La parola che si fa carne
per un Natale privo di retorica
di Mons. Giuseppe Schillaci,
vescovo di Lamezia Terme
vescovo di Lamezia Terme
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1. Il rendimento di grazie
Il 6 luglio scorso come Chiesa lametina abbiamo vissuto un evento di grazia con la mia ordinazione episcopale: ci siamo lasciati interpellare e coinvolgere da questo momento per interrogarci e capire meglio il nostro essere discepoli del Signore. Ci siamo proposti di guardare la realtà che ci circonda come Cristo la guarda, in particolare tutti gli uomini e le donne del nostro tempo e del nostro territorio senza cercare di escludere nessuno a priori, e quindi ascoltare come egli ascolta, e soprattutto servire come egli serve. Ad oggi ho potuto incontrare tante realtà e ascoltare molte persone. Allora voglio vivere questo Natale all’insegna del rendimento di grazie. Il Signore non ci lascia soli. Egli manifesta il suo amore per noi con la sua incarnazione che rappresenta sempre per noi un motivo di profonda riflessione, di sincera gratitudine, ma anche di una sana inquietudine, perché diventiamo sempre più discepoli di Gesù Cristo.
2. La Gioia
Non è bene che vi sia tristezza nel giorno in cui si nasce alla vita
S. Leone Magno, I Discorso nel Natale del Signore
Se come dice papa Francesco “la gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita di coloro che si incontrano con Gesù” (Evangelii Gaudium 1), non possiamo non essere nella gioia, vivere nella gioia, dimorare nella gioia, che scaturisce da tale incontro, anche quando nella nostra vita sopraggiungono avversità, incomprensioni, dolori e sofferenze di ogni genere… La gioia per il cristiano è la persona di Gesù Cristo. Con Lui e in Lui nasce e rinasce la gioia! Questa gioia siamo invitati a contemplare, in particolare in questi giorni, nel mistero di un Bimbo offerto a noi nella mangiatoia. Questo è un segno che si consegna a noi nell’umiltà, mai nella potenza, nella presunzione o nell’arroganza. Si consegna a tutti, sempre, con i tratti della vicinanza e della tenerezza, non della distanza e della durezza. Davanti al Bambino di Nazareth tacciono le parole, prende forma e si manifesta lo stupore, indietreggia ogni giustificazione o autodifesa perché vengano fuori le cure e le attenzioni, svanisca la tristezza e lo sconforto, nasca la speranza e la consolazione per tutti noi, per le nostre Città, per la nostra Calabria, per la nostra Italia, per l’Europa, per il mondo intero.
3. Il Dono
Adagiato in una mangiatoia, divenne nostro cibo
Agostino, Sermone 189,4
Un bimbo ci è stato donato: è la gratuità del dono. Il Natale è l’occasione per fermarci e pensare alla verità della nostra fede, abbandonando, se fosse necessario, ogni formalismo nella nostra religiosità, per puntare sempre più all’essenzialità, alla semplicità, alla sobrietà. Il Signore nel suo Natale ci invita a non lasciarci tentare da chiusure ed esclusioni per paura di perdere comodità e privilegi, ma ci spinge a rischiare, affrontando, anche disagi e avversità. Come ricorda Papa Francesco nella sua lettera Admirabile Signum è stata propria la considerazione dei disagi della nascita di Gesù a ispirargli la realizzazione del presepio a Greccio. Scrive Tommaso da Celano, riportando le parole del Poverello di Assisi: «Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello».
Il Natale del Signore ci richiama a riscoprire le dimensioni essenziali della nostra vita di fede senza temere di spendersi, mettendo in gioco tutta la nostra vita: rivedendo i nostri modi di pensare, di sentire e di agire. Lasciamoci contagiare dalla gioia che scaturisce dalla gratuità e dalla generosità di questo dono. Un dono che si moltiplica quando poniamo in essere tutte le nostre capacità di condivisione. Se partiamo dal principio che il Natale è per noi una gioia che viene incontro a noi e a tutti, senza alcun merito nostro, si dischiude dinanzi un mistero inesauribile di amore, di bontà e di grazia. “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3, 16). A fronte di una mentalità che spesso tende a privilegiare interesse e tornaconto personale e che si rinchiude dentro l’orizzonte ristretto del proprio io, la gioia del Natale che ci viene incontro ci dilata il cuore, la mente e le braccia. Mettiamoci sempre più alla scuola della gratuità e della generosità che si mostra nel volto di un Bambino. Dio viene a salvarci con la dolcezza, la debolezza e l’umiltà di un bambino indifeso. Dio ama così, impariamo da lui ad amare e ad amarci, a donare e a donarci come egli ama, come egli si dona. Amare si coniuga benissimo con donare. L’amato è il donato!
