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mercoledì 25 dicembre 2019

La rivoluzione del Natale ci chiede un maggiore impegno per arrestare un'emorragia di umanità di cui sono vittime innanzitutto i deboli e gli esclusi. Don Luigi Ciotti

La rivoluzione del Natale
ci chiede un maggiore impegno 
per arrestare un'emorragia di umanità 
di cui sono vittime innanzitutto i deboli e gli esclusi. 
Don Luigi Ciotti


Quest’anno il Natale ci richiede un impegno aggiuntivo”. La parola “impegno” è per Luigi Ciotti un riflesso condizionato. E stupisce - anche solo a stargli accanto una mezza domenica mattina - la mole di impegno intellettuale e fisico che accompagna la vita di questo sacerdote 74enne, da oltre mezzo secolo punto di riferimento di un cristianesimo sociale e civile che, al netto del papato francescano, a volte non sembra godere di straordinaria salute. A don Ciotti, uomo di chiesa decisamente imprevedibile per chi non l’abbia mai sentito parlare, abbiamo chiesto una riflessione sul Natale.

Luigi, perché sostiene che questo Natale richieda un impegno aggiuntivo?
Perché a chiederci un maggiore impegno è la speranza, simbolo e senso del Natale. La speranza non è solo attesa di un futuro migliore: è costruzione di quel futuro con un impegno il più possibile corale, costante, quotidiano. E mai come oggi dobbiamo impegnarci di più per arrestare una perdita, anzi un’emorragia di umanità” di cui sono vittime innanzitutto i deboli e gli esclusi, le persone senza voce, né diritti: i poveri, gli immigrati, i giovani. E con loro la Terra –la nostra casa comune – continuamente sfregiata, saccheggiata, avvelenata.

Quante volte sentiamo dire “bisogna tornare alla spiritualità, il consumismo ha ucciso il Natale”. Ma è davvero tutto da buttare il “comune”Natale? Non è anche un momento in cui, forse, ci si parla di più del solito?
Certo, quello è un aspetto prezioso del Natale che va preservato dal consumismo: le relazioni, la convivialità, il ritrovarsi nel calore e negli affetti. E, ovviamente, la gioia dei bambini, la trepidante attesa dei pacchi colorati deposti nottetempo da Babbo Natale ai piedi dell’albero. Ma il Natale non è solo un momento di festa e di gioia, è anche un’occasione di riflessione e di pensiero. Il Natale tocca i nostri cuori ma interpella anche le nostre coscienze. Ci domanda non solo di essere genericamente “buoni”, ma anche concretamente giusti, cioè di darci di più da fare per chi è vittima delle ingiustizie, per chi arranca nel deserto degli affetti e dei diritti prodotto dagli egoismi dell’Occidente del profitto e dell’opulenza.

Il Natale può avere un valore spirituale anche per i non credenti, ossia per quelli che non raramente la apprezzano più dei credenti?
La spiritualità del Natale ha un valore universale perché è la celebrazione dell’imprevedibilità di Dio che si fa incontro a noi. Un dio inaspettato che si è fatto bambino n el l ’umiltà e nella fragilità. Non si è mascherato, si è fatto persona e ha condiviso tutta la nostra condizione umana. Questa è la rivoluzione del Natale, che però porta con sè anche un sapore di tristezza. Quel bambino non è stato accolto, non è stata accolta la vita perché, citando il Vangelo di Luca, per loro non c’era posto. Questa è una storia universale, che si creda oppure no.

Decliniamo il Natale all’italiana. Che presepe farebbe? Chi sarebbe il bue, chi l’asinello, chi troverebbe posto nella Sacra Famiglia?
Farei un presepe multietnico, un presepe che sia simbolo e sintesi d’incontro e di relazione, un presepe di vita, perché la vita è in sé stessa relazione, incontro e inclusione di diversità. L’identità – sia essa personale, religiosa, culturale, politica – è tanto più forte quanto più è capace di includere. Se respinge l’altro mostrando i muscoli ed erigendo muri, è per nascondere la sua paura, la sua debolezza. Avere paura dell’altro vuol dire avere paura della vita. Ma se ciò vale per la politica tanto più vale per la religione, che per prima dovrebbe testimoniare il dialogo e la relazione, al di là dei riferimenti, dei simboli, delle dottrine. È l’orizzonte a cui richiama e verso cui si sta muovendo Papa Francesco. Un orizzonte che altri hanno indicato e auspicato. Penso ad esempio al cardinale Carlo Maria Martini, uomo di profondissima spiritualità e ingegno, che sentì un giorno il bisogno di ricordare che “Dio non è cattolico”. Le religioni non possono concepire Dio come proprietà esclusiva perché Dio per primo ci chiede di essere prossimi, di volerci bene nelle diversità, di riconoscerci nella nostra comune umanità.

Dovesse scrivere una lettera a Gesù Bambino, oggi?
Se oggi fossi un bambino vorrei essere capace di accorgermi dei compagni in difficoltà, e chiederei a Gesù Bambino di pensare anche a loro, anzi prima di tutto a loro. Perché non si può davvero gioire sapendo che qualcuno è escluso dalla tua gioia. Per fortuna molti bambini oggi sentono in questo modo, perché l’infanzia continua a essere un’età pura, incorrotta, palpitante di vita. Poi, certo, contano anche molto le famiglie, gli orientamenti che un bambino riceve e gli esempi che gli vengono offerti, e io ho avuto la fortuna di avere una mamma e un papà meravigliosi, che mi hanno educato a quell’attenzione per gli altri nonostante fossimo una famiglia tutt’altro che agiata, che doveva faticare, a volte arrancare, per vivere.

(Intervista di Stefano Caselli per Il Fatto Quotidiano - 23.12.2019)

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