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venerdì 28 giugno 2019

Quanto dura l'effetto di una foto che ha risvegliato la nostra umanità?

Papà e bimba annegati in Messico. Morcellini (Agcom): 
“Una foto simbolo urtante può risvegliare nostra umanità”

"Quella foto dice molto del nostro tempo. Sospenderne la pubblicazione sarebbe un dramma e aumenterebbe il nostro disimpegno etico". Ne è convinto Mario Morcellini, Commissario dell'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom) e studioso di giornalismo e reti digitali. Anche se la foto del papà e della bimba annegati alla frontiera tra Messico e Stati Uniti è scioccante, il suo impatto sull'opinione pubblica può "essere l’inizio di una riscossa" e dimostrare "che siamo comunque permeabili al dolore del mondo"


“E’ vero che c’è una piccola strumentalizzazione del corpo inerme e indifeso di questi due morti ma è anche vero che, se diventano simboli del nostro tempo, può essere l’inizio di una riscossa”. Così il Commissario dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom) Mario Morcellini, studioso e docente di comunicazione, giornalismo e reti digitali della Sapienza Università di Roma, commenta la foto choc di Oscar Alberto Martinez Ramirez e della sua bambina di 23 mesi, Valeria, provenienti da El Salvador, annegati nel fiume Rio Grande nel tentativo di oltrepassare la frontiera tra Messico e Stati Uniti. Una foto che ha fatto indignare gli Stati Uniti e sta facendo il giro del mondo, emblema di tutte le tragedie migratorie in corso nel nostro tempo. Anche Papa Francesco “è profondamente addolorato per la loro morte, prega per loro e per tutti i migranti che hanno perso la vita cercando di sfuggire alla guerra e alla miseria”, ha detto Alessandro Gisotti, direttore “ad interim” della Sala Stampa della Santa Sede.

Mario Morcellini
La foto ricorda molto quella di Alan (Aylan) Curdi, il bimbo siriano annegato nel Mediterraneo nel 2015. Grande emozione, poi di nuovo indifferenza e cinismo per il dramma delle morti nel Mediterraneo. Ogni volta dobbiamo arrivare fino a questo punto per scuotere la coscienza civile?

La potenza della fotografia, per il modo in cui immobilizza la realtà, singolarmente urtante, soprattutto della nostra coscienza, la dice lunga sul fatto che almeno in profondità noi restiamo umani.

Bisognerebbe riflettere sul fatto che basta una fotografia per ripristinare elementi di coscienza ed autocoscienza del nostro tempo.

C’è un passaggio, in un romanzo di Graham Greene, in cui l’autore racconta di poliziotti aguzzini ad Haiti che portano gli occhiali scuri per non farsi vedere negli occhi e per non guardare le vittime, per evitare un indebolimento della loro coscienza e quindi provare pietà. Questo significa che negli occhi degli uomini è depositata una grande risorsa, quella di una lettura della realtà che può persino liberarsi dalle mode e dall’eccesso di pressioni politiche che sembrano fondarsi sulla rinuncia alla consapevolezza.

La foto immobilizza il nostro sguardo e dimostra che siamo comunque permeabili al dolore del mondo.

Come possiamo contrastare il disimpegno etico?

Dobbiamo cercare di capire come possa vincere, anche solo congiunturalmente, il disimpegno etico. C’è una frase di uno filosofo francese del ‘900, Paul Ricoeur, che dice: noi conosciamo l’altro attraverso i racconti che lo riguardano. Questa frase, a mio avviso, efficacemente commenta la nostra reazione di fronte alla fotografia: abbiamo bisogno di capire l’altro e, anzitutto, di introiettarlo nella nostra retina visiva.

Cosa sta succedendo alla nostra società, modellata anche da un certo modo di fare comunicazione?

In qualche modo abbiamo dichiarato guerra al cambiamento, compresi i migranti, come se fossero loro a rappresentare la foto ingiusta del cambiamento. A questo proposito gli studiosi devono cominciare a dire cose molto più dure di quelle che ci siamo scambiati finora: non basta più la parola “populismo”, che è solo la conseguenza. Una parte delle politiche pubbliche, quelle più improntate ad una idea plebiscitaria della politica, sembra invece puntare al disimpegno etico. Ci sono politici che hanno intuito che per vincere devono abbassare la soglia etica e dell’attenzione nei confronti degli altri. È così che vince la gigantesca fake sui migranti.

Qui c’è un gioco sconvolgente da parte della comunicazione e c’è da domandarsi quanto la comunicazione abbia esercitato la funzione per cui è nata, che non è solo quella di narrare, ma di farlo con responsabilità sociale.

