiuto perché patiamo il fascino di misurarci su altri modelli. Basta andare solo per un attimo alla cronaca di questi giorni: ci accontentiamo di molto meno ma, ahimè, a quale prezzo. Dietro una crisi economico-finanziaria, infatti, c’è un vero e proprio impoverimento del nostro essere uomini. Non è forse vero che troppo spesso la persona umana è ridotta alla funzionalità dei suoi neuroni? Che l’amore è considerato solo alla stregua di una combinazione chimica? Che la famiglia è tale solo finché vige un accordo? Che il diritto è ridotto a desiderio? Che i valori morali sono ridotti al sentimento dell’istante? Che la cultura è ridotta a opinione, la verità a sensazione e l’autenticità alla stregua dell’autoaffermazione? Il riduzionismo ci seduce ma al contempo ci avvilisce perché ci ruba ciò che è essenziale alla vita buona proposta dal Vangelo.
Una forma di vita non vale l’altra: solo Gesù Cristo è in grado di dare forma compiuta alla nostra vera identità. Lo hanno compreso molto bene i quattro bambini di Mosul decapitati di recente perché, a chi gli intimava di professare la formula di adesione all’Islam, hanno avuto la forza di rispondere: “Non possiamo farlo. Amiamo Gesù e seguiamo solo lui”.
(fonte: A casa di Cornelio)