4. La missionarietà
Costituiamoci in uno stato permanente di missione
Papa Francesco, Evangelii Gaudium 25
Questa gioia, che siamo chiamati a contemplare nel mistero del Natale, ci viene incontro generosamente e gratuitamente per cui non è riservata solo ad alcuni o a pochi, ma è per tutti. “Non temete: ecco vi annuncio una grande gioia che sarà di tutto il popolo: oggi è nato, nella città di Davide, per voi un Salvatore, che è Cristo Signore” (Lc 2, 10-11). Una gioia grande che si espande, che si consegna senza escludere nessuno: è la gioia di un popolo, è la gioia grande che è per tutto il popolo. Gesù Cristo è la gioia di tutti! Una gioia che va comunicata a tutti, perché di tutti. Spinge sempre ognuno di noi ad andare oltre. Il discepolo non può tenere per sé una gioia che in sé è incontenibile e che pertanto va offerta a tutti. Il mandato missionario dei discepoli trova qui la sua ragione profonda. Dice papa Francesco: “La gioia del Vangelo che riempie la vita della comunità dei discepoli è una gioia missionaria” (Evangelii Gaudium 23). Siamo ormai sempre più consapevoli che la missione non riguarda soltanto alcune persone che partono lontano per andare ad evangelizzare altri popoli (missione ad extra), ma riguarda tutti noi. Nessuno di noi pensa di annunciare ad altri se non vive. Si comunica ad altri ciò che si vive. Si evangelizza se si è evangelizzati. La trasmissione evangelica avviene per “attrazione e non per proselitismo” (Papa Benedetto XVI). In forza del battesimo tutta la comunità cristiana è chiamata ad annunciare il Vangelo, non è una riservata solo ad alcuni. Sentiamoci tutti, noi della Chiesa di Lamezia Terme, impegnati e coinvolti in questo annuncio. Accogliamo l’invito di papa Francesco: “Spero che tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno. Ora non ci serve una ‘semplice amministrazione’. Costituiamoci in tutte le regioni in uno ‘stato permanente di missione’” (Evangelii Gaudium, 25). Siamo chiamati ad essere sempre di più una comunità evangelizzatrice, in quanto si nutre, vive del Vangelo, non in astratto ma concretamente: “La comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo. Gli evangelizzatori hanno così ‘odore di pecore’ e queste ascoltano la loro voce” (Evangelii Gaudium, 24).
5. La nostra umanità
Basterebbe partire dal principio che ogni essere umano in sé,
prima ancora di avere dei doni e dei beni, è già un dono, è un bene in sé
Saluto del Vescovo alle autorità civili, 6 luglio 2019
Per questo ci rendiamo sempre più conto che è necessario abbandonare una certa retorica sdolcinata del Natale, soprattutto quando si pronunciano parole che non riescono a prendere corpo nei nostri vissuti esistenziali, ma rimangono relegate in un puro discorso teorico e astratto che cerca solo soddisfazione e gratificazione egocentrica. E’ mio desiderio che le nostre comunità cristiane abbiano uno stile improntato a maggiore concretezza: il mistero dell’incarnazione di un Dio che si fa uomo si manifesta al mondo, agli altri, a tutti, nella misura in cui noi come discepoli siamo capaci di assumere il medesimo stile. Diceva David Maria Turoldo: “Mi si perdoni. Le feste del Signore mi prendono tutte in contropiede, ma specialmente il Natale. Dove prende corpo, Cristo a Natale? In quale vita, in quale casa nasce, col suo carico di divino amore e di perdono e di umiltà e di servizio? Dove si fa carne e sangue per essere anima di una società nuova? Gli interrogativi potrebbero continuare. Prima di tutto per la mia stessa vita, per la gente di casa mia, per i cristiani che siamo, tutti diffidenti e preoccupati di una Provvidenza che ci mantiene gratuitamente e che pure potrebbe tagliarci subito l’aria, lasciarci tutti boccheggianti da un minuto all’altro” (La Parola di Gesù, 26). La parola si fa carne, Dio si fa uomo. Dio ha preso corpo assumendo la nostra debolezza. È Lui ad insegnarci che cosa significa farsi carico e come farsi carico quindi a non fuggire per esempio alle nostre responsabilità. Dio si avvicina a noi entrando nella nostra storia, coinvolgendosi. I padri da Atanasio in poi ci hanno insegnato che non si salva niente se non si assume. Quod non est assumptum non est sanatum. Cosa significa, ma soprattutto cosa comporta per noi oggi assumere la nostra realtà? Per noi presbiteri e diaconi, nelle nostre comunità, per noi Religiosi e religiose, per noi seminaristi, per noi fedeli tutti, uomini e donne, per noi genitori, per noi figli? Come Dio prende corpo nella nostra vita di ogni giorno, nei nostri pensieri, nei nostri sentimenti, nelle nostre scelte?
La vita di ognuno di noi, fatta di disagi, sofferenze, malattie, fragilità, è anche la vita dentro la quale emergono risorse e potenzialità. Guardiamo dentro di noi, ma guardiamo anche fuori di noi: per esempio la bellezza del nostro territorio. Le vere risorse e potenzialità, lo sappiamo tutti, sono anzitutto gli uomini e le donne, è la nostra gente: le vere risorse siamo noi stessi!
Adoperiamoci perché nelle nostre comunità, nelle nostre parrocchie ci sia sempre più accoglienza, porte aperte non solo delle nostre chiese, delle nostre case, ma soprattutto della nostra mente e del nostro cuore. Non lasciamoci tentare da uno stile di vita che pensa anzitutto al proprio benessere personale, che si rifugia dentro la preoccupazione e la paura, che ci convince a dimenticarci degli altri in particolare dei più fragili, dei più deboli, dei più poveri. Non lasciamo che si affermi l’orizzonte di un pensiero unico in cui prevale l’indifferenza. Facciamo sempre in modo che ci sia meno indifferenza, non solo tra di noi, ma anche nei confronti di tutta la realtà che ci circonda, nei confronti della bellezza del nostro territorio: rispettiamo e amiamo la nostra casa comune; adoperiamoci perché ci sia sempre più meno individualismo, meno conflittualità tra di noi, ma più attenzione agli altri, più solidarietà, più compassione, più tenerezza, più vicinanza, più accoglienza nei confronti di tutti, in particolare nei confronti di chi non ha niente di niente.
In questi giorni fermiamoci a contemplare nel silenzio l’esempio della famiglia di Nazareth, lasciamoci interrogare da un mistero di amore che prende carne e sangue, che si fa gesto concreto di accoglienza profonda, di tenerezza commossa, di vicinanza responsabile, che genera processi virtuosi nella nostra terra, nelle nostre comunità, nella nostra vita.
Giuseppe Schillaci
13 dicembre 2019
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