Non accade solo in Italia, anche negli Stati Uniti e in altri Paesi.

Sta accadendo anche negli Stati Uniti e non a caso un grande studioso di questo fenomeno è Albert Bandura, grande personaggio della psicologia sociale premiato da Obama, ci spiega come si può essere eticamente disimpegnati restando in pace con se stessi. Aumentare cioè la nostra soglia di de-sensibilizzazione per poter dormire tranquilli.

Nel mondo dell’informazione si affronta spesso questo grande dilemma: fino a che punto è giusto mostrare immagini così dure della morte e della sofferenza?

Quella foto riguarda quelle due povere persone, ma dice anche molto del nostro tempo.

Sospenderne la pubblicazione sarebbe un dramma e aumenterebbe il nostro disimpegno etico.

Mentre non è detto che una foto, come è successo per Aylan, possa smuovere le nostre coscienze e riaccendere l’impegno sociale, etico e civile a cui siamo (o dovremmo sentirci) chiamati a rispondere.

Aylan è stato dimenticato visto che le politiche europee non sono cambiate?

Non è vero che Aylan è stato dimenticato perché continuiamo ad usare il suo nome. Ed è impressionante il fatto che lui sia rimasto nell’immaginario. Non attaccherei la comunicazione quando si interroga sui limiti di quello che deve fare. Piuttosto, l’attaccherei quando, per anni, ha moltiplicato il numero dei migranti “negli occhi” degli uomini.

Non si corre il rischio di attaccarsi ai simboli e non considerare il valore delle vite di persone vere che non hanno occasione di apparire in una foto ad alto impatto?

Sono in disaccordo. Perché noi abbiamo bisogno di elementi di simbolizzazione per riconoscere la nostra vita. Contrariamente a quanto pensa la maggioranza degli uomini non possiamo vivere di sola realtà, ma abbiamo bisogno di simboli. E’ vero che c’è una piccola strumentalizzazione del corpo inerme e indifeso di questi due morti, ma è anche vero che

se loro diventano simboli del nostro tempo, può essere l’inizio di una riscossa.

Quindi possiamo sperare che una foto del genere provochi un sussulto di coscienza anche nella società italiana, rispetto ai temi che ci riguardano?

Direi che la fortuna virale di questa foto è la prova che c’è gente disponibile a pensare a ciò che facciamo.



... Perché una cosa è sapere che 286 migranti sono morti tra Messico e Usa nel 2018, e un altro è vedere solo due di questi poveretti immoti, un padre e la sua bambina che ancora gli cinge fiduciosa il collo. Certe volte la foto di un giornalista audace ci scuote: 286 è un numero astratto, quei due abbracciati nella morte somigliano invece a milioni di padri e figli come noi. L’umana immedesimazione scatta nel rapporto uno a uno: lì, quando vedi che sono genitori come te, con bambini come i tuoi, non puoi sfuggire, non puoi non vedere che c’è qualcosa di radicalmente sbagliato nello sbarrare, nell’alzare muri ciechi, o nel chiudere a prescindere i porti.

E, dunque, s’indigna l’America e non solo per quella foto. Come accadde nel 2015 con Alan, il piccolo annegato e ritrovato su una spiaggia turca. Anche allora la foto percorse il mondo e destò molta emozione, e anche un principio di mobilitazione in aiuto ai profughi. Ma tutto si esaurì presto. Immagini come quelle dal Rio Grande o di Alan sono punte di iceberg che ogni tanto emergono, da una marea di muti e tragici destini. Noi non vediamo i morti di sete nel Sahara, i deboli abbandonati dalle carovane, quelli che cedono nelle prigioni libiche, coloro che salpano dalla Libia e non risultano poi approdati in alcun porto
...

Sospettiamo, e la foto dal Rio Grande tenacemente insiste in questo senso, che accada ogni giorno e sia tragico anche ciò che non è giornalisticamente testimoniato. Ma, passata la commozione del momento, non stiamo forse, e in non pochi, scegliendo di non sapere? Perché il problema è enorme, perché "noi che ci possiamo fare", o, addirittura, perché nei miserabili delle barche bloccate al largo dalle nostre acque molti di noi vedono degli "invasori".

Ma se davvero l’Occidente, tacitamente o persino polemicamente, scegliesse di fare finta di non vedere, più di un governante si sentirebbe autorizzato ad alzare muri, aprire prigioni, decidere deportazioni. In un compiacente distratto silenzio prenderebbe forma un’ostilità che traccia nuovi confini di dignità umana. 

...

Leggi tutto l'articolo di Marina Corradi in Avvenire (27/06/2019):
 Valeria, suo padre e le altre vittime. Nessuno finga di non vedere


Vedi anche il post precedente: