I populismi davanti alle istanze delle religioni
La Turchia, l’India, la Bosnia... L’ultimo numero della rivista “Concilium” rilegge questa ideologia politica mettendola in relazione con le varie fedi, spesso utilizzate a fini identitari
Riappare quando le persone vedono a rischio vantaggi e sicurezze nelle loro vite. Ritorna quando comunità territoriali si sentono ignorate dai sistemi politici o economici. Risorge sulle macerie di contesti pluralistici sgretolati. Sovrappone la sua voce ai lamenti unica modalità di autoaffermazione. Rilegittima il 'vero' popolo di cui si dichiara rappresentante esclusivo per difenderlo dall’oppressione delle élites, dalle minacce degli stranieri. È il populismo, dove non conta il dêmos, ma l’éthnos, come - riferendosi alle correnti nazionalistiche - aveva già intuito Jürgen Habermas. È il populismo con i suoi salvatori pronti a manipolare sistemi simbolici e mediatici, sfruttando i sentimenti di paura della gente, trovando capri espiatori, fomentando divisioni con un vocabolario rozzo se non violento, suscitando nostalgie di un presunto passato felice nel quale recuperare non solo identità e culture, ma anche la religione: beninteso a fini politici. Ecco perché i teologi intervengono su questo tema. Alcuni lo fanno ora sul nuovo numero di 'Concilium' (pp. 198, 16)), la rivista internazionale della Queriniana che titola in copertina proprio Populismo e religione. Il fascicolo (editors Thierry Marie Courau, Susan Abraham, Mile Babic) affronta il tema da tre prospettive: quella storica evidenziando i meccanismi attraverso i quali i leader populisti usano la religione; quella offerta dalle scienze religiose con un’analisi del populismo in chiave politica ed economica; quella teologico-biblica che pure mette in discussione il populismo.
Lungo queste direttrici il lettore trova importanti contributi elaborati in contesti differenti ma dove l’uso della religione per strutturare la collettività nativista e nazionalista si è rivelato egualmente efficace. «Questo potere politico che sfrutta la religione attinge a un senso tradizionalista delle religioni storiche come rappresentanti della tradizione, appunto, della stabilità e dell’identità. I leader populisti, in tal modo, riescono a gestire e a costruire la religione e argomenti teologici focalizzandosi in maniera selettiva su dottrine specifiche, mettendo da parte tanto leader religiosi quanto soluzioni che sono legittimi e pacifici, sterilizzando la libertà interiore…», si legge nell’editoriale di Concilium, premessa ad analisi sulle distorsioni della religione da parte dei populisti. Non solo: «Vari studi sul populismo cristiano indicano che è contrario alla fede e alla dottrina e ostile alla vita di comunione e alla comunità », sostengono i curatori aprendo il fascicolo. In ogni caso, ecco subito sguardi alti su scenari mondiali paradigmatici.
Come la Bosnia Erzegovina descritta da un contributo del francescano Mile Babic (docente alla Facoltà teologica di Sarajevo) sull’opposizione che i populisti specie nei Paesi ex socialisti pongono non ai principi della democrazia rappresentativa (comunque in crisi) bensì del pluralismo e persino della libertà di pensiero (con argomenti ad hominem o ad populum). Come l’India, al centro di un testo del gesuita Francis Gonsalves (preside della Facoltà teologica al Jnana-Deepa Vidyapeeth di Pune nel Maharashtra), sulle tattiche virulente che storicizzano i miti o mitizzano la storia da parte del nazionalismo religioso Hindutva, al contempo minaccia dei processi democratici, affronto al vero hinduismo, ostacolo allo sviluppo delle masse diseredate.
O come la Turchia qui analizzata da Dilek Sarmis (ricercatrice del Cnrs, il Centre national de la recherche scientifique), che riflette sullo sfruttamento della religione da parte delle politiche populiste, offrendo altresì una comparazione tra i primi decontestare cenni repubblicani nel segno della laicità e le sperimentazioni odierne del partito al potere che torna a far leva sull’islam come significante culturale e identitario. Insomma l’inatteso ritorno di obsolete strategie religiose nella sfera pubblica, la ricomparsa dei marcatori religiosi fatti propri dalla politica dopo averli svuotati di ogni contenuto spirituale, come evidenziano in queste pagine François Mabille (pure del Cnrs) per il quadro europeo, e Susan Abraham (della Pacific school of religion di Berkeley), per il quadro americano dell’era Trump (con il suo cristianesimo qui definito «tossico», «machista», «patriottico », ecc. ).
Non è tutto. Il populismo si può ricorrendo ad argomentazioni bibliche, teologiche, ecclesiologiche? Sì. Marida Nicolaci (Facoltà teologica di Sicilia) prova a dimostrarlo con fitti parallelismi nelle dinamiche di costruzione dell’identità del popolo di Dio nella Scrittura; Andreas Lob-Hüdepohl, (direttore del Berliner Institut für christliche ethik und politik) indicando quella sollecitudine per l’'altro' negata dai populisti; Franz Gmainer-Pranzl (Facoltà di teologia cattolica dell’Università di Salisburgo) interrogandosi sui nessi tra 'populismo di destra' (ma ci sarebbero anche quelli di sinistra: Sanders, Mélenchon, Podemos…) e 'cattolicità' come strategia produttrice di miti a uso politico, e auspicando, dopo un’autocritica un nuovo coraggio fondato sulla forza del Vangelo; Carmelo Dotolo, (preside della Facoltà di missiologia dell’Urbaniana) cercando di recuperare gli impegni della Chiesa capaci di stimolare le forze democratiche a neutralizzare le leadership populiste e autoritarie. A essere incoraggiata è sempre la responsabilità della Chiesa come 'popolo di Dio'. E resta di grande attualità la lezione di Johann-Baptist Metz: «C’è un’autorità che è riconosciuta in tutte le grandi religioni e culture: è l’autorità di coloro che soffrono. Rispettare il dolore altrui è condizione di ogni cultura. Dare parola al dolore altrui è presupposto di ogni pretesa di verità. Anche di quella della teologia».
(fonte: Avvenire, articolo di Marco Roncalli 1 giugno 2019)
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